Se io fossi B. avrei da tempo venduto
parte delle vaste proprietà, avrei messo i proventi in un paio di
container – aggiungendoci magari un centinaio di carnet di assegni,
frutto di anni di onorato lavoro – e sarei partito, per sempre. In
un bosco islandese o un in un villaggio del Belize, senza computer,
né fax o francobolli per posta prioritaria. Solo una bella scorta di
romanzi e qualche pillola blu (non si sa mai).
Nascosto dietro una barba o una
parrucca mechata, mi sarei rifatto una vita e disfatto di quella
precedente. Avrei giocato a burraco o a backgammon con gli indigeni,
ridendo a crepapelle davanti ad un tiepido infuso alle erbe sul mio
passato da “statista”. Avrei, finalmente, fatto amicizia con un
netturbino o un cameriere o un giocatore di boccette. Non ho alcun
intento beffardo scrivendo questo post.
Provo sincera commiserazione per il
signor B., che da venti anni a questa parte ha avuto conoscenze solo
dal milione di reddito in su. Non c'è imprenditore, potente,
politico che non sia passato dall'enorme cruna del suo ago. I potenti
vivono come pazzi, non c'è da meravigliarsi se poi, negli anni,
diventano vaneggianti tromboni. Vivono nelle loro enormi regge,
sospettosi, disperati, vendicativi. Soli, alle mercé di spietati
tornacontisti.
Mi dia retta, Signor B., vada a vedere
come procedono i cantieri nella tratta tra Manaus e Santa Helena di
Juaren e tra un rimbrotto e l'altro agli operai creoli (già me lo
vedo: “Mi consenta, negretto”), racconti come qualche anno prima
occupasse anche lo scranno di Primo Ministro.
E giù grasse risate...
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