Nessuno
me lo toglie dalla testa: Matteo Renzi sta costruendo le basi di una
nuova forza politica.
Considerando
il suo inesausto curriculum politico (fateci caso: è sulla breccia
da una decina di anni, ma sembra coevo di Giorgio Napolitano),
potrebbe chiamarla, che so, la Cosa 5 o 6. È stato segretario del
Pd, presidente del Consiglio, candidato premier del centrosinistra:
tutte e tre le cariche in pectore, naturalmente. La sua peculiarità
è quella di prendere tremende scoppole (vedi referendum, scissioni,
esiti delle elezioni) con la rara capacità di incassare il colpo
senza spettinarsi.
Ora
lancia il guanto di sfida alla compagine di Governo con una
coalizione Repubblicana, strizzando palesemente l’occhio ai sodali
di Forza Italia (anche loro, malinconicamente, sul viale del
tramonto) e a tutti i partiti dell’arco costituzionale purché non
abbiamo nuance grilline o leghiste.
Come in
tutte le altre coalizione che lo sostenevano, cerca di incollare i
pezzi del suo personale collage, fatto più o meno con gli stessi
pezzi, ma ogni volta con una composizione leggermente diversa, come
un virtuoso dell’ikebana.
Esattamente
come Di Pietro, la sua sfortuna è quella di non capire che quando
una cosa riesce a meraviglia, è meglio non sfidare ulteriormente la
sorte. La storia dei due è molto simile.
Renzi
con lo straordinario successo delle europee del 2014, Di Pietro con
l’arresto di Mario Chiesa, avevano segnato un gol alla Messi. Lo
stadio li applaudiva, la critica li osannava. Li aspettava la
gratitudine eterna del popolo e una bella doccia calda.
Perché
insistere?...