sabato 28 agosto 2010

Di politici e di Preti



L'altro giorno ho visto un'amichetta di mia figlia seduta sul bordo del marciapiede. Si chiama Francesca. Era sola e non appena ha visto mia figlia, un sorriso bello come il sole le ha illuminato il visino. Anche sua mamma è sola e deve lavorare per poter permettersi il sostentamento suo e quello di Francesca. Una storia banale; come tante, in tutte le parti del mondo. Quando finisce la scuola, puntuale come la morte, si apre il dilemma di “che cosa fare dei bambini”.
La mamma di Francesca, come migliaia di altre madri, con o senza marito, il lusso di fare tre mesi di vacanza con i propri figli non se lo possono permettere. Chi è venuto incontro ai bisogni di quella bambina e di sua madre? L'amministrazione comunale? No, ci ha pensato la parrocchia. Almeno per un mese, il Don, assieme a dei ragazzi che volontariamente si dedicano al benessere dei bambini del quartiere, le hanno fatto fare cose molto interessanti e divertenti, formative e salutari. Da un po' di anni a questa parte le cose funzionano in questo modo. Ma non sempre è andata così.
Un tempo i Comuni davano una scelta ottimale di opportunità per l'accoglieza dei bambini durante il periodo estivo; era un po' il fiore all'occhiello delle giunte di comuni piccoli e grandi, progressisti o meno, di sinistra o di centro. Per questo, e non solo per questo, le città erano cambiate e la vita della gente era migliorata in modo tattile. Il paese o la città erano una sorta di famiglia allargata. E il personale politico capiva la gente e la gente capiva il personale politico. Quei Politici (la maiuscola non è un refuso) raccoglievano attorno a sé i volenterosi della comunità, e tutti lavoravano duramente in modo non troppo diverso dai ragazzi che stanno accudendo Francesca. Quella Politica (come sopra) e i suoi uomini sono finiti da un pezzo.
Durante i governi nazionali che si sono susseguiti dagli anni '80 ad oggi, si è addirittura teorizzato che la cura del benessere morale della comunità, era roba da parrocchie, da volontariato. Queste idee erano, purtroppo, patrimonio di una sinistra illuminata o presunta tale. Hanno iniziato ad occuparsi di cose più serie; c’era da discutere con il presidente degli Stati Uniti l’assetto dell’universo e dovevano andare a prenotare il viaggio per le vacanze.
Ora nelle città gli amministratori dicono: non ci sono più soldi e tagliamo i servizi. Naturalmente è vero. Ma solo in parte.
Date un’occhiata ai bilanci di una qualunque città. Confrontate la voci del bilancio di quest’anno con quelli di trenta anni fa. Oggi si spendono cifre impressionanti per l’immagine. Si spendono soldi per convincere i cittadini che la città non fa così schifo come la loro (la nostra) difettosa percezione li porterebbe a credere. Le città hanno un city manager che costa cento volte quanto spende la parrocchia per accudire i bambini del quartiere. E sarebbe interessante misurare se il city manager ha reso alla comunità servizi maggiori, uguali o minori a quelli della parrocchia. Ma un city manager fa molto vetrina. Come fanno la loro figura i presidenti di qualcosa, gli amministratori e i direttori generali di qualcos’altro istituito in nome di un’efficienza e una modernizzazione che non diventa mai materia concreta, mai progresso reale di vita.
Perché, mentre il Prete sgobba per accudire le varie Francesche, chi amministra la città ha una visione più sfumata del suo compito. Il ruolo dell'amministratore moderno è più globale, fatto di acronimi in lingua inglese, che il popolo deve percepire attraverso immagini persuasive e invasive: farlo pensare sarebbe deleterio.
Il Prete crea realtà, costruisce e accudisce. E la comunità lo capisce.
Francesca e la sua mamma sentitamente lo ringraziano. E io mi associo. 

mercoledì 25 agosto 2010

A volte ritornano



Un'estate torrida, questa che sta declinando dolcemente verso l'autunno. Un'estate bestiale, si può tranquillamente affermare. E quando c'è un pericolo, l'informazione di Stato è sempre in prima linea.
Come la deontologia insegna, i giornalisti delle maggiori Tv italiane hanno tralasciato di parlare di bazzecole di colore come la crisi di governo, per affrontare di petto le notizie che veramente interessano gli italiani: la comparsa di ferocissime bestie in ogni parte della nazione.
Hanno sfoderato i taccuini per descrivere la tigre che si aggirava per Firenze (alla fine si è scoperto che trattavasi di gatto, ma poco importa), hanno fatto inchieste ponderose per inchiodare alle proprie responsabilità i due pitoni catturati a Palermo (il rettile era stato messo dalla mafia a guardia di un carico di droga) e Traversetolo di Parma (agiva sotto falsa identità: era una biscia erbaiola). L'agenzia Adnkronos ha calato sul tavolo il carico da undici informandoci che il ministro Calderoli ha in casa due lupi e un orso, oltre a un cavalllo e quattro pastori caucasici (Barabba, Calzino, Nerone e Bianca).
È passato, invece, in secondo piano lo scoop di una testata che ha riportato una notizia sconvolgente. Sentite.
Diceva di chiamarsi William Mc Gills ed armeggiava sulle sponde del Tevere, a Roma, con una bistecca attaccata alla sua canna da pesca; affermava che era alla caccia di uno squalo e che se lo catturava gli avrebbero dato una ricompensa di un milione di dollari. Sembra una affermazione strampalata, ma forse non è così.
Infatti potrebbe trattarsi di uno squalo voracissimo, clasificato dagli etnologi (ma anche dagli enologi) come Piscis Vorax Socialistibus; una particolare specie ittica proveniente dalla Tunisia. Nel tempo è riuscito ad assumere una dose massiccia di anticorpi che gli ha permesso di uscire indenne a tutte le mattanze organizzate da una ditta specializzata che ha sede a Montenero di Bisaccia, piccolo centro del molisano. Quasi estinto nel 1992, l'ultimo esemplare di questa specie fu portato nell'oasi naturalistica di Hammamet; lì si è riprodotto a dismisura (in misura ben superiore alla categoria primigenia) ed è riuscito agevolmente a risalire i mari sino a giungere nel suo habitat naturale: le coste italiane. Durante la trasmigrazione il Piscis Vorax Socialistibus è riuscito tranquillamente ad eludere i controlli dei militari della guardia costiera, impegnati allo spasimo ad affondare barconi pieni di venditori di accendini e acconciatrici di treccine da spiaggia. Ora lo squalo è vicino al Parlamento: si presume che andrà a trovare i suoi amici.
William Mc Gills è vicino alla sua ricompensa...

venerdì 20 agosto 2010

La missione impossibile di Rimba



Il sergente Rimba dormicchiava sull’aereo. O meglio aveva gli occhi chiusi. Sembrava sempre che dormisse; questo lo fregava. Lui non dormiva, si rilassava. L’adrenalina era a mille. Il suo superiore, il generale Bob O’Mahrony, gli aveva affidato la missione più importante dall’operazione Desert Storm: quella di entrare nell’enclave malavitosa dell’Oltretorrente, nella pericolosissima Parma. Nessuno da anni c’era più entrato: i parmigiani erano banditi (nel senso che non ci potevano mettere piede).
E così sarebbe stato ancora per molto tempo, senonché bande di venditori di accendini, comandati da un pulitore di vetri polacco, avevano preso in ostaggio tre parmigiani Doc: Vanni di Corcagnano, Wolfram il meccanico (nato a Reggio Emilia, ma residente da anni alla Crocetta) e Ok Frambati. Troppo, anche per il più tranquillo dei mangiatori di tortelli di erbetta.
Il sergente Rimba si fece paracadutare (sempre con gli occhi ridotti a una fessura, questo lo fregava sempre) nei pressi del Ponte di Mezzo. La limitata visione ottica fece sì che il suo atterraggio avvenisse proprio nel bel mezzo di un pentolone pieno di Cous-cous. «Cazzo - disse - tutta questa verdura. E nemmeno un bicchiere di Lambrusco». Pattuglie di pensionati, ex-sorvegliatori di cantieri, ex-visionatori di terminali fuori dalle banche, ora, grazie alla flessibilità voluta dal Governo, si erano trasformati in controllori della linea rossa di Parma. Nessuno sfugge al loro controllo. Il sergente Rimba fece vedere l’abbonamento annuale del Teatro Regio e fu fatto passare tranquillamente.
La scena che gli si parò davanti fu agghiacciante: decine di negri che parlavano al telefonino negli spiazzi erbosi, ucraini che pisciavano contro il muro, albanesi con la maglia del Sassuolo. Rimba vomitò per la rabbia. La fronte del sergente era rigata da rivoli di sudore. Si appoggiò al muro con la sigaretta in bocca come aveva visto fare nei telefilm americani. Questa postura gli fece ritornare un minimo di tranquillità. Ma fu solo una tregua.
Nell’aria aleggiavano le note di una orchestra etnica: era una dolce musica tzigana. Rimba seguì come un cane da tartufo quelle sgradevoli note e arrivò in un attimo in piazza Picelli. Perse i sensi e dovette attaccarsi ad un palo, dopo aver scostato un montenegrino che urinava. Vanni e Wolfram il meccanico erano in mezzo alla pista e stavano limonando sulle note della ballata con due ragazze di etnia Rom. L’orchestra era quella di Ok Frambati.
Calde lacrime salarono la guancia del cazzuto sergente. «Al confronto, Bagdad era Mirabilandia», sussurrò prima di avere un mancamento.

martedì 17 agosto 2010

Quel tram chiamato desiderio



Delocalizzare” sembra essere la parola più in auge negli ultimi tempi. Per indorare un po' la pillola la chiamano anche outsourcing; spruzzare qualche parola di idioma straniero serve ad ottenebrare la mente. Si delocalizza, però, solo dal basso: in pratica ci rimettono solo le manovalanze, che, quando non sono esautorate dal proprio lavoro, sono spostate come pedine in una scacchiera universale.
Nel nome della globalizzazione, le industrie sono riuscite a delocalizzare di tutto. Senza che nessuno si lamentasse più di tanto.
La prima categoria che si è approfittata di questo nuovo vocabolo sono stati i giornalisti (furbi li siamo sempre stati, questo è indubbio). Un reporter del New York Times, fu licenziato qualche anno fa: diceva di essere in un posto, mentre invece era comodamente seduto nella poltrona di casa sua. Si era delocalizzato, insomma.
Ma il punto non è questo.
Quando cominceremo a delocalizzare anche gli amministratori delegati? Magari un manager cinese ha uno stipendio più ragionevole dell'intero Cda di Metroparma, per esempio.
E che dire di un sano outsourcing anche per gli amministratori? Vuoi vedere che un sindaco indiano (che, con i tempi che corrono, sarebbe stato senz'altro assunto con un parco co.co.co.) non avrebbe gettato alle ortiche trenta milioni di euro per una metropolitana che non si farà mai, come invece hanno fatto a Parma?
Perchè non delocalizziamo dall'alto, per una volta? 

venerdì 13 agosto 2010

Storia di Giornalisti e di giornalisti



L'incidente frontale che è costato la vita il 23 aprile del 2007 ad un uomo di 73 anni in una strada della California, di per sé era una breve di cronaca, anfrattata magari in una colonna.
Ma quest'uomo si chiamava David Halberstam e allora tutto si complica maledettamente. Il giornalismo ha perso il miglior reporter che l'America ha avuto negli ultimi cinquant'anni: questo giudizio, avallato da molti esperti del settore, non è tanto un verdetto quanto un rimprovero all'attuale generazione di giornalisti.
Halberstam non è assurto agli onori delle cronache per i suoi pezzi mirabolanti, né tantomeno per i suoi fondi illuminati. Halberstam è famoso perchè è riuscito a tenere testa alle autorità statunitensi e per non essersi lasciato intimidire quando lo avevano accusato di essere un traditore. Uno con le palle, insomma.
La sua storia giornalistica inizia nel 1955, quando si rifiutò di fare gli stage. Queste sono le sue parole: “Non volevo portare i caffè a nessuno, volevo fare il giornalista”. Cominciò così a fare la gavetta in sconosciuti quotidiani locali, meritandosi la fama di rompiscatole per le sue idee troppo progressiste. Licenziato più volte nel giro di pochi anni, un bel giorno ricevette una telefonata dal New York Times. Venne assunto.
Ben presto capì che quello non era un punto di arrivo, ma solo la partenza: il caporedattore Wally Carrol gli fece riscrivere il primo articolo cinque volte prima di passarlo alle stampe. Sei mesi dopo era in Congo per occuparsi della rivolta che era scoppiata in quel paese. Fu ferito, e poi nel '62 partì per il Vietnam. Laggiù capì che le cose non andavano come si leggeva dalle colonne dei giornali statunitensi e cominciò una campagna contro la corruzione che imperversava nelle autorità degli alleati sud-vietnamiti. Fu particolarmente duro con la cognata del presidente che commentò: “Halberstam dovrebbe essere arrostito e sarei felice di fornire personalmente benzina e fiammiferi”.
Ma i suoi reportage infastidivano – e parecchio – anche la Casa Bianca. Kennedy chiese all'editore del New York Times di far rientrare Halberstam. L'editore non solo respinse la richiesta ma annullò anche le ferie del reporter per evitare di far credere al presidente di aver ceduto al suo “suggerimento”. Una grande vittoria del giornalismo.
Ma la soddisfazione più grande per Halberstam fu il giorno di una conferenza stampa che, come al solito in tutte le parti del mondo, non doveva dare nessuna informazione.
Il portavoce dell'esercito statunitense cominciò a dire che alcuni gironalisti stavano “intralciando” l'esercito e che dovevano piantarla. Halberstam aveva solo 29 anni e la stanza era piena di ufficiali. Il giornalista con il cuore che gli batteva all'impazzata si alzò e disse: “Non siamo i vostri caporali, né i vostri soldati. Lavoriamo per il New York Times e non per il Ministero della Difesa”. Disse poi che il popolo americano aveva il diritto di sapere e che lui avrebbe continuato a fare domande. Più tardi avrebbe scritto in un libro di testo rivolto agli aspiranti reporter: “Non fatevi intimidire. Mai”.
Ve li immaginate i vari direttori delle testate nazionali e locali oppure i capoccia della Rai? Si sarebbero comportati come Halberstam? Ma va là...  

lunedì 9 agosto 2010

Tu m'inurbi


L'ultimo è stato avvistato a Breccanecca, nell'entroterra ligure. Il Wwf si sta attivando per evitarne l'estinzione. Ma il “bambino con la palla che gioca per strada” è praticamente introvabile. Un tempo popolava cortili, spiazzi e anche gli androni dei palazzi (in caso di maltempo).
Si poteva riconoscere dalle croste sui ginocchi, che in alcuni casi potevano raggiungere i cinque centimetri di spessore.
Alcuni esemplari più evoluti calzavano scarpette da calcio a sei tacchetti intercambiabili anche nel giorno della prima comunione, e intervenivano in tackle scivolato sul Vescovo al momento dell'ostensione.
Gli studiosi hanno trovato, durante alcuni scavi effettuati a Parma, gli scheletri dei primati di questa, un tempo diffusissima, specie; si tratta dei Pedis Immunda, volgarmente detti piedi neri. Quest'ultima categoria si contraddistingueva per l'assoluta mancanza di calzature. Lo scheletro del Pedis Immunda è stato ritrovato nel cavedio di una casa popolare con un pallone Super Tele stretto in grembo.
Alla notizia della sua probabile estinzione i proprietari di garage hanno mandato alle agenzie di stampa una nota di giubilio. I bambini con la palla, infatti, sceglievano il loro habitat naturale in corrispondenza delle saracinesche, riducendole nel tempo in lamiere piene di avvallamenti.
Una sottoscrizione per salvare questo esemplare ligure è stata lanciata dall'Avi (associazione vetrai italiani), i cui affari stanno attraversando un trend decisamente negativo soprattutto a causa dell'estinzione della sottocategoria dei tiratori di controbalzo.
Il loro metodo di comunicazione si basava quasi esclusivamente su brevi frasi nel vernacolo locale, inframezzato da bestemmie e turpiloqui.
Catalogati dagli etnologi nella sottospecie della generazione spontanea dell'asfalto, i bambini con la palla erano una specie nomade, che transumava nelle aree verdi cittadine, oramai quasi scomparse a causa di amministratori così bravi a fagocitare i ricordi.
Il loro nemico principale era l'Homus incazzatuus, noto come il portiere di condominio, una specie umana di dimensioni notevolmente maggiori. Per questo, il “bambino con la palla che gioca per strada”, era dotato di un notevole scatto, qualità che gli ha permesso un lungo ciclo vitale. Contro i palazzinari, però, poco hanno potuto.
P.s.: sentite questa. Calciobalilla vietati, dopo le dieci di sera, a Villa d'Ogna, paesotto dell'alta Val Seriana, provincia di Bergamo. Motivo? Troppo rumore. Un consiglio all'ultimo “bambino con la palla che gioca per strada”: scappa dall'Italia. Finchè puoi...

venerdì 6 agosto 2010

Il prezzo dell'informazione



C'era una volta l'intellettuale. Ovvero la persona che usava l'intelletto in tutte le sue molteplici sfaccettature. Antonio Gramsci era uno di questi.
Dei tanti argomenti dei quali si occupò c'era anche quello del prezzo dei quotidiani.
Gramsci diceva che il prezzo dei giornali non doveva essere troppo basso perchè indicava il valore – non solo economico – che gli editori attribuivano ai giornali e ai giornalisti. Anche la politica e i “poteri forti” entravano in questo ragionamento.
Al giorno d'oggi i quotidiani che vanno per la maggiore, soprattutto nelle grandi città, sono i free press, ovvero contenitori su carta di informazioni alla rinfusa a prezzo zero; ci sono addirittura gli strilloni che ti vengono incontro con la copia fresca di stampa.
Stesso discorso per le televisioni: i palinsesti delle Tv sono alla portata di tutte le tasche, ma la conduzione dei programmi è affidata troppo spesso a shampiste o bellimbusti imbellettati. Per capire lo spessore giornalistico dei Tg basta dare un'occhiata alle scalette di questi giorni.
L'intelletuale comunista non è vissuto abbastanza per assistere allo sbarco dei quotidiani su internet: i giornali si leggono gratis e il loro sostentamento è basato essenzialmente sulla pubblicità, con buona pace della terzietà dei giornalisti. Stesso dicasi per siti internet e blog. Insomma tonnellate di informazioni, rigorosamente gratis. Ma il prezzo – per niente economico – che stiamo pagando è altissimo.
C'è una frase di uno scrittore colombiano che sintetizza a meraviglia la situazione attuale. Efraim Medina Reyes dice: “la stupidità è un male che si diffonde anche leggendo spazzatura”. Come dargli torto.

martedì 3 agosto 2010

Questa storia...



A volte si ferma all'osteria di Brunin quando finisce di lavorare. Mada ha un'età indefinita, una dignità assoluta e vende i vestiti sulla spiaggia.
Porta la cesta sulla testa come un equilibrista impugna il bilanciere tra le mani; quando è senza la gerla cammina allo stesso modo: testa eretta e spalle dritte. Mada sorride sempre e viene dal Senegal.
D'inverno fa la badante a Busalla; all'inizio dell'estate molla tutto e propone ai bagnanti della Liguria vestiti dai colori corruschi e camicione dalle nuance levantine.
In agosto prende il traghetto e parte per Sardegna per fare le treccine ai capelli di ragazzine viziate di Roma o di Milano.
L'altro giorno si è seduta sotto la veranda di Brunin; era stanca dal troppo camminare. Ha preso due bottiglie di acqua ghiacciata: una per sé e l'altra per chi la voleva, perchè Mada è fatta così.
Il più delle volte ascolta; sgrana gli occhi e segue i discorsi delle persone con la curiosità di una intelligenza bambina. Raramente parla della sua terra, quasi ne fosse gelosa. L'altro giorno ha accennato a qualcosa, poi si è fermata di botto, portando il suo fuoco ottico all'infinito, oltre alla ferrovia, la spiaggia, il mare. “Prima a Dakar si stava bene, ma bene veramente”, ha detto, prima di rinchiudersi in un mondo inaccessibile agli umani.
Il Senegal era un paese dignitosamente povero, basava gran parte delle sue esportazioni sulla pesca, e l'ingresso di valuta pregiata dall'estero ha posto in second'ordine i bisogni dei 35.000 pescatori locali. Con una serie di accordi economici, i governanti senegalesi danno annualmente in concessione lo sfruttamento delle aree di pesca del Senegal ad altri paesi: il contraente più privilegiato è l'Unione europea. Gli effetti sono disastrosi: mentre i grandi pescherecci d'altura prelevano migliaia di tonnellate di pesce – gettando poi via il 90% delle catture – vicino alla riva i pescatori senegalesi non hanno letteralmente più nulla da mangiare. Sono costretti ad avventurarsi sempre più al largo, con povere imbarcazioni che non sono adatte a fronteggiare il mare aperto. E così sono sempre più frequenti i resoconti di incidenti, anche mortali, in cui grandi navi da pesca piombano in mezzo alle reti distruggendole e rovesciando le barche. Il problema della pesca e delle conseguenze sociali che esso comporta già adesso, ma che si svilupperà in modo sempre più drammatico in futuro, è talmente grande che nessuno può nasconderselo sotto il tappeto. I poveri pescatori senegalesi vanno di giorno in giorno ad ingrossare le bidonville di Dakar. I più fortunati riescono a scappare da quell'inferno. Mada è una di quelle.
L'acqua è finita e il treno per Genova sta arrivando. Mada se ne va, dopo aver raccolto e messo in bilico sulla testa la sua cesta. Appena uscita dalla veranda un uomo le sibila una frase il cui explicit dice “tornatevene a casa vostra”. Queste quattro parole stridono come il controcanto di un ubriaco in un pessimo piano bar di provincia. Ma Mada sorride. Sorride e se ne va. 
(Foto da www.esvaso.it)