martedì 16 febbraio 2016

Unioni civili e incivili



I delitti in famiglia, in cinque anni, sono decuplicati. Sì, avete letto bene: dieci volte di più. Mariti che uccidono le mogli, mogli che strozzano i figli, figli che sparano ai genitori. Il più delle volte, senza una ragione. Senza un movente comprensibile da una persona mediamente sana di mente.

L'argomento è troppo grande per farne materia di semplificazione o, peggio ancora, di polemica. Tanti ne hanno scritto, in questi ultimi tempi. Anche chi – e sono, aimé, la maggioranza – quel giorno era in vena di sporcare un foglio con sciocchezze.

Mi aggiungo alla schiera e voglio buttare un piccolissimo sasso nello stagno.
Vorrei chiedervi se ciò che oggi chiamiamo “famiglia” (nel senso di madre, padre, due figli: niente a che vedere con le affollate tribù di una volta) corrisponda ancora al famoso “nucleo fondante della società”, benedetto dalla Chiesa e dallo Stato.
Oppure non sia anche un guscio, chiuso e impaurito, dentro al quale implodono e si guastano irrimediabilmente umori e rapporti, amori e sana gelosia, libertà e comprensione.

Il dibattito sulle unioni civili, sulle famiglie allargate, su nuovi diritti e nuovi rapporti che discendano non più dai vecchi assetti (oramai completamente svuotati di significati), ma dalla dignità di ciascun individuo, è anche un dibattito di civiltà contro l'ideologia monocratica che la famiglia tradizionale sia la sola salvezza possibile contro la deriva della società moderna.

Giorgio Gaber, di contro, cantava tanti anni fa che “la strada è l'unica salvezza”.
Erano canti del '68, certo. E le voci erano dei sinistroidi o delle zecche, sicuro.
Ma almeno qualche cosa, i sessantottini-sinistroidi-zecche, magari lo avevano capito.

E forse prima del tempo...

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