mercoledì 20 giugno 2012

Il sasso (Racconto)




Si chiama Ignazio ed è un bravo ragazzo, ma bravo davvero. Non si direbbe nemmeno che è straniero. Il nome di battesimo aiuta in questi casi. Ignazio suona anche come un nome spagnolo.
Quando glielo imposero, in Sicilia, i suoi genitori pensavano già di emigrare in Venezuela. Partirono che Ignazio non aveva ancora compiuto due anni. Nemmeno se lo ricorda, il viaggio.
Suo fratello Carmelo, invece, era già più grandicello. Sette anni è l’età giusta per catalogare ricordi nella memoria.

Babbo lavorò duro. Faceva parte dell’esercito dei “Pane e pepsi cola”; uomini che faticavano sedici ore al giorno. Non si fermavano nemmeno per mangiare. Nel cestino che si portavano al cantiere, nelle fabbriche, nelle raffinerie di Maracaibo, c’era un tozzo di pane e una bottiglia di Pepsi.
Papà era riuscito ad evitare l’inferno di Caracas: quella città, anche allora, era grigia, sporca e confusa come un incubo. Erano riusciti a  costruirsi una povertà dignitosa a Puerto La Cruz, sulla costa. Una casettina a pochi metri dal mare. Dal cancello di casa alla spiaggia c’era solo la carrettera. Ignazio crebbe in quella località: un porticciolo e poche case. Più barche che macchine, più capanne che case. Il cielo era come una lavagna vergine: fin troppo semplice contare le sette stelle. In poco tempo, grazie ai Pane e Pepsi cola, Puerto La Cruz diventò una cittadella.

Probabilmente Ignazio non sapeva nemmeno che quel tipo di macchina fosse esistita. Era una Ford Mustang, 3.300; 120 cavalli a 4.400 giri al minuto. Macchine americane ne circolavano poche in Venezuela. Quel muso grintoso, quel radiatore che sembrava una bocca spalancata, quei due fanali come occhi ammiccanti, fino a qualche tempo prima si potevano ammirare solo sui giornali, sulle reclame della lacca per capelli – quelle infilate nel cassetto del barbiere, con il corredo di donnine nude. Poi il boom economico legato all’estrazione del petrolio aveva dato il via libera al superfluo. La Mustang era il superfluo, lo status symbol.
Una di quelle icone, nera e tutta cromata, passò per la carrettera di Puerto la Cruz un pomeriggio-quasi sera di giovedì due settembre. Proprio in tempo per falciare Carmelo, che di anni ne aveva diciannove. I testimoni dissero che Carmelo l’italiano non si scansò quando stava passando il bolide, che non fece nulla per evitare l’impatto con la Mustang. Era immobile, quasi ipnotizzato.

È giusto dire che Carmelo aveva una passione smisurata per le quattro ruote. Tanto che fece di tutto per farsi assumere nell’unica officina di Puerto La Cruz. Lì arrivavano solo vecchi catorci, palliativi di jeep, pick up improbabili, vecchie Ford semidistrutte. Carmelo era diventato uno specialista; carburatori e semiasse non avevano più segreti per lui. Muoveva le chiavi inglesi come se fossero tasti di pianoforte; il rombo imperfetto dei motori era una sinfonia per le sue orecchie. Bilanciava le gomme di camion obsoleti con una Belmond pendula che formava un tutt’uno con il labbro inferiore. La Mustang per lui era un miraggio, il sogno di una vita. E anche di più, molto di più. Quel sogno su quattro ruote passò dalla carrettiera di Puerto la Cruz quando Carmelo aveva finito l’ultima sigaretta. E il tabaccaio era proprio al di là della carrettera.

Riportarono a casa quel che rimaneva di Carmelo poche ore più tardi. I piedi calzavano solo una ciabattina da poco prezzo intrecciata da qualche minore in qualche sperduta landa orientale. L’altra ciabatta non la ritrovarono più. La gamba destra spuntava dai jeans con una postura irreale; formava una P con l’altra gamba. La faccia era miracolosamente intonsa; il pallore violaceo del viso metteva ancora di più in risalto l’incavo giallo sul labbro inferiore: era lì che la Belmond stazionava per buona parte del giorno. Arrivò Padre Hugo a distribuire parole di conforto a mamma e papà. Irrorò la stanza di frasi blandamente consolatrici. Ignazio stava in un angolo. Le lacrime scorrevano mute, senza singhiozzi, come semplice risposta al mondo. La vita scorreva tranquilla - prima.
All’improvviso capitò la morte - dopo.

Fu recapitato un mazzo di fiori. L’aveva mandato l’autista della Mustang nera che giovedì due settembre in un pomeriggio-quasi sera sfrecciava sulla carrettiera di Puerto la Cruz.
L’inchiesta per la morte di Carmelo Iozzia di anni diciannove, finì ancora prima di iniziare. La colpa fu attribuita alla vittima che non fece nulla per evitare di essere investito dalla Mustang nera. Anzi – e i testimoni lo dichiarano al posto di polizia – quasi favorì l’investimento. I genitori di Carmelo non vollero nemmeno andare troppo a fondo, tanto nulla e nessuno poteva restituirgli il figlio primogenito. Papà iniziò a sostituire le Pepsi Cola con decine di cervesa Polar. Mamma invece continuò a snocciolare il rosario che si era portato portata da Santa Teresa di Riva. Lo srotolava tutte le sere prima di addormentarsi, da quando aveva otto anni. Ma dalla morte di Carmelo, quel rosario girava più velocemente - quasi con furore. Per mamma era una immaginaria corda che l’avvicinava al figlio: ogni giorno un centimetro più vicino a Carmelo, al suo Carmelo.

Ignazio continuava ad essere un bravo ragazzo, ma bravo davvero. La morte del fratello portò in lui un cambiamento che aveva la forma di un sasso oblungo. Ignazio lo portava sempre appresso, in tasca. Lo raccolse per strada la prima volta che vide parcheggiata una Mustang, due settimane dopo la morte di Carmelo. Sembrò quasi un gesto scontato, un movimento primigenio - incontrollabile. Prese il sasso e rigò la Mustang. Un solco profondo il giusto per intaccare la carrozzeria. Tolse la vernice per un lungo filo lungo la fiancata. Quella riga sembrava la carrettera di Puerto la Cruz. Dritta, senza il compromesso di una curva. Dritta, sino al punto in cui si interrompe improvvisamente davanti ad un monticello di vernice metallizzata. Lui guardò con disinteresse quella perfettissima ferita sulla portiera: la mano colpevole non ebbe nessun tentennamento. Non sentì alcun rimorso, sentì solo che aveva fatto la cosa giusta. Era solo una sensazione, certo. Ma si sa quanto sono importanti le sensazioni quando tutto è inspiegabile. Poi, con il tempo, riuscì a dare un nome a quella sensazione. La chiamò vendetta.

Quella di Ignazio era una caccia alla Mustang 3.300. Una ossessione. Ovunque andasse, il suo sguardo indagatore si posava sui parcheggi. I suoi posti preferiti erano gli stadi e i supermercati.
Con il passare del tempo, la Ford cambiò i modelli della Mustang. Ma Ignazio era un purista: a lui interessavano solo le 3.300, 120 cavalli a 4.400 giri al minuto. Perché è così che ti frega la vita. Ti semina dentro una immagine o un odore o una parola o una macchina e te li porti dietro per tutta la vita. Ma deve essere esattamente quello. E quello per te è felicità o dolore o amore. O qualsiasi altro sentimento contingente.

Ignazio studiò. Grazie anche a quel nome spagnoleggiante, riuscì ad essere amico di tutti, si collocò come una tessera di un puzzle nel mosaico di Puerto La Cruz. Con pochi bolivar comprò un bar, che diventò un ristorante, che si trasformò in un hotel a cinque stelle. Poi ne costruì un altro e un altro ancora. Non aveva ancora trent’anni che era ricco, ma ricco davvero. Era pieno di impegni, ma nulla poteva impedirgli di andare nel piccolo cimitero di Puerto La Cruz ogni dannato giorno. Sulla tomba di Carmelo avevano messo la foto “buona”, quella scattata appena arrivati in Sudamerica. Era sul banco di scuola, tutto ben pettinato, con la scriminatura perfetta e il sorriso obbligato. Carmelo odiava quella foto. Ignazio lo sapeva. Sapeva che il fratello avrebbe preferito quella che i suoi amici gli avevano scattato sul lungomare, con gli occhiali a specchio, i capelli scarmigliati e la sigaretta pendula. Quando i suoi genitori morirono – cirrosi e crepacuore – Ignazio cambiò la foto sulla lapide. Papà e mamma, tanto non si sarebbero arrabbiati nemmeno da morti. Avevano preferito farsi seppellire a Messina. Ignazio era un bravo ragazzo, ma bravo davvero. E un giorno lanciò il sasso che aveva in tasca.

Si trovava a Ciudad Bolivar, in uno dei tanti alberghi di sua proprietà. Si fece portare con un taxi sul ponte che scavalca un tratto del rio Caronì. Lanciò quel pezzo di vendetta ignea nel punto dove la corrente era più impetuosa. Lo lanciò con tutta la sua foga. Il pomeriggio prima aveva comprato una Mustang 3.300, nera e tutta cromata. Oramai era uscita di produzione da un bel pezzo. Ignazio non volle nemmeno raccogliere informazioni sul precedente proprietario. Forse era proprio lui. Prese il sasso che aveva in tasca e cominciò a rigare la carrozzeria. Poi solcò anche l’altra fiancata. Rifece il gesto un'altra volta e un altra ancora. Arrivò sino al cofano e salì sul tettuccio, per arrivare al bagagliaio. Ridiscese sino all’altezza della targa. Si accorse, però, che quel gesto non gli dava più nessuna sensazione. Nessuna. Allora decise di sbarazzarsi di quel sasso. La pietra della vendetta.
Ritornò a passi lenti verso il taxi che lo stava aspettando con il motore acceso, come Ignazio aveva chiesto. Camminava lentamente, intorno ad ogni pedata, sul suolo sdrucciolevole, fioriva l’acqua spremuta dalle foglie. Diede un ultima, fugace, occhiata al ponte. Fece per aprire la portiera. Vide per terra, ancora umidiccio, il sasso. Non uno qualunque, ma quel sasso, tutto smerigliato dai troppi raschiamenti. Lo raccolse e se lo rimise in tasca, dove era stato per tanti, troppi, anni. Ignazio sorrideva. Appena arrivato a Puerto La Cruz fece costruire una piccola teca rivestita di velluto azzurro. Incastonò la pietra dentro alla teca. Ora il sasso, quel sasso, non uno qualunque, è proprio sotto la foto scarmigliata di Carmelo. Se passate da Puerto La Cruz andate a dare una occhiata al cimitero.
La pietra è ancora là. 

martedì 12 giugno 2012

Il degrado imposto




Lo so che non leggete questo blog e non so neppure se ne leggete uno qualunque. A questo punto non so nemmeno se leggete. Se vi informate su cosa significhi libertà e arte e degrado. Ma ho la speranza che qualche amico di qualche vostro amico ve ne dia indiretta informazione. Voglio che sappiate che mi state sui coglioni, e tra le indecenze in cui sono costretto a vivere voi avete un posto di massimo rilievo. Mi mettete le mani nel sangue e non perché siete semplicemente dei pittori incapaci, ma perché il vostro è un esercizio assoluta arroganza.

Mi ripugna sapere che qualcuno di voi va in giro a dire di se stesso che è anarchico, libertario, comunista. Avete visto da qualche parte in tv o sentito dire dai più vecchi che c'è una generazione di artisti di strada che ha cambiato la faccia delle peggiori periferie del mondo dipingendo immense superfici immonde e spoglie; vi è sembrata una buona idea scopiazzare qualcuno dei motivi più facili e applicarlo dove vi veniva più comodo.

Ogni santa mattina prendo il treno e l’approccio con le stazioni sono tutto un triste murales di nessuna arte imbibito. Scarabocchi colorati ci sono anche sui convogli dei treni, sulle poltroncine degli scompartimenti. Ma avete “lavorato” anche nel centro delle città e su quel po' di decoro e di bellezza che le città si sono svenate per realizzare, mettendoci anni, mettendoci i soldi di quei pochi che pagano le tasse. Avete distrutto ciò che appartiene alla comunità. Vi piace l'impunità, è anche per questo che siete arroganti.

Odio che qualcuno mi imponga qualcosa, lo odierei anche se si chiamasse Enrico Malatesta o san Francesco; e voi mi imponete la spazzatura frutto della vostra insulsaggine creativa. Non siete nemmeno l'ombra dei writer. Non sarà un caso che quei pochi writer che passano dalle città, le loro (poche) opere davvero belle, perlomeno interessanti, occupino i grandi muri allo scalo merci, danno respiro e allegria a un posto infame. La comunità dovrebbe ringraziarli, voi non potete che invidiarli.

E mi riferisco a quei puberi analfabeti che incidono il loro amore eterno con le frasi dell'assoluta banalità, e nel giro di un paio di mesi saranno traditi e traditori di quell'amore alla Moccia, edizione tascabile.
Dico a quelli che tracciano la A di anarchia sul negozio dove si sono appena fatti comprare i Monclair, e sarebbero la vergogna di un anarchico, se ne avessero mai incontrato uno vero.

Vorrei proprio sapere quanti di voi sono figli di disoccupati, di operai, orfani, abbandonati, e quanti figli di avvocati, di commercialisti, di insegnanti, di giornalisti. Quanti di voi vanno a farsi il mazzo al mattino per comprarsi il pane per il mezzogiorno e lo spray per la notte. Dovreste rispondere di ciò che fate, pagare il danno che procurate, rimettere a posto ciò che avete sporcato.

Accettare il degrado è morire, sopportare che ti venga imposto, è suicidarsi.

martedì 5 giugno 2012

Emilia, non vinca l'indifferenza




Ciò che è accaduto nei giorni scorsi in Emilia è inimmaginabile. Lo è nel senso letterale: non disponiamo delle risorse intellettuali per trasformarlo in immagini efficaci. Paesi interi ridotti in trenta secondi di tempo all’età della pietra. Morti sepolti vivi, migliaia di sfollati, edifici e capannoni che crollano come castelli di carta: sono informazioni e immagini che riceviamo e che non siamo in grado di utilizzare per produrne uno stato d’animo che ci collochi efficacemente all’interno di quell’avvenimento. Più di mille frame servono a capire gli avvenimenti gli occhi opachi degli anziani che hanno avuto la fortuna di sopravvivere. Alcuni dicono che, quella notte. “è stata peggiore di quella dei bombardamenti”. Hanno perso tutto. Lo dicono con gli occhi lucidi; sembrerebbe quasi che siano in procinto di piangere: ma non lo possiamo dire con esattezza, loro hanno sempre gli occhi lucidi, anche quando giocano a carte nell’osteria del paese.

Un piano sequenza sulle macerie ci ha mostrato proprio una vecchietta, seduta su di una seggiola di plastica posticcia. Di fianco a lei c’era una pianta grassa. Una di quelle piante spinose che non vedono mai la luce. E nemmeno il sole. Tuttavia in virtù di qualche cosa che io chiamo miracolo, vivono. Ammiro profondamente queste piante brutte e pericolose: sono una ostinazione tutta particolare del vivere con eroismo silenzioso da cui dovremmo imparare ogni giorno

Non c’era quadro migliore per rappresentare l’Emilia ferita. Non ci riuscirebbe il racconto migliore, le immagini – fotografiche o televisive -  più efficaci. Quella immagine di silenzio mi ha insegnato molto, e molto ha insegnato anche agli emiliani: alla fine, molti preferiscono tacere, sopraffatti dall’inadeguatezza delle loro stesse parole a far comprendere appieno ciò che hanno vissuto.

Ciò che facciamo quando una cosa non riusciamo nemmeno a immaginarcela, quando ci è impossibile “farcene una ragione”, è di far finta di niente. Accantoniamo, releghiamo in un posto sicuro e inoffensivo, lasciamo perdere. Di solito è un’operazione che riesce.

Operazione di autodifesa, naturalmente, pulsione di conservazione, ed egoismo. Perché può capitarci di non essere sopraffatti tanto dall’enormità della tragedia altrui, ma piuttosto dal peso che un nostro coinvolgimento ci graverebbe sulle spalle. Perché ci è stato insegnato, nel corso dei secoli, che non può esserci indifferente ciò che grava su una parte degli umani, ma quel peso grava su tutto il genere umano. La nostra parte ha un nome, e non è “elemosina”. L’elemosina, se non vogliamo dare un tono spregiativo alla parola, ne è solo a sua volta una piccola parte. Il nome per esteso è: compassione e misericordia. Espressioni note a tutte le culture e le religioni della Terra, con modeste variazioni di lessico e significato. Se condividi la pena del tuo fratello umano, dividi con lui ogni cosa che tu hai. Tu gli appartieni e lui ti appartiene.

E questa è la seconda lezione da questa tragedia emiliana. Cerchiamo di farne tesoro...