Si chiama Ignazio ed è un bravo ragazzo, ma bravo davvero.
Non si direbbe nemmeno che è straniero. Il nome di battesimo aiuta in questi
casi. Ignazio suona anche come un nome spagnolo.
Quando glielo imposero, in Sicilia, i suoi genitori
pensavano già di emigrare in Venezuela. Partirono che Ignazio non aveva ancora
compiuto due anni. Nemmeno se lo ricorda, il viaggio.
Suo fratello Carmelo, invece, era già più grandicello. Sette
anni è l’età giusta per catalogare ricordi nella memoria.
Babbo lavorò duro. Faceva parte dell’esercito dei “Pane e
pepsi cola”; uomini che faticavano sedici
ore al giorno. Non si fermavano nemmeno per mangiare. Nel cestino che si
portavano al cantiere, nelle fabbriche, nelle raffinerie di Maracaibo, c’era un
tozzo di pane e una bottiglia di Pepsi.
Papà era riuscito ad evitare l’inferno di Caracas: quella
città, anche allora, era grigia, sporca e confusa come un incubo. Erano
riusciti a costruirsi una povertà
dignitosa a Puerto La Cruz, sulla costa. Una casettina a pochi metri dal mare.
Dal cancello di casa alla spiaggia c’era solo la carrettera. Ignazio crebbe in quella località: un porticciolo e
poche case. Più barche che macchine, più capanne che case. Il cielo era come
una lavagna vergine: fin troppo semplice contare le sette stelle. In poco
tempo, grazie ai Pane e Pepsi cola,
Puerto La Cruz diventò una cittadella.
Probabilmente Ignazio non sapeva nemmeno che quel tipo di
macchina fosse esistita. Era una Ford Mustang, 3.300;
120 cavalli a 4.400 giri al minuto. Macchine americane ne circolavano
poche in Venezuela. Quel muso grintoso, quel radiatore che sembrava una bocca
spalancata, quei due fanali come occhi ammiccanti, fino a qualche tempo prima
si potevano ammirare solo sui giornali, sulle reclame della lacca per capelli –
quelle infilate nel cassetto del barbiere, con il corredo di donnine nude. Poi
il boom economico legato all’estrazione del petrolio aveva dato il via libera
al superfluo. La Mustang era il superfluo, lo status symbol.
Una di quelle icone, nera e tutta cromata, passò per la carrettera di Puerto la Cruz un pomeriggio-quasi sera di
giovedì due settembre. Proprio in tempo per falciare Carmelo, che di anni ne
aveva diciannove. I testimoni dissero che Carmelo l’italiano non si scansò quando stava passando il bolide, che
non fece nulla per evitare l’impatto con la Mustang. Era immobile, quasi
ipnotizzato.
È giusto dire che Carmelo aveva una passione smisurata per
le quattro ruote. Tanto che fece di tutto per farsi assumere nell’unica officina
di Puerto La Cruz. Lì arrivavano solo vecchi catorci, palliativi di jeep, pick
up improbabili, vecchie Ford semidistrutte. Carmelo era diventato uno
specialista; carburatori e semiasse non avevano più segreti per lui. Muoveva le
chiavi inglesi come se fossero tasti di pianoforte; il rombo imperfetto dei
motori era una sinfonia per le sue orecchie. Bilanciava le gomme di camion
obsoleti con una Belmond pendula che formava un tutt’uno con il labbro
inferiore. La Mustang per lui era un miraggio, il sogno di una vita. E anche di
più, molto di più. Quel sogno su quattro ruote passò dalla carrettiera di
Puerto la Cruz quando Carmelo aveva finito l’ultima sigaretta. E il tabaccaio
era proprio al di là della carrettera.
Riportarono a casa quel che rimaneva di Carmelo poche ore
più tardi. I piedi calzavano solo una ciabattina da poco prezzo intrecciata da
qualche minore in qualche sperduta landa orientale. L’altra ciabatta non la
ritrovarono più. La gamba destra spuntava dai jeans con una postura irreale; formava
una P con l’altra gamba. La faccia era miracolosamente intonsa; il pallore
violaceo del viso metteva ancora di più in risalto l’incavo giallo sul labbro
inferiore: era lì che la Belmond stazionava per buona parte del giorno. Arrivò
Padre Hugo a distribuire parole di conforto a mamma e papà. Irrorò la stanza di
frasi blandamente consolatrici. Ignazio stava in un angolo. Le lacrime
scorrevano mute, senza singhiozzi, come semplice risposta al mondo. La vita
scorreva tranquilla - prima.
All’improvviso capitò la morte - dopo.
Fu recapitato un mazzo di fiori. L’aveva mandato l’autista
della Mustang nera che giovedì due settembre in un pomeriggio-quasi sera
sfrecciava sulla carrettiera di Puerto la Cruz.
L’inchiesta per la morte di Carmelo Iozzia di anni diciannove,
finì ancora prima di iniziare. La colpa fu attribuita alla vittima che non fece
nulla per evitare di essere investito dalla Mustang nera. Anzi – e i testimoni
lo dichiarano al posto di polizia – quasi favorì l’investimento. I genitori di
Carmelo non vollero nemmeno andare troppo a fondo, tanto nulla e nessuno poteva
restituirgli il figlio primogenito. Papà iniziò a sostituire le Pepsi Cola con
decine di cervesa Polar. Mamma invece
continuò a snocciolare il rosario che si era portato portata da Santa Teresa di
Riva. Lo srotolava tutte le sere prima di addormentarsi, da quando aveva otto
anni. Ma dalla morte di Carmelo, quel rosario girava più velocemente - quasi
con furore. Per mamma era una immaginaria corda che l’avvicinava al figlio:
ogni giorno un centimetro più vicino a Carmelo, al suo Carmelo.
Ignazio continuava ad essere un bravo ragazzo, ma bravo
davvero. La morte del fratello portò in lui un cambiamento che aveva la forma
di un sasso oblungo. Ignazio lo portava sempre appresso, in tasca. Lo raccolse
per strada la prima volta che vide parcheggiata una Mustang, due settimane dopo
la morte di Carmelo. Sembrò quasi un gesto scontato, un movimento primigenio -
incontrollabile. Prese il sasso e rigò la Mustang. Un solco profondo il giusto
per intaccare la carrozzeria. Tolse la vernice per un lungo filo lungo la
fiancata. Quella riga sembrava la carrettera di Puerto la Cruz. Dritta, senza il compromesso di una curva. Dritta,
sino al punto in cui si interrompe improvvisamente davanti ad un monticello di
vernice metallizzata. Lui guardò con disinteresse quella perfettissima ferita
sulla portiera: la mano colpevole non ebbe nessun tentennamento. Non sentì
alcun rimorso, sentì solo che aveva fatto la cosa giusta. Era solo una
sensazione, certo. Ma si sa quanto sono importanti le sensazioni quando tutto è
inspiegabile. Poi, con il tempo, riuscì a dare un nome a quella sensazione. La
chiamò vendetta.
Quella di Ignazio era una caccia alla Mustang 3.300. Una ossessione. Ovunque andasse, il suo sguardo indagatore
si posava sui parcheggi. I suoi posti preferiti erano gli stadi e i
supermercati.
Con il passare del tempo, la Ford
cambiò i modelli della Mustang. Ma Ignazio era un purista: a lui interessavano
solo le 3.300, 120 cavalli a 4.400 giri al minuto. Perché è così che ti
frega la vita. Ti semina dentro una immagine o un odore o una parola o una
macchina e te li porti dietro per tutta la vita. Ma deve essere esattamente
quello. E quello per te è felicità o dolore o amore. O qualsiasi altro
sentimento contingente.
Ignazio studiò. Grazie anche a
quel nome spagnoleggiante, riuscì ad essere amico di tutti, si collocò come una
tessera di un puzzle nel mosaico di Puerto La Cruz. Con pochi bolivar comprò un
bar, che diventò un ristorante, che si trasformò in un hotel a cinque stelle.
Poi ne costruì un altro e un altro ancora. Non aveva ancora trent’anni che era
ricco, ma ricco davvero. Era pieno di impegni, ma nulla poteva impedirgli di
andare nel piccolo cimitero di Puerto La Cruz ogni dannato giorno. Sulla tomba
di Carmelo avevano messo la foto “buona”, quella scattata appena arrivati in
Sudamerica. Era sul banco di scuola, tutto ben pettinato, con la scriminatura
perfetta e il sorriso obbligato. Carmelo odiava quella foto. Ignazio lo sapeva.
Sapeva che il fratello avrebbe preferito quella che i suoi amici gli avevano
scattato sul lungomare, con gli occhiali a specchio, i capelli scarmigliati e
la sigaretta pendula. Quando i suoi genitori morirono – cirrosi e crepacuore –
Ignazio cambiò la foto sulla lapide. Papà e mamma, tanto non si sarebbero
arrabbiati nemmeno da morti. Avevano preferito farsi seppellire a Messina.
Ignazio era un bravo ragazzo, ma bravo davvero. E un giorno lanciò il sasso che
aveva in tasca.
Si trovava a Ciudad Bolivar, in
uno dei tanti alberghi di sua proprietà. Si fece portare con un taxi sul ponte
che scavalca un tratto del rio Caronì. Lanciò quel pezzo di vendetta ignea nel
punto dove la corrente era più impetuosa. Lo lanciò con tutta la sua foga. Il
pomeriggio prima aveva comprato una Mustang 3.300, nera e tutta cromata. Oramai
era uscita di produzione da un bel pezzo. Ignazio non volle nemmeno raccogliere
informazioni sul precedente proprietario. Forse era proprio lui. Prese il sasso
che aveva in tasca e cominciò a rigare la carrozzeria. Poi solcò anche l’altra
fiancata. Rifece il gesto un'altra volta e un altra ancora. Arrivò sino al
cofano e salì sul tettuccio, per arrivare al bagagliaio. Ridiscese sino
all’altezza della targa. Si accorse, però, che quel gesto non gli dava più nessuna
sensazione. Nessuna. Allora decise di sbarazzarsi di quel sasso. La pietra
della vendetta.
Ritornò a passi lenti verso il
taxi che lo stava aspettando con il motore acceso, come Ignazio aveva chiesto.
Camminava lentamente, intorno ad ogni pedata, sul suolo sdrucciolevole,
fioriva l’acqua spremuta dalle foglie. Diede un
ultima, fugace, occhiata al ponte. Fece per aprire la portiera. Vide per terra,
ancora umidiccio, il sasso. Non uno qualunque, ma quel sasso, tutto smerigliato
dai troppi raschiamenti. Lo raccolse e se lo rimise in tasca, dove era stato
per tanti, troppi, anni. Ignazio sorrideva. Appena arrivato a Puerto La Cruz
fece costruire una piccola teca rivestita di velluto azzurro. Incastonò la
pietra dentro alla teca. Ora il sasso, quel sasso, non uno qualunque, è proprio
sotto la foto scarmigliata di Carmelo. Se passate da Puerto La Cruz andate a
dare una occhiata al cimitero.
La pietra è ancora là.
Davvero commovente..... bello davvero, quel sasso è ancora là.
RispondiEliminaA.L.
Penso che Aldo dovrebbe regalarci una raccolta di novelle...
EliminaUn racconto di vita... dove l'evoluzione porta alla maturità, alla comprensione, al perdono.
RispondiEliminaL'impotenza della vendetta, a volte ci porta a compiere gesti vanesi ma sono gesti che costringono a non perdersi la mente nei suoi stessi meandri,poi arriva la grande vendetta, una rabbia cieca scaturisce da noi e pare che basti.Ignazio è andato oltre , ha camminato a braccetto con il suo nemico, ha raccolto quel sasso per la seconda volta.
RispondiEliminaBruna