martedì 28 febbraio 2012

L'inverno e l'arte della sopravvivenza del narciso



Mi alzo e c’è il sole. Quello senza compromessi di nuvole sparse. Quasi estivo; quasi agostana l’insistenza dei raggi sul mio narciso che è sbocciato nonostante la tramontana nera che lo ha sferzato per quasi quindici gelidi giorni. Nulla è sopravissuto: nè il banano, nè il ciclamino, nè la solacea. Quel fiore in incubazione che sta spuntando in questi giorni fa quasi tenerezza. Come faccio tenerezza io, visto dai balconi circostanti, piegato ad accarezzare le gemme di un fiore che sarà.

Solo finché resti bambino puoi ostinarti nella sbadata convinzione che l’unico destino che puoi sopportare sia fatto di un’estate eterna, un infinito ingozzarsi di onde di mare, angurie goccianti, odori di fritti misti e compiti che poi un giorno o l’altro farai.

E solo nell’età adulta, uomini e donne che hanno vissuto abbastanza per toccare, sentire, ascoltare, odorare la vita, possono constatare e accogliere, la semplice verità di come il tempo dell’anno sia perfetto così com’è.

Per questo ci ho messo un bel po’ di anni per capire la necessaria bellezza dell’inverno, e, per essere franchi, per arrivarci ho dovuto faticare non poco. Ho dovuto metabolizzare l’enorme fatica di essere sempre fiorito, sempre ubertoso, costantemente gravido. D’estate ogni cosa si consuma in fretta, insidiata nel suo splendore di un attimo dal fulgore della successiva. E tu ti consumi più di ogni altra cosa, incapace di sostenere il ritmo di una stagione senza mai fine.

E cominci a capire la benedizione che viene dalle stagioni. Beato sia l’inverno.
Lo spirito dell’inverno è il tiepido sonno interiore dell’anima di tutte le cose già fatte e da fare. Lo spirito dell’inverno è né più né meno che la storiella così banale e così vera, tanto vera e banale che le maestre non la raccontano più da decenni, del chicco di grano che dorme sotto la zolla di terra. L’inverno è un sonno leggero; lo spirito dell’inverno è un respiro lento e costante.
È cosa di spiriti forti: i più deboli, se li porta via la tramontana nera, come ha fatto con i miei ciclamini (e io piango per loro). I più forti resteranno.

Lo spirito dell’inverno è gemmazione. Nel tiepido sonno dell’anima, piano piano si aprono insignificanti fessure, e da quelle sottili crepe si fanno largo microscopici nodi di materia che avverti appena sfiorandoli con le dita. E crescono nel tempo, prima nei giorni, poi nelle ore e nei minuti: l’albero della tua vita gemma quel che sarà di lei alla stagione ventura. Come il mio narciso, in fondo.

È un sentimento adulto quello dell’inverno.
È adulto il musicista che sa cantare l’inverno, il ballerino che sa andare al suo tempo. È adulto lo scribacchino che sa scrivere la neve, il pittore che descrive la pioggia. È adulto l’uomo che ama la sua donna come quando l’ha vista per la prima volta.

E poi verrà primavera, e sarà quel che di vivo abbiamo sognato quest’inverno...

venerdì 24 febbraio 2012

Un caffè con Irene



Irene è una simpatica signora che incontro nel bar di Filippo. Ci incocciamo spesso, quando sul bancone sono poggiati i nostri due espressi macchiati. A volte mi parla della situazione italiana. Mi dice che la preoccupazione maggiore, secondo lei, non è la politica, ma la gente. Il problema dell’Italia, dice, sono gli italiani.

Il termometro di quanto sia giusta la considerazione di Irene è la lettura dei giornali e la visione delle Tv di Stato. Il Paese è in mano ad un gruppo di persone molto vicine alle banche, Silvio Berlusconi è ancora in grado di far cadere il governo e riprendersi il paese, gli extracomunitari rubano e stuprano, Bersani è alle prese con le bizze di una sinistra senza nerbo e il Napoli vince e convince contro una squadra inglese. Il clichè è questo. È bastata una banalissima voce fuori dal coro (Celentano: “i preti devono parlare di Dio”) per mandare in fibrillazione l’intero sistema italiano.

Tutto è immobile. Questo è rassicurante, ma anche terribile. Mi spaventa. Perchè dopo una vita passata in Italia mi accorgo che non è cambiato nulla. Mi atterrisce come la gente abbia smesso di pensare, di riflettere.

L’Italia è un paese fermo, le cose cambiano per rimanere uguali o per peggiorare. Nessuna lotta. Nessuna vera contestazione. In Tv passano solo culi, calcio e la ricetta per fare il vero ragù alla bolognese. Il paese è trasformato in un immenso show, comico e drammatico assieme.

Stamattina mi telefonato Lefteris, che è greco e fa il giornalista. Gli ho detto se non aveva intenzione di tornare a Londra, vista la situazione che si è creata nel suo Paese. Mi ha risposto che è meglio rimanere per lottare.

Mi sono venute in mente le parole di un giornalista africano, assassinato alla fine del secolo scorso. Disse: “Non si può avere un futuro in un paese che non ne ha”...

P.S.: il giornalista si chiamava Norber Zongo ed era originario del Burkina Fasu. È stato trovato carbonizzato all’interno della sua macchina il 13 dicembre del 1998

domenica 19 febbraio 2012

A chi è servito Celentano?



Il primo ricordo di una manifestazione canora assolutamente fallace risale al 1983, quando il Festival si lasciò sfuggire una delle canzoni più belle e potenti del secolo, Vita spericolata di Vasco Rossi, che spettinò tutti i bouquet e i toupè della prima fila dell'Ariston. Vasco cantò la sua canzone come uno zombie invincibile, vacillante e improbabile tra tutti quei lustrini. Fu bistrattato da tutti i giornalisti e i critici e i politici. Anche la Chiesa non vide di buon occhio quel rocker salito sul palco apparentemente sbronzo (se non peggio).

Più o meno come è stato accolto e descritto quest'anno Adriano Celentano. “Ma Celentano non è andato in riviera per cantare bensì per concionare”: questa è l'appiglio – imperfetto – dei detrattori del Molleggiato. Chi pensa che non esista liason tra musica e società non conosce Sanremo e poco anche il nostro Paese. La forza del Festival sta proprio, e da sempre, nella sua docile sottomisssione ad ogni tipo di lettura, in primis quella sociologica. Lettura forzata, pretestuosa, leggera, fonte di chiacchiere non sempre improvvide. L'idea di Sanremo come vetrina del costume nazionale e perfino degli umori politici non è campata in aria. Da tempo le canzoni sono a magine. La mia speranza è che un giorno o l'altro arrivi un Vasco che sparigli le carte cantando, portando una ventata di novità che ora sta germinando altrove. Una pepita nascosta nel ghiaione del Festival. Se non quest'anno almeno il prossimo, penso.

A cosa ci serve Adriano Celentano, si chiede Maurizio Maggiani sul Secolo XIX. Poco o nulla sicuramente. Restituisce al pubblico delle chiacchiere da bar esposte con una impalcatura grammaticale e sintattica da osteria.
Ma la domanda da farsi è anche a chi è servito Celentano.
È servito in primis a fare pubblicità ad un quotidiano semisconosciuto come l'Avvenire, il cui sconosciuto direttore ha guadagnato ribalte insperate viste le risibili vendite in edicola.
È servito anche ad obbligare i preti a parlare di Dio, dopo lunghi periodi passati a parlare di tutt'altro (calcio, psicologia, politica, architettura, vendemmie).

Non è necessario spremersi il cervello per capire Sanremo, la sua spropositata fama nazionale, la solenne dabbenaggine con la quale, puntualmente ogni anno, ci si accosta a questo allegro strazio. Il Festival è una delle classiche macchine imperfette dell'industria dello spettacolo.

Vecchie giunture cigolanti che sorreggono un patetico carrozzone di cartapesta.
Tenuto insieme solamente da chilometri di cavi televisivi...

mercoledì 15 febbraio 2012

Scappa, Adriano, scappa...





Probabilmente non è proprio sensato dirlo oggi, ma mi sento vicino a Adriano Celentano. Provo solidarietà per i suoi deliri, comprensione per le sue pause imbarazzanti. Trovo garbata la sua prosa e agili i suoi epiteti sparati a caso.

I capi carismatici come Celentano hanno un nemico comune a tutti gli uomini – il proprio ego, nello specifico, smisurato - e uno speciale e assai peggiore, ovvero il famoso senso di responsabilità. Al peso dell’amor proprio si somma il fardello delle pubbliche attese. Quello che è andato in onda non era più il Festival di Sanremo, ma un sermone di Joan Lui. Quell’autentica prigionia che è la vita di un predicatore, minaccia così di diventare un ergastolo.

Così, quando ho visto che, finalmente, ha lasciato il palco dell’Ariston ho pensato istintivamente che era evaso. Me lo sono visto appena uscito dal teatro come in certi film americani con il vestito a righe e la lima ancora in mano, che corre a perdifiato verso il confine con il Messico. Poi, la seconda immagine, metafisica, è lui che dà un’ultima occhiata al Paese, una timida sbirciatina al triste spettacolo di Pupo e Morandi con il microfono ancora in mano e Pappaleo vestito da maggiordomo (cosa si fa per campare...) e via, verso il polveroso orizzonte, E scorrono i titoli di coda.

Il primo che mi chiede adesso (e qualcuno l’ha già fatto) un giudizio politico e etico sullo spettacolo di Celentano lo mando affanculo senza passare dal via.

Vorrei solo un cammeo, una particina minore nel film di “Adriano l’evaso”. Solo un piano sequenza, io e lui, in un baretto dalle parti di Tijuana. Gli offrirei un doppio rum.
Alla salute, companeros, gli direi.
Alla tua salute...


domenica 12 febbraio 2012

Treni, chiedo solo vendetta



Frugando nell'archivio dei miei articoli, post e quant'atro, scopro che a cadenza semestrale vergo scritti di fiele contro la dirigenza di Trenitalia. Il mio è puro esercizio di masochismo. Non serve a nulla e le cose vanno irrimediabilmente verso il basso. Visto che i miei scritti non sono socialmente utile, mi appello oggi al meschino sentimento della vendetta.

Siccome questo governo è prettamente tecnico (e se ne dovrebbe infischiare del consenso dei potenti), chiedo che i manager che dovrebbero far funzionare i treni siano condannati per un tempo congruo a lavori socialmente utili. Questo solo perchè – per motivi che non sto qua a spiegarvi – sono fermamente contrario alla pena di morte.

La giusta pena che vorrei comminare a quei signori si materializzerebbe nell'uso di quello che resta dell'azienda che loro gestiscono, e condividere, così, la mortificazione e la pena del popolo che arranca nello sfascio delle rotaie, nel putridume dei convogli, nella desolazione delle stazioni.

Leviamo di mezzo questa gente che, avendo ormai compiuto la missione di sfacelo, passa il suo tempo a dilettarsi, solluccherarsi, sbellicarsi in un sadico esercizio del genere “ cosa ci inventiamo oggi per far schiattare la massa dei coglioni?”. Perché gli ultimi mesi passati sui marciapiedi e sulle carrozze mi danno la certezza che quelli vogliono solo divertirsi a fare impazzire di rabbia e di bile la spettabile clientela. Ci godono ad insultarci, altra ragione non c’è.
In questi giorni ci dicono che con la neve i treni scivolano sulle rotaie e allora bisogna stare attenti andare piano piano come i bambini con le galosce: è o non è insultarti?
E non ti insultano quando la voce – sintetica, preregistrata, odiosa – dall’altoparlante ti avvisa che il treno partito da Livorno, ha 30 minuti di ritardo “Causa eccessivo traffico sulla linea”? Che è successo, c’è un ingorgo a Pontremoli? C’è coda al casello di Massa? O pensi che ti prendano per il culo, che si inventino battute spiritose, visto che non sanno come passare il tempo?

Ma sentite l’ultima. A Parma esiste un treno perfettamente mimetizzato con l'ambiente esterno. È talmente evoluto che riproduce perfettamente la neve che scende dal cielo. Parrebbe un vanto, ma la neve è vera. Nevica negli scompartimenti. Ero su un convoglio quando il fenomeno paranormale si stava verificando. E avevo poco distante il capotreno. Non vi dico le sfumature dell'imbarazzo quando io, assieme a tutti gli altri passeggeri gli abbiamo piantato gli occhi addosso. Il personale addetto, poveraccio, si vergogna.

Allora è scattato il sentimento di cooperazione, di mutuo soccorso che si crea tra i poveracci, gli oppressi, i presi per il culo. Ci siamo alzati il bavero e non abbiamo fatto nessun tipo di commento. “Almeno viaggiamo, almeno non è in ritardo...”, ha sussurrato una donna presente nello scompartimento. Organizzarsi e non scocciare e non pretendere. Le ferrovie sono un sistema punitivo ed educativo.

Ciò che in tutta Europa è considerato diritto minimo garantito per i viaggiatori, qui, in questo Paese, è un lusso.

Vendetta, ormai altro non chiedo...

mercoledì 8 febbraio 2012

La cura dell'anima




Stamattina mi sono alzato di buon mattino. Diciamo tre ore abbondanti prima di prendere il treno. Fuori era ancora tutto buio. I lampioni illuminavano di luce arancione ghiaccio, neve e il nero del selcio. Mi sono imbacuccato e sono uscito. A piedi.

Mi piace camminare, mi fa bene al corpo. Sì, mi fa bene soprattutto all'anima. Ed è di questa seconda opzione che ho bisogno. Mi devo curare l’anima, ogni tanto.

Camminando vedo un sacco di cose, e di ogni cosa posso cogliere la sostanza; la lentezza è un lusso e un privilegio, ma è anche un ottimo veicolo della conoscenza. Conosco molte cose in più del mondo che mi circonda da quando vado a piedi, una conoscenza non superficiale, ma quasi tattile. Camminando ci si può fermare in qualunque momento senza mettere la freccia, liberi di variare il tragitto e i suoi tempi per accettare l'incontro imprevisto con una persona, un paesaggio, o anche solo una splendida fontana ghiacciata.

Andando a piedi i pensieri hanno la possibilità di dispiegarsi con calma in una chiarezza inaspettata, e non di rado si sciolgono con grande naturalezza nodi che ci parevano irriducibili. E si fanno più leggeri, sempre: c'è già lo zaino che ci pesa sul groppone senza dover aggiungere peso superfluo.

Andando a piedi si riacquistano qualità perdute: il senso delle distanze, la percezione del tempo, il senso delle proporzioni.

Ho imparato ad andare a piedi al tempo della permanenza a Londra. Girovagavo dappertutto. Perdendomi e dormendo sulle panchine di un parco a caso. Poi un giorno mi fermai per una micidiale periartrite. E la mia impresa più grande – podisticamente parlando – fu quella di raggiungere il bagno dalla stanza da letto. Pian piano tornai a deambulare normalmente e il giorno che riacquistai la mia mobilità lo ricordo come uno dei giorni più belli della mia vita.

Da quei primi passi ho imparato a considerare l'uso delle gambe un dono prezioso, una grande chance nella vita. Questa mattina volevo andare a trovare un amico, prima di andare a lavorare. E ci volevo andare a piedi, sfidando il vento gelido che spira quando si attraversa il ponte di San Rocco per poi inerpicarmi su su fino al cimitero.

Mi sembra in questo modo di dare il giusto peso ad un gesto trattato con grande sufficienza. Andare a trovare un amico: è una cosa importante.

Tutto questo può sembrare sproporzionato, ridicolo? Forse, a chi non sa andare a piedi.

Penso che Claudio avrà apprezzato...

domenica 5 febbraio 2012

Fallibilità del comunismo



Apprendo con costernazione della nascita dell'ultimagenita della coppia John Elkann e Lavinia Borromeo. Non tanto per l'innocente neonata, quanto per nome che la coppia intende imporgli: Vita. E gli sposi sono recidivi. I primi due li hanno chiamati Oceano e Leone.

È esilarante l'uso bizzarro dei nomi di battesimo che ha quel circolo di bontemponi. Sparano nel mucchio: all'appello manca – almeno, ancora per un po' – Succo di mirtillo e Diesel. Questo uso è stato per anni – dai tempi del battesimo di Lapo – materia di studio, quasi una palestra, per generazioni di aspiranti psicologi.
Per Gianna Schelotto questa è una tendenza in voga per una certa categoria di persone – quella per intenderci che non fanno un cazzo dalla sera alla mattina e dalla mattina alla sera - per “ergersi un gradino sopra alle masse”. Una piano parallelo rispetto agli altri, ma proiettato in verticale.

E così un bel giorno si riuniranno tutti quanti, questi pargoli dai nomi astrusi, tutti quanti a giocare con le loro Barbie vestite con abiti su misura commissionati ad Armani. Giocheranno a Monopoli con soldi veri e quando faranno le squadre per giocare a calcio ingaggeranno Ibrahimovic e Messi.

Mi sento malinconicamente solidale con la piccola Vita, come lo fui per gli innocenti Oceano, Leone e Nathan Falco. Mi verrebbero in mente migliaia di slogan proletari contro coloro che hanno solo anche pensato di imporre questi nomi: quasi un marchio a fuoco da portare appresso tutta la vita.

D'altronde questa è l'ennesima prova che i comunisti non ne hanno mai azzeccata una.
Non dovevano mangiare i bambini.
Dovevano mangiare i genitori...




giovedì 2 febbraio 2012

Alza le mani e fai un salto trallalalà...




Tutti abbiamo bene in mente una filastrocca di tipo iterativo, magari raccontata dalla nonna o dalla vecchia zia.
Un tipico esempio è Cavallino Arrò, Arrò..

Cavallino arrò arrò,

piglia la biada che ti dò,

piglia i ferri che ti metto,

per andare a San Francesco.

San Francesco è sulla via
per andare alla badia.

Alla badia ci sta un frate
che prepara le frittate.

Le frittate non son cotte
mangeremo le ricotte.

Le ricotte son salate…

mangeremo le frittate.

Andando più sul moderno, è illuminante la canzone di Angelo Branduardi “Alla Fiera dell’Est”, motivo molto in voga negli anni Ottanta.
L’iterazione sta a indicare il moto circolare del tempo, e la convinzione che tutto torna e niente muta e se muta lo fa solo per ritornare al punto di partenza: come il susseguirsi delle stagioni e i discorsi di Berlusconi contro la magistratura.

Recentemente un gruppo di etologi italiani ha scoperto una nuova filastrocca detta “del politico che ruba ai politici che rubano ai cittadini”. Squadre di lavoratori in nero usa intonarle quando iniziano operazioni particolarmente inutili come la potatura del basilico. Fa più meno così:

Lo Stato italiano dà ai soldi ai partiti, (alza le mani e fai un salto trallalalà)
il tesoriere del partito si intasca i soldi (alza le mani e fai un salto trallalalà)
i deputati non si accorgono che mancano 13 milioni (alza le mani e fai un salto trallalalà)
mancano i soldi e allora viene in soccorso lo Stato (alza le mani e fai un salto trallalalà)
e allora lo Stato alza le tasse per dare i soldi ai partiti (alza le mani e fai un salto trallalalà)
e così la fola ricomincia (alza le mani e mettiti seduto trallalalà)...

Pare che, con questa filastrocca in sottofondo, la produttività dei potatori di basilico aumenti del trenta per cento...