giovedì 28 aprile 2011

Referendum, referendum


 


Forse è una deformazione professionale. Il fatto di chiedere alle persone che cosa ne pensino di un certo argomento, dovrebbe far parte del bagaglio professionale di qualsiasi giornalista. Così il lettore riesce ad essere parte integrante del prodotto di cui lui stesso usufruisce ogni santa mattina.

Credo che sia per questa ragione (molto personale) che ho una venerazione per il sistema del referendum, per questa forma di democrazia che chiama il popolo a esprimersi nel controllo diretto e immediato sul lavoro legislativo del suo parlamento. Passo anche sopra alle sue limitazioni, all'idea che il popolo possa solo abrogare e non proporre, ma ci tengo al referendum come alla cosa più preziosa che mi è rimasta per affermare la mia cittadinanza.

Il potere politico ha elaborato nel tempo troppi mezzi per sfuggire al mio controllo, per eludere il mio mandato di elettore, per farsi i fatti suoi, nonostante i solenni impegni che, con me, si è preso.

L'istituto del referendum è stato massacrato negli ultimi venti anni. Ai poteri non piace la democrazia in questo paese, non quando sfugge alle loro intenzioni e al loro controllo. A nessun potere piace, neppure alla sinistra quando si è fatta potere. Passati i referendum su divorzio e aborto, constatato come era possibile i cittadini potessero rivoltare le leggi del Parlamento, non è stato difficile studiare contromisure: il popolo è tornato a dire la sua su questioni fondamentali ed è stato come se nulla fosse accaduto. Peggio, il popolo è stato preso in giro. Ha detto che andavano abrogati i finanziamenti ai partiti e i partiti hanno trovato il modo di finanziarsi più e meglio. Ha detto che il sistema politico del paese dovesse essere di temperamento inequivocabilmente maggioritario ed è stato inventato un agghiacciante ibrido. Il popolo si è persino espresso per la fine del ministero dell'agricoltura ed è stato inventato il ministero delle politiche agricole.

Pare che bisogni parlar bene dei radicali, della loro indefessa opera di democrazia referendaria. Ma ricordate come i radicali ci abbiano costretto ad andare a votare per dozzine di referendum, mettendo assieme questioni capitali con altre oscure. Si può uccidere un atto democratico anche per eccesso. Perché lo hanno fatto? Forse i radicali sono stati troppo ingenui, innocentemente entusiasti? Sarò un uomo di animo impuro, ma non lo credo. Il referendum è anche strumento del potere. Chi ha in pugno le firme brandisce un'arma che può costringere altri poteri a patteggiare; patti che non riguardano necessariamente la materia del contendere e men che meno il volere popolare. È successo anche questo. Fino a che i cittadini hanno smesso di crederci e non sono più andati a votare.

Si potrà dunque fare il referendum su una legge che reputo odiosa e in certi punti addirittura priva di umana decenza, come quella sulla privatizzazione dell’acqua. Tremo all'idea che i miei concittadini disperino di modificarla e lascino perdere le schede e i seggi. Tremo all'idea che nessuno li informi in modo esauriente su quello che potranno decidere. Sono terrorizzato all'idea di quello che potrà uscir di bocca, a chi ha il potere di parlare a voce alta, per rendere il meno comprensibile possibile quello che, a fatica, siamo riusciti a capire.

Solo mi allevierebbe l'ansia sapere che ci sono cittadini in giro per il paese che si stanno organizzando per conto loro, che fermano le persone per spiegar loro che crimine sarebbe dare in mano un bene prezioso come l’acqua ad un manipolo di speculatori. Un tema che i rappresentanti del popolo non hanno saputo trattare se non come una questione di potere. Se questo referendum si farà, sono certo che non saranno i cittadini a lacerarsi, ma i poteri. Quelli che si autoproclamano voce del popolo...

martedì 26 aprile 2011

Una storia romantica




Questa è una storia romantica; una piccolissima storia, ma molto romantica. Domenica mi sono messo per strada alle cinque del mattino (dopo avere abbondantemente annaffiato la mia pianticella di basilico) per vedere sorgere l'alba davanti alla colonia Fara, a Chiavari.

C'è qualcosa veramente di magnifico, di terribilmente magnifico, e di sconcertante spettacolarità, e di angosciante grandezza, e di poetica eleganza in quell'opera dell'Italia che fu.

Quel palazzone in degrado è molte cose: è un'ambizione ingegneristica, un progetto politico, una ferita chirurgica, ma anche un sogno ad occhi aperti, un mondo da farsi, il disegno di un puzzle mancante dell'ultimo pezzo. Orgoglio e mestizia. È questo e chissà cos'altro. È vita, comunque, vita che si è incistata sopra, sotto, ai bordi, negli interstizi. Vita che stenta e vita che prolifica. La vita che è bella e che è brutta.

C'è in tutto una qualche bellezza, basta mettersi in cammino con gli occhi che la sanno trovare. Fosse anche solo, la vita, una macchia di malvarosa che prospera nella fessura di un trave o i colori dipinti con la tavolozza dell’incuria: verdemuschio, brunoterra, neromacerie. Fossero due donne che transitano davanti a quell’opera di inverosimile ingegneria. Sarebbe solo orrido se quelle donne non chiacchierassero tra loro ridendo di qualcosa che deve pur avere a che fare con la vita. Una vita per niente facile, ma per niente infame.

Se la colonia Fara ha violato una città, la città non ne è per questo morta; Chiavari è città. Città che mette gerani alle finestre, che si sveglia alle otto di domenica mattina e vive come in ogni altra ora del suo tempo. E non è una vita infame; e la focaccia è buona, forse meglio di quella del mio baretto, e la ragazza che salta sul vespino per andarsene da qualche parte oltre la terribile linea d'ombra della Colonia, è vita di sicuro.

Immagino le decine e decine di migliaia di uomini e donne che hanno vissuto la loro vita con l'orgoglio di chi è stato chiamato a costruire un intero Paese che si è andato sfaldando ancor prima di realizzarsi, per tutti quelli che si sono rotti la schiena e i polmoni, le braccia e il cuore. Immagino che per tutti i traditi, i feriti, i disillusi, la tentazione sia di cancellare, di dimenticare, di radere al suolo tutto quanto nella propria mente, tanto per cominciare. Ma non è possibile e non è giusto. Nessuno può fondare una speranza nella cancellazione, nell'alienazione.

Non è stato un caso che di fronte alla colonia Fara, a veder sorgere un sole malato, si è formato un capannello che solo a un distratto poteva sembrare inverosimile. Il sottoscritto, un professore genovese, un pensionato metallurgico torinese, due ragazzi modenesi. Ognuno era lì per vedere qualcosa che aveva in mente, un’alba per ciascuno. E nel modo che aveva ognuno di adocchiare quel palazzaccio, per nessuno era cosa morta, per nessuno era un vecchio cumulo di cemento gettato sui margini di una spiaggia da uno scherzo del tempo.

Cosa ci fa un distinto pensionato, faccia di infinita dolcezza, cosa ci fa un professore, cosa ci faccio io? Cerchiamo bellezza cercando ragioni, cerchiamo domande cercando storia, cerchiamo identità cercando diversità. Almanaccando in solitudine, cerchiamo risposte davanti ad un monumento di un sogno spezzato...

domenica 24 aprile 2011

Un vuoto incolmabile



Ci sono persone la cui dipartita lascia un vuoto incolmabile. Mancano i loro gesti. Manca la semplicità disarmante con la quale rendono tattile i dogmi; i dogmi non di una religione, ma del disegno di un dio qualunque nel mondo.

Ho sempre avuto in uggia la Chiesa e la tristezza che incombe nella maggioranza dei suoi precetti. Mi fa incollerire il disprezzo che gli alti prelati hanno nei confronti del corpo di un uomo, tutti impegnati alla salvezza dell'anima. L'unica prova ignea di Dio che abbiamo, almeno quella che hanno cercato di inculcarci in testa, è una pesante tavola che ci impone, per la salvezza dell'anima, i dieci comandamenti. Non i nostri diritti, quindi, ma i nostri immancabili doveri. Abbiamo dovuto aspettare secoli e secoli, prima che qualcuno ci soccorresse nella vita di tutti i giorni. E non fu un conclave di vescovi o una enciclica illuminante. Ci pensarono Erasmo da Rotterdam o Voltaire. Misero l'Uomo al centro del mondo, non un Essere Supremo. Fu una rivoluzione. Da allora l'uomo capì che, per lui, c'erano anche dei diritti. Il giogo della fede poteva essere allentato.

Mi piace il concetto di pace. La pace non è uno slogan pubblicitario, non è retorica politica. La pace è concreta materia della vita, allo stesso modo, e opposto, della guerra. Non è un indefinito auspicio politico, ma un ben definito stato delle cose. Un bambino che si nutre, che agisce con gioia, che accede al sapere è un bambino che vive nella pace. Un bambino che muore sotto un colpo di cannone è un bambino che muore nella guerra. E se qualcuno, fosse anche il beneamato presidente della Repubblica di questo paese, ha l'ardire di proclamare portatore di pace il soldato che ha premuto l'otturatore di quel cannone, anche il beneamato presidente prostituisce la parola Pace al mercato di una retorica priva di verità. Anche se quel soldato si fosse prodigato a distribuire biscotti affacciandosi dal suo carrarmato fino al giorno prima. I biscotti conservati nella stiva di un carrarmato sono biscotti del tempo di guerra non del tempo di pace. Non voglio sentirmi dire da un cappellano militare: la pace sia con te. Non voglio sentirmi dire da un ministro in giubbotto antiproiettile: siamo qui a portare la pace. La pace è un dogma che non si presta a interpretazioni.

Mi piace ancor di più il concetto di perdono. Giovanni Paolo II non ha vissuto per decretare la fine del comunismo, non è per questo che giustifica la sua vita agli occhi del suo Dio. Si è assunto una missione un pochino più vasta: l'adempimento del disegno di Dio nel mondo. E non ha mai defletto, nonostante la storia, nonostante i poteri. Non ha mai scelto il silenzio. Ha sempre optato per la crudezza dei gesti. Come quello che fece nel natale del 1983: andò in carcere per incontrare e concedere il suo perdono a Alì Agca che gli piazzò qualche pallottola in ventre due anni prima. Questo è il disegno di Dio. Questo è il vuoto incolmabile che noi ci porteremo dietro per tutta la vita... 

venerdì 22 aprile 2011

La libertà negata




Ho la mania di collezionare penne. Questo da quando avevo più o meno quattordici anni. Non penne di valore – invero anche quelle, ma non solo quelle – ma penne a sfera, normalissime. O matite o portamine o pennarelli a punta fine. Le metto tutte in una cassetta di legno chiaro. Non ne butto via nemmeno una, almeno finchè il refil tristemente mi abbandona dopo chilometri e chilometri di inchiostro. Questa è una mania, lo ammetto. Ma anche una questione di rispetto: scrivere ha sempre significato tenere unita una vita che altrimenti sarebbe crollata in mille pezzi.

Ho cominciato ad avere rispetto per libri, penne, carta e dizionari da quando ho finito la terza media. I miei genitori mi imposero di continure gli studi. Io avrei voluto fare l’agricoltore: un pezzo di terra, la semina, l’aratura. Poi la raccolta. Ma non ci fu nulla da fare.

Avevo una vera passione per il mondo vegetale, e mi è rimasta intatta ancora oggi. Purtroppo il mio destino è stato segnato altrimenti e l'unica pianta che ho per le mani è il basilico, su cui riverso tutte le mie frustrazioni. Mi chiedo chi sarei io oggi se la mia famiglia mi avesse lasciato la libertà di decidere della mia vita a quattordici anni. Oppure se mio padre si fosse trovato nell'impossibilità di mantenermi agli studi e mi avesse avviato al lavoro. Immagino che sarei un bravo coltivatore e la cosa non mi dispiacerebbe affatto.

Il punto è che io sono comunque un bravo coltivatore anche se ho fatto le scuole. Anche se faccio, seppur modestamente, il giornalista e un altro po’ di robe cosiddette intellettuali. Credo che potrei mettere ancora in piedi una serra e vivere onestamente coltivando basilico, peperoni, zucchine e melanzane Un'evenienza del genere non la escludo di principio, ve lo assicuro, amici miei. Quello che mi ha offerto mio padre non è stata l'opportunità di diventare un giorno giornalista, nemmeno se lo sognava, ma, semplicemente, definitivamente, la possibilità di sapere, conoscere, istruirmi in oggetti di cultura non immediatamente pratici, ma fondamentali per formarmi una coscienza libera. La scuola che ho frequentato avrà avuto molti difetti, ma ha fatto di me un uomo assai più libero dell’agricoltore che sarei stato addestrandomi al mio lavoro e basta. E' un privilegio inutile un agricoltore che a diciotto anni conosce Pavese e Pasolini, l'algebra e la storia d'Europa? Non credo, credo che sia un coltivatore migliore, migliore nel suo lavoro, migliore nella sua vita. Perché sia chiaro, la vita non è solo lavoro, la vita non si esaurisce nel profitto che ne ricavi a consegna fattura.

Quelli della mia generazione sono stati fortunati: una riforma degli anni sessanta ha consentito ai ragazzini e ai loro genitori di poter scegliere il proprio destino in maniera meno drastica e precoce, ha consentito ai poveracci, milioni di figli di operai e di contadini, di farsi un'istruzione superiore a costi assai limitati. Quella riforma ha cambiato non solo le sorti di una generazione, che ha potuto realmente usufruire del “diritto allo studio”, ma la realtà sociale del Paese intero. Un Paese che si è fatto massivamente civile e istruito.

Ho cercato di capire la riforma della Gelmini. Qualunque cosa ne dica il governo, ho la certezza che sia una riforma che, lasciando da parte tutto il resto, di fatto riduce drasticamente il diritto allo studio, all'istruzione, alla libertà d'animo. Per le famiglie dei poveracci sarà di nuovo un problema offrire ai loro figli una scelta libera. Siamo tornati ad essere blindati in un destino segnato da un censo, da un'evenienza sociale.

Ci saranno così molti Boraschi che sceglieranno l'avviamento al lavoro, o saranno obbligati a farlo, per seguire la propria prematura passione o, assai più facilmente, cercare di tirar su un po' di soldi. Lo diventeranno coltivatori; qualcuno bravo, molti frustrati, tutti meno aperti d'animo. Meno liberi...

martedì 19 aprile 2011

Il corvo nero




A volte i ritardi dei treni possono portare qualche beneficio. Penso che la vita attorno alla stazione ferroviaria di una grande città ci dice molto sull’anima della gente. Dagli aromi riesci a intuire il grado di integrazione delle varie etnie. I paraggi di Genova Principe, per esempio, sono una specie di osservatorio sull’immigrazione. Questo da sempre.

Genova è una città unica. Non è una città per turisti. Non c’è nulla da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Là, bisogna schierarsi. Appassionarsi. Essere per, essere contro. Essere, violentemente. Solo allora ciò che c’è da vedere si lascia vedere. Ciò che c’è da capire, si lascia capire. Voci di piante, odori di persone.

Il negozio di Chen è anfrattato in mezzo alle stamberghe di vico della Maddalena. Chen arriva a tutte le ore; ha una macchina vecchissima, con gli sportelli alti come le porte e finestrini che sembrano feritoie. Non ho mai capito che razza di marca sia. Qui viene a fare la spesa l’altra metà di Genova, quella che cerca foglie di banana e salamini halal. Ma anche massaie progressiste che cercano un’alleanza pericolosa tra il pesto e il cous cous. Fuori c’è uno zerbino che troppo ottimisticamente dice “Benvenuti”.


All’interno il negozio trabocca di parole. Ognuno ci porta i suoi quattro soldi di saggezza. Tra gli avventori ci sono anche quelli che possono permettersi di pagare le derrate solo con mucchi incredibili di monetine da due centesimi o il venditori ambulanti che barattano il prezzo del pesce surgelato con due ombrelli. Ma anche l’imprenditore pachistano o il professore libanese.

I mediatori culturali definiscono un posto come il negozio di Chen, adatto per quelli che condividono “la cultura del riso”, intendendo con questo non solo l’affinità di gusti alimentari, ma anche la propensione all’allegria tipica di quei paesi in cui, in mancanza d’altro, ci si regala almeno un sorriso.

Una volta da dietro gli scaffali di pesce essiccato ho sentito una voce con una cantilena xeneise, supplicare la signora Chen di trovargli una buona moglie cinese. “Le nostre mogli hanno troppi grilli per la testa. Voi siete gran lavoratrici, mangiate poco e rispettate anche l’uomo”. La signora Chen non si è spazientita. Tanti anni passati nel negozio di Chen le hanno insegnato che vendere i sapori significa anche assaggiarne i dissapori.

Ho tergiversato per i bancali che esponevano creme schiarenti e balsami per domare i ribelli ricci africani. Non ero per nulla interessato a quei prodotti, ma volevo vedere almeno la faccia di quell’italiano maschilista. Da dietro lo scaffale, invece, è sbucato un uomo dalla pelle nerissima. Al mio stupore, la signora Chen ha recitato un proverbio cinese: tutti i corvi del mondo sono neri. Ovvero, gli stereotipi universali, sono duri a morire...

mercoledì 13 aprile 2011

Altri mondi




Non c’è nulla di meglio che arrivare a casa, catapultarsi sul divano e mettersi a leggere la mazzetta dei giornali. Approfitto delle due ore di solitudine completa per accedermi una sigaretta, togliere la linguetta alla lattina di birra e sintonizzare la Tv su Sky Tg24. Non ci sarebbe nulla di meglio. 
Capita però di trovare l’appartamento pieno di ventenni, amici di mio figlio, che provano i loro pezzi musicali (Matteo suona la chitarra elettrica, Erik il basso e fortunatamente mancava Claudio che è appassionato di batteria...). E allora mi arrendo. Sfoglio distrattamente un quotidiano (soffermandomi sulla pagina sportiva) e ascolto i loro discorsi.

Di cosa parlano? Che discorsi occupano le pause dal frastuono che loro stessi producono (io ho una concezione diversa di musica)?
Nell’ordine hanno parlato del lavoro che non c’è per loro e per i loro coetanei,  quindi dell’inesistente ricambio generazionale. In ultima battuta, dopo un assolo straziante di basso, hanno parlato anche di scarsa cura dell’ambiente che chi governa ha nei confronti di quella perla del nostro Stivale che è la Liguria. Avrei voluto parlargli anche dell’inquinamento acustico cui hanno sottoposto le mie orecchie, ma ho preferito glissare.

Ho meditato sui tre argomenti che i ventenni mi hanno proposto e non ne ho trovato traccia nelle prime pagine di tutti – di tutti, sottolineo - i quotidiani. Nessun abbozzo nemmeno sulle copertine dei settimanali, tutti presi a sviscerare i pruriti del premier e del suo entourage.

Se i quotidiani vendono sempre meno copie, è colpa di quella distanza siderale, che ogni giorno si allarga sempre di più, tra i bisogni di compra i giornali (o che vorrebbe comprarli) e gli interessi di chi li fa. Tra domanda e offerta, insomma.

In fondo non è molto diverso da quello che succede all’interno del Partito Democratico. Perchè, curiosamente, oggi, in Italia, il centrosinistra ha gli stessi difetti dei quotidiani. La stessa incapacità di rinnovarsi. Condita, in più, con troppa autoreferenzialità. Che spesso, sconfina nell’arroganza...

martedì 12 aprile 2011

Soldatini di piombo



Ammetto la mia poca – pochissima – fantasia. Quando mia figlia deve recarsi ad una delle centinaia di feste di compleanno, mi armo di pazienza, vado dal mio amico Amilcare il libraio e acquisto un paio di libri per il festeggiato (e la festeggiata).

Solitamente mi indirizzo sul mio primo compagno di lettura, Emilio. Fu il primo che mi fece viaggiare, prima ancora del treno, dell'aereo, del traghetto.

Quasi sempre accompagno mia figlia nei luoghi deputati alla festa di compleanno. In una di queste occasioni, ho visto sul banco dei regali due dei miei libri, due titoli del mio amico Emilio. Stessa casa editrice, stessa collana. Stessa confezione. Le fatiche di Salgari, del mio amico Emilio, hanno subito l'umiliazione del riciclo. Lo sguardo imbarazzato di uno dei genitori ha fatto da prova definitiva. I due romanzi stavano lì, tristi e intonsi, in mezzo agli sfavillanti Pokemon, alle psichedeliche Winx, ai teneri Winnie The Pooh. I bambini non erano nemmeno sfiorati dall'idea di aprirli, di annusare il suo profumo, di farsi trasportare in altri mondi da quelle parole.

Anche mia figlia, aimè, non è tentata da quei viaggi ad occhi chiusi. Il vecchio Emilio sembra un soldatino di piombo di fronte ad un videogioco in 3D. Sandokan contro SuperMarioBros: manifesta inferiorità, gara sospesa.

Ho provato anche a metterla sul patetico: “Leggilo, fallo per il tuo papà”. Ma non è così che si fa, lo so. Il ricatto morale è anti-pedagogico. Quella è una delle frasi più controproducenti che si possa pronunciare.

La lettura non è affatto un piacere naturale, ma una sofisticata tecnologia psichica. Inutile metterci il carico dei sensi di colpa. Il rischio è quello di costruire un muro tra il bimbo e il libro. Qualche mese fa sorpresi mia figlia a giocherellare con “Il corsaro nero”. Aveva gli occhi lucidi e mi disse. “Ti offedi se ti dico che questo libro non mi piace, papà?”.

Da allora mi muovo con cautela, parlo distrattamente di letteratura e solo se interrogato. Le spiego che non c'è nulla di cui vergognarsi, anzi, che la lettura può essere anche un'attività dignitosa: però è un'usanza tipica dell'età adulta. Capirà quando sarà grande. Non c'è fretta. Vai pure a vedere la Tv o a combattere il mostro dei videogiochi.

Chissà, magari (spero presto) potrei veder sparire dalla mia traboccante libreria un Verne, un Rodari, un Twain.

Speriamo non un Henry Miller, per tutelare la sua integrità in più a lungo possibile.
O un Pavese, per farla ridere ancora un po'.
O un Kerouac, per non farla diventare troppo ribelle.
O un De Beauvoir, c'è troppo tempo per diventare femminista.
O un Welsh, perchè spero stia lontana per tutta la vita dalle droghe.
O un Baricco, per evitare di diventare ampollosa.
O un Tabucchi, perchè non sarebbe ora per lei di una rivoluzione.
O l'ultimo libro di Vespa, perchè vorrebbe dire che in casa c'è un tavolo che traballa.

La vita è piena di cattivi incontri, ma la libreria, forse, anche di più. Vada come vada. Basta aspettare.

Le case sono pieni di libri. L'importante è non far sapere ai nostri figli che quei libri sono i nostri.
Potrebbero capire troppe cose... 

venerdì 8 aprile 2011

La band e i bond




È tanto che sogno di avere una band mia. Ora ce l’ho, più o meno. Siamo in tre, che strappiamo con denti gli ottanta euro da dare per le lezioni di chitarra e batteria e basso. Siamo figli di operaio, infermiere e impiegato. Siamo in tanti in famiglia e i soldi non bastano mai. Ma siamo riusciti a strappare con denti quei maledetti quattro biglietti da venti. Personalmente mi sento un verme quando chiedo i soldi a mamma, che mi dice di sì, ma la vedo che prende i soldi dal barattolo, quelli che le dovrebbero servire per andare dalla parrucchiera, una volta al mese o giù di lì. Ma la musica è la mia passione, merda.

È da tanto che sogno una città a misura di giovane. Ora la sta diventando, più o meno. Stiamo cercando adepti per fare sentire la nostra voce a chi conta. Siamo trenta trentenni che viaggiamo sempre rigorosamente in Audi e vestiamo impeccabilmente in lana cotta di Armani e calchiamo i marciapiedi con scarpe inglesi. Siamo figli di imprenditore e city manager e professionisti della sanità. I soldi per i nostri capricci li riusciamo sempre a trovare. Al limite vado a intaccare il portafogli di azioni che papà mi ha messo a disposizione. Ma spendere e divertirmi è la mia passione, merda.

Ora so che il Comune ha messo a disposizione dei finanziamenti per i giovani, per l’aggregazione, per la socializzazione. Bisogna dare un anima a questa città, quello è ciò che si sente dire. Sarebbe bello che chi governerà la città nei prossimi anni facesse qualche cosa anche per noi. Magari non scrocco più i soldi a mamma (babbo non sa nulla di quegli ottanta euro al mese, altrimenti sono guai). Ho provato anche a fare qualche concorso per trovare lavoro. Ma non ho vinto, che è la maniera elegante per dire che ho perso. Chi ha vinto lo hanno indicato appena entrato nella stanza dove si svolgeva la prova.

Ora so che il Comune ha messo a disposizione dei finanziamenti per i giovani, per l’aggregazione, per la socializzazione. Bisogna dare un anima a questa città, quello è ciò che si sente dire. Sarebbe bello che chi governerà la città nei prossimi anni facesse qualche cosa anche per noi. Magari non intacco più i guadagni che sto facendo in Borsa. Forse è meglio accettare il posto di lavoro che mi è stato assegnato quando ho vinto il concorso. Tanto già lo sapevo prima, che non avrei perso. Mi ricordo come mi guardavano, quei quattro pezzenti che erano con me a fare la prova. Qualcuno mi ha anche indicato con il dito.

Quei soldi che il Comune ha stanziato sono stati assegnati. Andranno alle varie Movide cittadine. Siamo andati al consiglio comunale per ascoltare la decisione per bocca dell’assessore: mamma mi ha anche stirato la camicia nuova e inamidato il blazer che avevo per la comunione di Luca, il mio fratellino. Noi ci speravamo, inutile nasconderlo. Noi speravamo di aver a disposizione uno spazio per provare o per prendere lezioni di musica da qualche volenteroso o ascoltare musica e fare concerti. Ma mi sa che la mia mamma dovrà rinunciare per parecchio tempo ad andare dalla parrucchiera.

Quei soldi che il Comune ha stanziato sono stati assegnati. Andranno alle varie Movide cittadine. Abbiamo telefonato subito all’assessore comunale che doveva decidere (abbiamo il cellulare di tutta la Giunta, sindaco compreso). Noi ci speravamo. E abbiamo visto giusto. Una città europea come la nostra non poteva lasciarsi scappare questa occasione. I giovani non hanno problemi di soldi, hanno solo il grosso problema di come spenderli. L’amministrazione ha capito al volo. Ora la città sarà un grosso veglione, dove socializzare e mettere in mostra i nuovi acquisti, senza costi aggiuntivi per l’organizzazione di feste private. Mi sa che il portafogli delle azioni rimarrà intatto ancora per un po’ (fino al prossimo modello dell’Audi)...

martedì 5 aprile 2011

Appunti di fine mese di un pensionato




Voglio mettermi in fila per il Pulitzer. C’è chi si finge immigrato per poter raccontare le vicissitudini che comporta un viaggio in barcone. Chi si finge clandestino per descrivere la vita grama di un sans papier. Io, invece, ho scelto la categoria più invisibile e disastrata del Paese. Ho vissuto con loro gli ultimi giorni del mese. Alla fine c’è sempre una nota di ottimismo. Loro, questi eroi, non si lamentano mai. Ecco il resoconto.

(27) Risparmiamo anche l’euro. Vado a piedi fino dalla zona dei mercati. C’è Mimmo con il suo camion “Primizie dalla Sicilia”. Compro una cassetta di patate: 10 chili, 5 euro. Una bella dieta a base di patate fa bene: alla salute e alle finanze. Basta girare e la soluzione la trovi sempre. Questa è una città che ti da un sacco di opportunità. Che fortuna abitare in Italia.

(28) Oggi è giovedì. Ho le cartine e stasera c’è la Movida. Quei ragazzi hanno l’abitudine di fumare un quarto della sigaretta e poi di gettarla. Basta un piccolo calcetto, far planare la cicca ancora accesa dietro l’angolo, spegnerla delicatamente, togliere il tabacco e metterlo nella tabacchiera. Ripetendo l’operazione più volte si può accumulare da fumare per 3 o 4 giorni. Questa è una città che ti da un sacco di opportunità. Che fortuna abitare in Italia.

(29) È il giorno della visita medica di controllo. Mi intrufolo in un bar pieno di gente, avvicino verso di me una tazzina vuota, così sembro un cliente pagante. Chiedo il giornale ad un signore che lo sta sfogliando svogliatamente. Lo leggo per oltre mezz’ora. Esco dal bar, entro nell’ospedale. Sto in coda per circa tre ore. Dieci minuti di visita (“Tutto a posto, stia solo attento all’alimentazione”), e poi via, una bella camminata sino a casa (sempre per via dell’euro). La giornata è passata senza mettere mano al portafogli (vuoto). Questa è una città che ti da un sacco di opportunità. Che fortuna abitare in Italia.

(30) Maria è morta tre anni fa. Mi è morta tra le braccia. Eravamo appena andati alla visita di controllo (“Tutto a posto, stia solo attenta all’alimentazione”, le avevano raccomandato, ma era alla fine del mese e facevamo la dieta delle patate di Mimmo). Ora riposa al cimitero. Le porto sempre un fiore. Oggi è un fiore che ho colto in un campo, poco distante da dove abito. È già tutto avvizzito, ma è fine mese e Maria capirà. Si trova sempre un fiore in questa città che ti da un sacco di opportunità. Che fortuna abitare in Italia.

(31) È il giorno dei nipoti. Non fosse la fine del mese sarebbe la giornata più bella della settimana. Mi vengono (quasi) sempre a trovare, la domenica. Ma le caramelle sono finite e i soldi per la mancetta sono andati a finire in quella tassa imprevista. E allora non mi faccio trovare in casa. Girovago per le viuzze del centro storico, così belle, pulite e ristrutturate. Li spende bene i soldi, il mio Sindaco. Passeggio per tutto il giorno. Che bello. Questa è una città che ti da un sacco di opportunità. Che fortuna abitare in Italia.

(1) Vado in coda alla Posta. È il giorno della pensione. 508 euro tutti per me. Non ci posso credere. Va beh, ci devo togliere 123 euro di affitto (appartamento in un palazzo di proprietà comunale, grazie ancora, Sindaco), il ticket per qualche medicinale e un paio di balzelli. Oggi voglio comprare una rosa rossa per Maria, un pacco di caramelle per le mie gioie e una busta di tabacco trinciato. Crepi l’avarizia anche caffè e tramezzino. La bistecca no, meglio non esagerare. Ma sono contento. Questa è una città che ti da un sacco di opportunità. Che fortuna abitare in Italia...

domenica 3 aprile 2011

Professione: disturbatore



Adelmo è insopportabile quando ci si ritrova assieme ad altre persone. È un disturbatore di professione. Ogni anno si presenta l'occasione per mettere in mostra le sue indubbie qualità in questa antica arte. È quando ci ritroviamo assieme ai genitori di altri bimbi che, come i nostri, frequentano un circolo pseudo parrocchiale. È senz'altro un incontro meritorio: arrivano bambini, accompagnati da papà e mamma, un po' da tutta Italia.

Il lavaggio del cervello di Adelmo inizia già da quando si sale in macchina. Non che dica cose sbagliate, ma amplifica i concetti. Io considero questi incontri un piccolo supplizio. E sorrido, ipocrita ma solidale, ogni qualvolta mi si decanta le qualità pedagogiche dei raduni. Quando arriviamo a destinazione (di solito un prato e una catapecchia riattata) Adelmo è già furente e inizia a imitare (è un buon imitatore, lo ammetto) le insulse melensaggini del raduno precedente. Come se fosse colpa mia, poi. “Perchè ogni volta ci veniamo allora?”, chiedo. “Salsicce e vermentino”, risponde, facendo un gesto incomprensibile oltre il finestrino.

La giornata stava trascorrendo relativamente bene (a parte lo spudorato tacchinaggio di Adelmo nei confronti di una mamma di Milano). Ma non poteva andare tutto liscio, lo sapevo per esperienza. Infatti. Il peggio di sé Adelmo l'ha fornito durante i discorsi dei genitori (i bambini erano liberi di scorrazzare per i prati, gozzovigliare e procurarsi bernoccoli). Come d'abitudine si alternano sull'improvvisato tavolo dei relatori papà e mamme ospiti del nostro gruppo. Adelmo, sottovoce, fa le solite battute, obbligandomi a guardare le sue facce di corredo. “Senti la trentina, che cazzate”, “C'è anche il sardo, siamo a posto”. Poche cose sono più insopportabili di un amico che si mette dietro a te e cerca di richiamare la tua attenzione con smorfie e lazzi. Questo atteggiamento potrebbe far pensare ad Adelmo come ad un sordido razzista. Ma non è così. Altrove è generoso e solidale con tutti. A questi raduni, no. L'unica cosa che vorrei fare in queste occasioni è comunicare al resto della platea che io, con Adelmo, non c'è entro nulla.

Vi giuro che speravo che Adelmo, complice le salsicce e il vermentino, si fosse appisolato dietro le lenti nere dei suoi occhiali. Mi stavo rilassando. La prova dell'esatto contario lo ebbi quando si mise a concionare un signore con un ridicolo riporto che partiva da un orecchio all'altro. Aveva un aura quaresimale e il suo golfino nero era ingentilito da un triste tappeto di forfora. Adelmo si avvicina e sibila: “Secondo me, quello non tromba da due anni”. A parte la trivialità dell'affermazione, trovai fuori luogo l'ipotesi: ma che ne sa lui dei flussi ormonali altrui? Parte la replica, antichissima e sempre pedagogica: “Magari ha trombato proprio ieri sera con tua moglie”. E qui che si distingue il dilettante del disturbo (io) con il professionista (lui). Tutto sta nel timbro della voce: Adelmo aveva sapientemente calibrato il sibilo, io avevo alzato la voce quel tanto che bastava per farmi sentire dai vicini. La signora di fianco a me, mi ha incenerito con lo sguardo, avendo captato solo la seconda parte del dialogo. Adelmo sgnignazzava avendo raggiunto l'obiettivo. Da ora in poi, ogni comportamento strano, ogni malinconia di mia figlia, avrebbe avuto una giustificazione plausibile, visti i discorsi del padre.

Soddisfatto, Adelmo, si mise a sonnecchiare. Io mi sorbì tutti i discorsi sulle iniziative da portare avanti, dal terremoto in Giappone al dramma dei paesi norafricani. Per deformazione professionale presi anche appunti. La mia vendetta mi materializzò pochi minuti dopo. La figlia di Adelmo arrivò trafelata chiedendo al padre di fare una relazione ai bambini: era stata proprio lei a suggerire la scelta. Adelmo si svegliò dal ronfante torpore e si avviò barcollante al pulpito. Non era stato a sentire una sillaba dell'intero discorso; aveva fatto di tutto: disturbato, letto il giornale, guardato il culo a tutte le donne, dormito. Già mi preparavo mentalmente il rapporto da fare all'osteria sulla figura meschina e immaginavo la sua faccia in macchina mentre gli dicevo che non doveva preoccuparsi, in fondo aveva solo fatto una figura di merda davanti ad una cinquantina di bambini, compresa sua figlia e mia figlia e che poteva accadergli qualcosa di peggio come essere colpito in piena fronte da un meteorite. Stavo ridendo di gusto.

Adelmo tenne un discorso perfetto, aggiungendo note meteorologiche sul Giappone e sulla difficile situazione politica del Nordafrica. Gli applausi si sprecavano. Ad un certo punto, parlando della saggezza di quegli incontri annuali, come il migliore dei tenori se ne esce pure con il do di petto. “...d'altronde questi ritrovi non sono per tutti, pochi ci capiscono. Perchè, come cantava Vasco Rossi, non è tempo per noi, e forse non lo sarà mai”. Standing ovation. No, cazzo, era troppo. Quelle parole non sono di Vasco Rossi, ma di Ligabue. Avrei volutto gridarlo, forse già lo stavo facendo. Ma la standing ovation mi fece fare l'effetto pesce.
Non se ne era accorto nessuno...


venerdì 1 aprile 2011

Il Verde e i verdi


Ogni tanto, io e il mio amico Brunn elucubriamo. Ci prendiamo piccole pause per andare a vedere i posti della nostra infanzia. Veniamo da posizioni geografiche diverse. Per questo ci attrezziamo, facciamo il pieno di metano alla mia macchina e partiamo.
Brunin qualche tempo fa mi ha portato nel paese dove era aduso andare al mare. Alla piccolissima baia ci si accede per una stretta crosa che un tempo, mi ha specificato, era adornata di palme. Ora le palme sono state tagliate per far posto a panchine in ardesia e fioriere molto kitsch. Non è un caso isolato; forse anche il meno pacchiano. Quel paesino è molto suggestivo. Ci sono esempi molto, molto peggiori.

Ciononostante, ci siamo armati di penna e carta libera, e abbiamo scritto al sindaco del paese per illustrare le rimostranze di due ospiti grati. È stata una fatica: ad un certo punto ci siamo incagliati su una banale disquisizione di punteggiatura. Per una persona che ci avesse visto, la scena non gli sarebbe sembrata molto dissimile dalla gag di Totò e Peppino (“Mettiamoci i due punti: è più categorico”, “Brunin, non fare il tirchio, mettici un punto e virgola”). Una faticaccia. Oltre un’ora per una lettera (Imbustata e affrancata con posta prioritaria) che compierà il tragitto di sola andata “cassetta della posta-cestino della spazzatura”. Perchè la storia è sempre la stessa.

Chi ha protestato, chi ha pianto per le bellezze perdute, non ha mai avuto udienza e soddisfazione. Non solo da chi governa la città, controparte perenne e perfettamente bipartisan, ma da chi, elettivamente, della bellezza e della sua tutela nell'ambiente doveva essere paladino e della bruttura strenuo oppositore. I verdi, tanto per dire, credo si chiamino Verdi e non Arancioni, per questa ragione. Ma gli ambientalisti della città sono stati impegnati per i molti decenni in cui gli alberi morivano in altre e ben più importanti battaglie.

Battaglie di lungo respiro e incertissimo successo. Battaglie adatte a consumare molte legislature e molti mandati politici di aspiranti leaders carismatici. Battaglie ideali trascinanti, molto adatte a non essere mai perse del tutto, mai vinte davvero. I platani abbattuti, le crose panoramiche distrutte, la speculazione edilizia in collina, parevano agli occhi di chi aveva la vista lunga, distrazioni pericolose, modeste battaglie che era possibile perdere o vincere nell'arco mortificante di un anno, di un mese, di una legislatura.

Personalmente penso che questo sia uno degli errori più stupidi e imperdonabili di un movimento ambientalista che, non a caso, in questo Paese non ha mai avuto né saputo conservare adeguati consensi tra i cittadini. I quali, io tra loro, non vogliono distinguere tra piccole e grandi battaglie quando è materialmente in forse la qualità della loro vita; della bellezza, della salute, del conforto della vita. Importano gli alberi delle scalinate, come i fumi cancerogeni, perché una vita decente o sofferente è fatta di tutte e due le cose, di cose quotidiane e questioni epocali. E le modeste battaglie, si dimostrano sempre solo apparentemente modeste. Il brutto, il malsano, il truffaldino, prediligono dilagare da piccole crepe...