Uno, due, tre, quattro, cinque, sei e sette. A posto,
anche questa sera il compitino è fatto. “Conta sette stelle per sette sere
di seguito e il tuo desiderio sarà esaudito”.
Me lo disse Libero, a Benevento, nel corso di una notte corrusca. È un
consiglio che seguo tuttora. Non sempre. Talvolta. Succede che la nebbia faccia
crollare l’ultimo baluardo del fato. Talvolta i contorni dell’oggetto agognato
si confondono, andando a sconfinare in altri campi, il giorno seguente. A volte
mi chiedo se, nel corso di questo infantile rito, ci debba essere
necessariamente uniformità di intenti. Oppure se conti sempre l’ultimo,
irraggiungibile e contingente desiderio. Mi sono sorpreso a barare, anche,
spudoratamente. Contandone sette a mezzanotte meno un quarto e altrettante
appena scoccato il nuovo giorno. Qualche limpida sera ne contavo quattordici.
Il trucchetto lo mettevo in atto a Londra, quando credevo ancora al
concretizzarsi dei sogni. Eppoi è così difficile imbattersi in cielo stellato a
Londra. È per questo che gli inglesi sono perennemente tristi.
L’appuntamento è fissato per le sette e trenta. Il
luogo è sempre lo stesso, i tetri carruggi di Genova; la zona un tempo nobile
della città, ora alla mercè di spacciatori e puttane. Delle stelle nemmeno l’ombra
nei ritagli di cielo concessi dai perimetri superiori delle stamberghe. Guido
non c’è. E’ in ritardo, come al solito. Giochicchio, per un attimo, con l’indice
cronologico del suo ultimo libro. Era solito commissionarmelo: troppo noioso
spulciare nomi e date. Mi diceva spesso che potevo avere un futuro come
agiografo. Mi scosto dal citofono, rimetto i fogli nella carpetta azzurra e
faccio due passi.
Coriandoli. Il Carnevale. L’allegoria del Carnevale.
Me ne ero quasi scordato. Solo un calcio ai tondi stampini colorati
ammonticchiati sul ciglio della strada ne rivelava lo svolgimento. Mi chiedo se
la maschera indossata per celare l’identità cada per incanto alla mezzanotte
del martedì Grasso per restituire il volto abituale il mercoledì delle Ceneri.
O se sotto la maschera c’è un trucco, pesante e indelebile. E si sopravviva con
il pesante cilicio di un volto preso a prestito. Per taluni è un Carnevale
incessante, obbligato. Senza via di scampo. Si è costretti a ballare tanghi e
mazurke controvoglia. Perdendo anche il ritmo, ma continuando a muoversi
vorticosamente nel veglione della vita. Ci si accorge troppo tardi, quando
succede, che si è sprovvisti di invito. Ma si continua a ballare. Nonostante
tutto. Cercando di non fare scivolare una maschera fissata con legature
posticce. È difficile non sottostare a questo compromesso, il prezzo da pagare è
alto. Il più alto.
La conobbi in Portogallo, nella regione montuosa del
Tras Os Montes, una zona selvaggia. Poca gente. Credo che noi due fossimo stati
gli unici turisti che gli anziani vestiti di nero vedevano da anni. La stavano
guardando a debita distanza. Era seduta sugli scalini di una chiesa, a Macedo
Dos Cavaleiros, nello spazio che faceva da punto di ritrovo. I maschi giocavano
a bocce usando pietre, le donne osservavano il niente, malinconicamente
assorte, mute, dopo aver sviscerato lo scibile intonso. Lei non amava la gente.
Lo capii dallo sguardo freddo con il quale mi accolse. Mi sedetti accanto a
lei, senza parole. Le indicai sulla cartina il punto esatto dove ci trovavamo.
Lei assentì con la testa, senza voltare la stessa. Attimi di lungo silenzio. Un
cane abbaia, qualche metro più in là. Poi se ne va, caracollando. Caldo. Lei
non amava la gente. Mi alzai nell’atto di andarmene, senza parole. «Dove vai»,
mi disse stizzita. Non c’erano più autobus sino al giorno seguente e lei si
doveva recare a Lisbona. Le tracciai con il dito l’itinerario di massima che mi
ero prefissato. Si alzò. Ci avviammo verso la macchina che avevo affittato per
il viaggio. Passammo due giorni assieme, scambiandoci sguardi laterali con la
complicità dei finestrini chiusi. Mangiavamo in macchina, su fogli traslucidi e
bisunti. Manipolava continuamente i tasti della radio senza mai essere soddisfatta
del risultato. Era la terza di quattro figli. Le tasche piene di escudos e la
testa vuota di prospettive. Era tutto quello che riuscito a carpirle. Lei mi
chiese da dove venivo. Le dissi dall’Italia. Lei mi disse: lo so, ma da dove.
Le dissi il posto. Lei mi rispose: fantastico. Tutto qui.
Parlava poco; questo perché conosceva poche parole e
non credeva in nessuna di esse. Normalmente mi avrebbe annoiato, solo che
allora i miei sensi erano svegli ad ogni genere di amicizia umana. Bruttina,
sciatta, ma con due mani bellissime, con unghie pulite e curate, dita lunghe e
affusolate. Dita da artista. Aveva lo sguardo fisso di chi cerca qualcuno nella
folla. La faccia era giovane, ma portava già la traccia latente del futuro di
cui il presente è una maschera debolissima. Era diretta a Lisbona per fare
visita ad una zia e a cercare qualcosa che non c’è. Fuggiva da un paesino
vicino a Liegi. Me lo disse la prima sera, quando ci regalammo due righe di
chiacchiere da ospedale prima di addormentarci. Quella sera sorrise, anche. Con
moderazione, naturalmente. Poi ammutolì improvvisamente, vergognandosi di
essere stata colta in flagrante. Appoggiò la testa allo zaino, socchiuse gli
occhi e chiuse la porta dietro di sé.
Arrivammo la sera seguente, all’imbrunire, sulla
costa occidentale dopo aver attraversato la campagna portoghese, perennemente
avvolta nel dormiveglia della domenica mattina. Sostammo per un attimo ad
ammirare il tramonto sull’oceano. Prima di scendere dalla macchina, mi disse
qualche parola, cui non diedi peso, affascinato come ero dalla bellezza
perlacea del paesaggio. Lei sembrava felice; percorsa da brividi compiacimento.
Presi il maglione dallo zaino e mi accesi una sigaretta. La persi di vista un
attimo. Poi la vidi. Era là. In bilico tra gli scogli e il mare. Tra la vita e
la morte. Qualche attimo, titubante, pensierosa; nella penombra solo il punto
rosso della sigaretta – dell’ultima sigaretta - le rischiarava i lineamenti.
Pensava che quello fosse il luogo ideale per morire. Me lo disse - questo mi
disse, Cristo, stupido che non sono altro – appena prima. Poco prima di
spiccare l’ultimo volo. Poteva essere il posto ideale. Poca gente, quasi
nessuno. Qualche appassionato di footing. Qualche nostalgico in preda ad
elucubrazioni. Gabbiani. Solo loro a osservare quel volo di cento metri nel
nulla. Lei non amava la gente. Era sicura che nessuno avrebbe voltato la faccia
inorridito. Niente sirene, né pompieri. Niente stampa. Niente clamori. Solo il
silenzio e il frangersi delle onde, laggiù in basso. Il mondo che succede e
basta. Il faro di Capo Carvoeiro. Qualche cicca per terra. Involucri
metallizzati di preservativi da poco prezzo. Niente schiamazzi. Il suo corpo
che va a confondersi con le cianfrusaglie restituite dal mare. Niente clamori.
Solo la lampara di un gozzo, in lontananza. Nessuno. L’orizzonte confuso con la
linea disegnata dall’oceano. L’odore acre del mare. Nessuno. La tramontana che
spira gelida, incurante dell’attimo. Il freddo ha cominciato a salirmi dentro,
venato di sentimenti privi di contorni. Il faro di Peniche che colora il cielo
di rosso, ad intermittenza. Tavoli di formìca, qualche centinaio di metri più
in là, sotto la luce fioca di un tramonto di maggio che va a soccorrere le
lampadine a basso voltaggio di una insegna presa in affitto. Nessuno. Solo gli
scogli protesi verso l’alto, quasi a scongiurare il gesto, quasi a supplicare
un ripensamento.
Ma è buio: il buio sospende tutto.
Non c’è nulla, nel buio,
che possa cambiare.
Tutto è immobile.
La stampa portoghese diede ampio risalto all’avvenimento.
Tante foto, tanta gente. Il suo corpo esposto, ridicolizzato, violentato.
Furono chiamati i suoi parenti. Caldo. Insetti. Volute di fumo, infradito,
polvere, lacrime. Tanta gente. Bambini, figli di curiosi, mangiano pop corn,
osservando svogliatamente il luogo della tragedia. Sibili di lattine, walkman.
Caldo. Polvere, lacrime. Bisbigliati scambi di parole. Non più pescherecci, ma
yacht d’alto bordo, con signorotti sulla poppa a fumare sigari cubani e
scrollare la testa, con la curiosità morbosa anfrattata dietro alla
commiserazione.
Lei non amava la gente.
Se solo lo avesse immaginato.
Riprovo
a suonare il campanello. Nessuno. Le otto e mezza. Forse questa sera Guido è
terribilmente impegnato. Mi avvio a piedi verso la stazione Brignole. In
prossimità di piazza De’ Ferrari mi si apre davanti agli occhi uno spiraglio di
cielo stellato. Meno male. Uno, due, tre…
Si, caro Aldo, sei proprio tornato... .
RispondiEliminaQuesto racconto è cupo, intriso di pessimismo e di solitudine, ma certamente deve essere uno che ti è, e ti sarà sempre particolarmente caro.
Lei... bruttina e sciatta con la quale, tuttavia, ti trovi bene. Una compagna di viaggio senza nome... che con i suoi silenzi ti fa compagnia.
Lei che non ama la gente, come forse ormai la maggior parte di noi... .
Lei che ti riserva l’ultima sorpresa, quella finale, che la scolpirà per sempre nella tua anima... .
Bellissimo racconto..., da rileggere..., da meditare.
Una giornata gonfia di tempesta e di presagi
RispondiEliminaMentre il temporale gonfia le acque
Senza affanno e senza di pietà.
Buio vuoto.
Mi aggrappo con te alla Speranza, ultima Dea.
Mariaconcetta
sto cercando di "digerire" ed evitare di piangere incazzato.....
RispondiEliminaNessuno... quando si vive soli, si muore soli. Tutti arrivano dopo, quando non ci sono più parole da dire, quando tutto si è compiuto, e pensare che...basterebbe a volte, uno sguardo di più e un abbraccio di più perchè la vita continui a scorrere nell'altro.
RispondiEliminaStavo per perdermi questo racconto... ma l'ho ritrovato per fortuna.
A.L.
Ci sono storie che passano indifferenti, altre ti inchiodano,non tanto perché ne sei il protagonista, ma uniche e degne di essere raccontate, ancor prima di essere conservate gelosamente nella parte più segreta dl nostro cuore. Siuazioni e paesaggi contraddittori che ne arricchiscono la trama e diventa la foto del nostro tempo, dove opulenza si sposa con indifferenza e quest'ultima ferisce sempre le persone più sensibili. Bel racconto, essenziale e pieno di significato, avvincente e semplice come l'animo che traspare limpido e generoso.
RispondiEliminaAntonio Lanza
Lei non faceva rumore, silenziosa ha attraversato la sua vita e...la tua, un silenzio pieno di rumore ti ha lasciato nell'animo...che ancora ne senti il boato contando le stelle di una vita sempre in corsa, di una vita che impietosa che tracima coloro che non fanno rumore.
RispondiEliminac'è un CHE di troppo nel commento su....chiedo VENIA
RispondiEliminaIl respiro del racconto, ampio e completo in sè, che traccia figure, personaggi, paesaggi, stati d'animo in un quadro corale, avvincente e perturbante. Rimane impresso, come una catena di avvenimenti, piccoli grandi, sensibili, gentili, accorati,necessari l'uno all'altro seppure caratterizzati in sè come altrettanti quadri.
RispondiEliminail fascino di questo racconto sta nell'identificazione immediata con la ragazza...con la sua inesorabile determinazione cosparsa da un immenso pudore...quel pudore che i mass-media ci strappano ogni giorno...Gilda
RispondiEliminaComplimenti per la Bella Pagina Web.Felice Vita da Dorino.
RispondiEliminahttp://www.escursionando.net
Ancora Complimenti. Ciao da Dorino
RispondiEliminaE' un racconto che svela la nostra vita distratta,la tristezza che ciascuno porta dentro di sè con sfibrante rassegnazione,che impietosamente mostra il nostro bisogno di piccole illusioni per sopravvivere.In questo racconto ci sei e la tua meravigliosa penna.
RispondiEliminaN.