Vorrei
piovesse il giorno del mio funerale. Pioggia forte, come se fosse
l'ultima. A parte la naturale empatia che nutro nei confronti di
questo fenomeno meteorologico così bistrattato, vorrei che chi
seguirà il mio corteo funebre lo faccia perché lo voglia fare. Che
magari si fosse dimenticato l'ombrello a casa e nessuno, nei suoi
pressi, gli presti aiuto.
Vorrei
che non avesse nemmeno uno straccio di K-Way, ma nonostante tutto si
avvii con passo spedito dietro al carro.
Vorrei
che le sue lacrime si impastassero con le gocce di pioggia.
Ne
conosco un paio (non di più) che sfiderebbero anche l'uragano
Katrina, pur di accompagnarmi al camposanto.
Troppo
facile, accompagnare un corteo funebre con il sole, magari verso le
tre, giusto in tempo per digerire il lauto pranzo ed agevolare il
salvifico ruttino. Troppo facile.
Oggi,
a
Johannesburg,
al funerale di Mandela pioveva. Incessantemente, tutto il tempo,
pioveva. E tutti, sotto la pioggia, ballavano. E piangevano, senza
soluzione di continuità. Pioveva e loro ballavano e piangevano.
Indimenticabile. Queste due azioni (pioggia e pianto) valevano più
di mille parole di Obama o Ban
Ki-Moon.
Un
giorno, tanto tempo fa, un giovane collaboratore – tutto borchie,
tatuaggi e anarchia – venne a propormi un servizio su una
manifestazione a Roma. A parte la praticamente nulla utilità di un
articolo dalla Capitale per le pagine di provincia di un quotidiano
di Parma, io feci presente al virgulto barricadero – più che altro
per togliermelo dai coglioni – che le previsioni del tempo erano
tutt'altro che buone. Infatti era prevista pioggia. Lui preso in
contropiede battè in ritirata. “Ah, no, allora no. Allora facciamo
che seguo il festival del prosciutto”.
“Meglio,
molto meglio”, gli risposi...
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