martedì 24 aprile 2012

Malati nell'anima




Rabbia: ecco ciò che percepisco in mezzo alla gente. Rabbia. Furia cieca di chi è costretto a sborsare i suoi soldi per buttarli nel calderone di uno Stato che non rappresenta oramai più nessuno. E non è vero che gli italiani sono insensibili al momento che stiamo attraversando. È che tutti sacrifici che siamo obbligati a fare non ci portano nessun beneficio. Nessun lenimento, nè alla vita esteriore nè a quella interiore. Non ci aiutano a crescere nell’anima. 

Non so se interessi a qualcuno, ma si dice in giro per il mondo che la cultura è un bene primario, i beni artistici e culturali un patrimonio essenziale; ci credono così tanto intorno a noi che i Paesi europei ci hanno lasciati ultimi, laggiù, in fondo come investimenti culturali. Ora non è che bisogna andare per forza dietro alle mode europee e ammalarsi di esterofilia su questioni secondarie come i beni culturali e artistici, ma sarei curioso di sapere se i miei connazionali sono dell’idea che far decadere i musei, non aprirne di nuovi e migliori, sacrificare i fondi delle biblioteche, chiuderle e non aprirle dove non ce ne sono, fare meno musica, meno teatro, deprimere le esperienze culturali dei giovani non ce ne può fregare di meno.

Che è roba che non aggiunge niente alla qualità, vera, della nostra vita; che con tutti i problemi che ci abbiamo chi se ne frega della cultura. Come sarei curioso di sapere se i miei connazionali contribuenti pensano davvero che il giorno che si troveranno due, trecento euro in più nel portafogli potranno finalmente sentirsi uomini e donne realizzati, appagati, consapevoli e produttivi. Non parlo ovviamente di quelli che con quei soldi compreranno il pane e le calze ai figli.

Anche se mi viene in mente mia madre, casalinga, che risparmiava su tutto il possibile per comprare a rate i libri che avrebbe fatto leggere ai suoi figli. Dei libri io spero di aver fatto buon uso, adeguato alle aspettative della mamma, ma è sicuro che senza quelle opportunità sarei peggiore di quello che sono.

È per questa ragione che se lo Stato mi chiedesse domani qualche centinaio di euro come contributo personale a un serio piano di sviluppo culturale della nazione, glieli darei senza battere ciglio, e sono sinceramente curioso di sapere quanti altri contribuenti farebbero come me, almeno tra quelli che hanno già tutto l’essenziale, tranne un buon piano nazionale sulla cultura.

Forse non siamo così pochi come chi ci comanda credono che siamo...

martedì 17 aprile 2012

I vantaggi di vivere lento




Facendo un rapido conto, nella mia vita e sino a questo istante, sono più le cose che ho imparato camminando per strada che quelle che ho appreso chino sui libri. La più eclatante, nella mia magnifica ignoranza, sono le meravigliose proprietà della lentezza. Più vai lento e più cose succedono, più cose vedi, più cose impari; e più sei dentro la verità delle cose che la velocità ti impedisce di percepire se non nell’illusorio baluginare della loro scia. O della tua.

Viaggio lento, il più possibile a piedi. Comunque cerco sempre di partire per tempo, ovvero lasciandomi tempo e spazio per gli imprevisti. Incontri imprevisti, impreviste visioni, sorprendenti varianti.
È per via della lentezza che ho potuto godere del privilegio di un indimenticabile incontro italiano.

Stavo pensando in maniera soffice e lenta alla vita, con un libro in grembo, su un regionale che, in intimo accordo con me, si trascinava pigramente verso le terre di Toscana per poi arrivare in Liguria, nella speranza di maturare almeno un’ora di ritardo prima di consegnarmi alla stazione di scambio (La Spezia).
Avendo la meritoria società Trenitalia coronato con successo il suo lodevole sforzo – farmi perdere la coincidenza -, ho colto l’occasione per dialogare per un paio di ore con una signora che arrivava dalla Puglia con due valigie dalla stazza sorprendente. Diciamo che il peso di ambedue le valigie sorpassavano abbondantemente il suo peso corporeo. Mi sono offerto da fare da sherpa per il sottopasso spezzino (maledicendomi, però, alla vista della ascesa), per poi affrontare con lento, ma fermo passo da escursionista le marmoree alzate della scala. L’ascensore, infatti, non funzionava.

Una volta indovinato il binario (i cartelloni pseudo-elettronici, infatti, non funzionavano) ci siamo scambiati quattro chiacchiere da ospedale per ingannare il tempo. Il primo approccio è stato un rimbrotto (“non fumi, signore, che fa male”), poi via via che la confidenza si faceva più stretta, la signora Nunzia mi ha raccontato della sua vita. Abitava in Puglia, dove ha vissuto duramente lavorando nei campi e badando alla famiglia. Tanto sudore e privazioni le hanno permesso di costruirsi una casa. Ora quelle quattro mura deve venderle, perchè le nuove tasse le impediscono di mantenerle.
Perchè la pensione è sempre più ininfluente per il carrello della spesa.
Perchè i figli hanno perso il lavoro e il cash serve a loro.
Perchè ormai è vecchia e una casa grande è un lusso così poco italiano.

La signora Nunzia, però, non era per nulla disperata. “Ho quasi ottanta anni e devo ringraziare il Signore per essere ancora in vita – mi ha detto con un sorriso dolcissimo sulle labbra – E poi ho un fratello vedovo a Sestri Levante che è contento di ospitarmi, così dividiamo le spese”.

Non so che cosa veda dalle sue finestre il Professor Monti oppure se mai ha cercato di vivere slow, avendo così modo di scambiare due parole con le signore Nunzie di tutt’talia.
Mi sento di dargli un consiglio: scenda dalla sua torre d’avorio...

martedì 10 aprile 2012

Pablo è vivo




È uscita quasi per caso dal gracchiare confuso di una stazione radio malsintonizzata. È uscita tra omelia monotona di Radio Maria e le notizie del traffico sulla rete autostradale. Saranno stati dieci anni che non la sentivo. Quasi un afflato inudibile, ma per me è stato come uno squillo di tromba. Era “Pablo” di Francesco De Gregori. Roba da pugni nello stomaco.

Per quanto mi riguarda l’opera di quest’uomo è solo quella canzone. Null’altro. Anche se ho passato la mia infanzia a canticchiare le sue canzoni, Pablo è stata la mia colonna sonora.
Lo spago sulla valigia.
Il fumo diviso lontano da casa.
La moglie ingrassata come da foto.

L’ascoltavo solo una volta al giorno, per centellinare le emozioni. Quella canzone ha operato in me una rivoluzione libertaria.
È l’Anarchia ciò che mi resta di Pablo. Che non è una bandiera, non è un comizio, non una presunzione e nemmeno un programma politico; di certo non un graffito su un muro, ma nell’anima. Ecco, una probabilità di redenzione. Che riguarda gli uomini e le cose degli uomini, che riconosce futuro nel mondo perché è capace di immaginarlo. Hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo.

Ho sentito l’ombra di tutto questo inciampare nella mia vita a quattordici anni. Mi ero messo per strada, così come fanno i ragazzi che vanno in cerca di niente. Sono inciampato nel solito bar, dove all’interno si vendevano vini bianchi e spume al ginger. Fuori dalla porta c’era una reclame del Rosso Antico, tre sedie e un juke box

C’erano facce da sbandati (tra cui la mia) che se ne stavano ad ascoltare una canzone. La canzone diceva: mio padre seppellito un anno fa, nessuno più coltivare la vite...
Ascoltavo quella canzone come se fosse la mia voce, perché la sua voce aveva rotto il silenzio che io covavo dentro. Mi sono fermato accanto a quel juke box e l’ho imparata a memoria, senza intenzione. Ora non saprei dire cosa sentivo di quella canzone e come potesse avermi scelto per forzare il mio silenzio. So che davanti a quel bar ho cambiato età, e quella nuova non è ancora conclusa.

Pablo è stata la voce del mio silenzio. Anche se scrivo per campare, rimango pur sempre un uomo che non ha abbastanza voce. Non perché possa in coscienza pensare di bastare anche al mio personale bisogno di libero pensiero.

E tutte le volte che sento quel canto anarchico, mi si accappona la pelle.
Quel canto di libertà che in molti si sentono in dovere di ascoltare a pugno chiuso...

martedì 3 aprile 2012

I silenzi di Don Carmelo




Posso sbagliare tante cose, ma di questa ne sono sicuro.
Lo trovo seduto di fianco alla porta finestra che dà sul balcone. Lo sguardo fisso oltre le tendine bianche. Carmelo, Don Carmelo, è alle soglie dei novantanni. Una vita romanzata, ha fatto a piedi tutta l’Italia, da Bolzano a Messina, per andare a rincontrare quella che poi sarebbe diventata sua moglie. Ma il vero romanzo sono i suoi gesti quotidiani. Una volta andai a prenderlo che pioveva a dirotto. Lui giunse per primo alla macchina ma aspettò fuori, con il suo basco inzuppato, finchè anche la moglie (provvista di ombrello) non entrò in macchina. Poi salì e mi ringraziò per aver aspettato la consorte.

Il suo dialogo verte sul silenzio. Raramente i nostri sguardi si incontrano. Il suo, liquoroso e distante, cerca sempre un appiglio oltre la mia persona. Quando i nostri occhi si incontrano, lui mi sorride. Il quel lampo ci sono tante cose, ma la più chiara è l’affetto: puro, surgivo, primigenio.

La sua figura è schiacciata tra il cuscino che ingentilisce la seduta della sedia e lo schienale perimetrato da una sagoma di acciaio, vagamente anni ’60. La polla che pare fare da involucro alla sedia e a Don Carmelo è buona parte del suo mondo. La televisione è sempre accesa, ma è più che altro un rumore di sottofondo, la colonna sonora della sua giornata. Le mani sono sempre appoggiate sulle cosce, le spalle vagamente incurvate; come se fosse sempre in procinto di alzarsi per andare a correre in risposta di un campanello che non suona quasi mai. Parla poco, sta sempre in silenzio. Ma non è mai annoiante. Mai.

Chissà che silenzio c’è nella sua testa. Che tipo di silenzio. Se è un silenzio che ronza, che riempie le orecchie. O se è un nulla ovattato come quello che filtra da un tappo di cera: quello che passa può essere catalogato come silenzio? Certo, penso di sì.

Oppure se il suo silenzio è un silenzio liquido, uno di quei silenzi neri che ti si formano dentro la testa, in un punto imprecisato del cervello. Un vuoto che si allarga, muto, fino a coprire tutto. Fino ad assorbire toni e frequenze e vibrazioni e timbri e parole e suoni. Inghiotte tutto in un gorgo nero e denso.

O forse no. Forse è un silenzio ipnotico, come quello della goccia che cade nell’antro di una caverna e accorda su di sè tutti rumori del mondo che accade. Un rintocco pungente che non si ferma mai.

Mi perdo delle ore a cercare di capire il suo silenzio. Poi, puntualmente, ad un certo punto, Don Carmelo sposta il suo orizzonte da un vuoto luminoso della stanza ai miei occhi. Mette a fuoco: occhi spalancati, così chiari da sembrare grigi. Dentro i suoi occhi si muove qualcosa; qualcosa di talmente violento che sembra esplodere sotto il cristallo curvo della cornea. Un sentimento intenso e particolare, oggi desueto: è affetto.

Si alza anche se il campanello non suona. Mi appoggia il palmo della mano sulla spalla, mi scarruffa i capelli. “Vai che è tardi – dice in un fado dolcissimo – vai a casa. Onorami ancora della tua visita, in futuro”.

Non mancherò. Don Carmelo, non mancherò...