Uno dei ricordi più vividi degli ultimi dieci anni è stata la trasferta che abbiamo fatto in terra urbinate. Dovevamo incontrare due persone straordinarie, Marco e Nadia, e i loro inarrivabili pargoli, Enrico e Vittoria. Una sfacchinata. Ma ne è valsa la pena. Eccome. Urbino è di una bellezza che lascia senza parole, ma la sua visione è passata senza lasciare traccia alcuna nella mia memoria. Ciò che si impresso in maniera indelebile, è la serata accanto al caminetto, senza luce, senza Tv, senza nemmeno la radio. Gli unici suoni – celestiali, argentini, eterei - erano le voci dei tre bambini che raccontavano storie da loro inventate. Splendido. Eravamo sette persone intorno ad uno sfavillio di lapilli. E niente altro
Eravamo gente che si raccoglie intorno ad uno di loro per ascoltarlo allo stesso modo di centomila anni fa. Parole che navigano nell’aria e vengono raccolte, suoni dell’immaginario che diventano per incanto emozioni condivise. Una magia fatta di niente, in un’epoca di meravigliose magie televisive. Di fantasmagorici effetti speciali. Eppure funziona, eppure ha funzionato. Così come funzionava nella cucina di casa mia, in un paese qualunque degli anni sessanta, quando mia nonna prendeva a raccontare qualche cosa di stupefacente che le era capitato quel giorno, da qualche parte, a qualcuno: una tra le mille favole del quotidiano.
Questo miracolo funziona sempre. Funziona perchè l’arte del comunicare è materia più complessa di quella ipotizzata dagli ideatori degli spot pubblicitari. Funziona perchè quando si è finito di raccontare, intorno c’è gente più amica. Ed è la cosa più bella, che nessuna tecnologia può ricreare.
E poi, ciclicamente, c’è qualche pirla che dice che la favola non funziona più, che i racconti sono finiti, immaginando un punto di non ritorno per la parola, questo bene sacro che ci distingue dagli animali. “Nessuno sta più a sentire le favole”, dicono. Forse, più semplicemente, non c’è più nessuno che sa raccontarle, le storie, ordinarie e straordinarie. Forse, non c’è più nessun cantastorie in questo Paese.
Un Paese che ha in odio la fatica di amare, amare per davvero, i propri bambini. In questo Paese i bambini vengono ignorati, tollerati, vezzeggiati, ma non amati. E nemmeno voluti. I bambini sono una fatica che cerchiamo di risparmiarci, come intendiamo risparmiarci la fatica di costruirci uno straccio di futuro. Sono, bambini e futuro, un prezzo che andrebbe a gravare sulla montagna di costosissima spazzatura che fa da placebo alla disperazione di questo Paese di favole, altre favole, bugiarde.
E' una gran fatica raccontare a un bambino. Mettere in moto cervello e cuore per inventare qualcosa per lui, qualcosa che non sia qualche sciocchezza raccolta nella spazzatura di cui ci nutriamo. Meglio comprargli un giocattolo, accendergli la televisione.
E' una fatica anche nelle cose più banali. In quante scuole c’è un giardino, in quante giocherie c’è qualcosa di fantasioso e intelligente, in quanti quartieri c’è un parco per la sua bicicletta, un lago per le sue barchette, un teatrino per i suoi sogni? Avete idea della solitudine di un bambino di questo Paese? No, perché non gli avete mai chiesto il voto. E quello dei suoi genitori in certe città è in vendita per una ricarica da 20 euro per il cellulare.
Nel Paese della televisione più insulsa del mondo, del campionato di calcio più ricco, dove lo Stato ha finanziato anche i film porno, un bravo scrittore di storie per l'infanzia può farlo solo come secondo lavoro, nei ritagli di tempo, se vuole anche solo pagarsi l'affitto di casa. Già, in Italia non si fanno più figli. E perché mai dovremmo aver voglia di vedere nel loro pianto, nel loro sorriso, il riflesso della nostra vergogna...