I delitti in famiglia, in cinque anni, sono decuplicati. Sì, avete
letto bene: dieci volte di più. Mariti che uccidono le mogli, mogli
che strozzano i figli, figli che sparano ai genitori. Il più delle
volte, senza una ragione. Senza un movente comprensibile da una
persona mediamente sana di mente.
L'argomento è troppo grande per farne materia di semplificazione o,
peggio ancora, di polemica. Tanti ne hanno scritto, in questi ultimi
tempi. Anche chi – e sono, aimé, la maggioranza – quel giorno
era in vena di sporcare un foglio con sciocchezze.
Mi aggiungo alla schiera e voglio buttare un piccolissimo sasso nello
stagno.
Vorrei chiedervi se ciò che oggi chiamiamo “famiglia” (nel senso
di madre, padre, due figli: niente a che vedere con le affollate
tribù di una volta) corrisponda ancora al famoso “nucleo fondante
della società”, benedetto dalla Chiesa e dallo Stato.
Oppure non sia anche un guscio, chiuso e impaurito, dentro al quale
implodono e si guastano irrimediabilmente umori e rapporti, amori e
sana gelosia, libertà e comprensione.
Il dibattito sulle unioni civili, sulle famiglie allargate, su nuovi
diritti e nuovi rapporti che discendano non più dai vecchi assetti
(oramai completamente svuotati di significati), ma dalla dignità di
ciascun individuo, è anche un dibattito di civiltà contro
l'ideologia monocratica che la famiglia tradizionale sia la sola
salvezza possibile contro la deriva della società moderna.
Giorgio Gaber, di contro, cantava tanti anni fa che “la strada è
l'unica salvezza”.
Erano canti del '68, certo. E le voci erano dei sinistroidi o delle
zecche, sicuro.
Ma almeno qualche cosa, i sessantottini-sinistroidi-zecche, magari lo
avevano capito.
E forse prima del tempo...
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