venerdì 29 novembre 2013

Se io fossi B.



Se io fossi B. avrei da tempo venduto parte delle vaste proprietà, avrei messo i proventi in un paio di container – aggiungendoci magari un centinaio di carnet di assegni, frutto di anni di onorato lavoro – e sarei partito, per sempre. In un bosco islandese o un in un villaggio del Belize, senza computer, né fax o francobolli per posta prioritaria. Solo una bella scorta di romanzi e qualche pillola blu (non si sa mai).

Nascosto dietro una barba o una parrucca mechata, mi sarei rifatto una vita e disfatto di quella precedente. Avrei giocato a burraco o a backgammon con gli indigeni, ridendo a crepapelle davanti ad un tiepido infuso alle erbe sul mio passato da “statista”. Avrei, finalmente, fatto amicizia con un netturbino o un cameriere o un giocatore di boccette. Non ho alcun intento beffardo scrivendo questo post.

Provo sincera commiserazione per il signor B., che da venti anni a questa parte ha avuto conoscenze solo dal milione di reddito in su. Non c'è imprenditore, potente, politico che non sia passato dall'enorme cruna del suo ago. I potenti vivono come pazzi, non c'è da meravigliarsi se poi, negli anni, diventano vaneggianti tromboni. Vivono nelle loro enormi regge, sospettosi, disperati, vendicativi. Soli, alle mercé di spietati tornacontisti.

Mi dia retta, Signor B., vada a vedere come procedono i cantieri nella tratta tra Manaus e Santa Helena di Juaren e tra un rimbrotto e l'altro agli operai creoli (già me lo vedo: “Mi consenta, negretto”), racconti come qualche anno prima occupasse anche lo scranno di Primo Ministro.

E giù grasse risate...

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