giovedì 30 giugno 2011

Appunti quotidiani di un bullo




Chissà come si svolge, concretamente l’attività del bullo che picchia i musicisti. Chissà dove si dà appuntamento con i sodali della banda e con quali parole intavola un discorso (va beh, una concatenazione di frasi).
Chissà in quale locale mangia, prima di dedicarsi al suo hobby. Chissà se fa parte di uno specialissimo club che raggruppa idioti di tutte le categorie: lanciatori di sassi dal cavalcavia, profanatori di tombe ebraiche, suonatori di campanelli a tradimento, urinatori nel muro delle chiese. Chissà.

Chissà se esiste una qualche forma di destrezza o come si dice oggi, professionalità: se è considerato prioritario accanirsi contro la chitarra o sputare sugli spartiti o scalciare il corpo esanime quando è già a terra. Se viene stilata – prima o dopo – una dettagliata relazione dai componenti del branco.

Ultimo gradino della ben lunga scala della vigliaccheria, il bullo che picchia i musicisti, avrà pure una casa, una famiglia, una banco di scuola o un luogo di lavoro. Un suo habitat naturale dove sentirsi, dopo una serata da bullo, serenamente vigliacco.

Forse ne conosciamo uno, lo salutiamo mentre esce di casa, la sera. Chissà, magari indossa fuori in qualche scantinato la divisa di ordinanza fatta di borchie e metalli vari. O magari è vestito con polo e jeans; tanto normale da essere scambiato per un ragazzo che va al cinema.

Ogni volta che vedo un documentario sui campi di sterminio, la cosa che mi sembra più atroce non sono le immagini di forni e dei morti.
Sono le casette dei villaggi intorno. Sono fiorite, pulite. C’è il cane che abbaia festosamente. La mamma cuoce la torta alla marmellata e il papà, sdraiato su un lettino, che legge il giornale...

martedì 28 giugno 2011

Le avventure di Starsky e Hutch




Lo so, lo ammetto: non ce la faccio a prendere sul serio i leghisti. È più forte di me. Qualche tempo fa sgnignazzavo da solo davanti al giornale. Stavo leggendo la cronaca di una giornata qualunque dell’europarlamentare (vi giuro: ci rappresenta in Europa) Mario Borghezio. Voleva partecipare ad un esclusiva riunione di un esclusivo club che si riunisce ogni anno in Svizzera. Questo gruppo di persone ha l’ambizione di decidere le sorti finanziarie del pianeta. E Borghezio - quello dello spray contro il puzzo delle prostitute sui treni, ve lo ricordate? - aveva la (giusta) pretesa di potervi partecipare. Appena si è presentato all’entrata dell’Hotel (non della stanza dei bottoni, badate bene) lo hanno fermato e malmenato.
La storia è di una spassosità che non ha prezzo.

Ma le trovate dei Sempreduri padani non hanno mai fine. È riapparso agli onori delle cronache Francesco Speroni (quello che ha fatto la guerra per la michetta, ve lo ricordate?). Milioni e milioni di euro investiti dal Governo – del quale, penso, la lega Nord faccia parte – per la sicurezza stradale e Francesco “Starsky e Hutch” Speroni mette su You Tube la sua ultima prodezza: andare a 316 all’ora sulle Autobahn tedesche dove non c'è limite di velocità. Beccato, su Radio 2 candidamente confessa che “è la mia passione, ho comprato apposta una fuoriserie”.

Dopo aver provato a rifare una carta che testardamente alcuni di noi si ostinano a chiamare Costituzione, i padani fanno carta straccia di un codicillo che regolamenta gli stop, i sensi unici, i limiti di velocità, l’uso del triangolo e la guida in derapage delle fuoriserie. Perchè Speroni, come molti altri leghisti, non solo viene dalla strada, ma ci si trova benissimo...

venerdì 17 giugno 2011

Il vecchio e il pallone




Apprendo attonito dell’ultima improba fatica che si deve sobbarcare Silvio Berlusconi in Parlamento. Tentare di convincere i suoi che la fiducia degli italiani è intatta intorno alla sua persona. E poi scendere a patti con Sempreduro Bossi, andare a cena con Scilipoti, magari convincere qualche prezzolato titubante. Salire e scendere per i predellini. Un dispendio di energie enorme. Ma non è che il primo – e forse più scontato – passo. Dopo c’è da riacquistare la credibilità a livello internazionale, polverizzata dalla copertina della perfida Albione. E qui si fa dura.

Mi chiedo che cosa spinga, nel profondo, un uomo che dalla vita ha avuto tutto - e anche di più - a mettersi in un simile impiccio. Ma in fin dei conti, chi glielo ha fatto fare? Servirebbe per capire una serenità d’animo che in questo momento nessuno ha.

L’ossessione del potere, il narcisismo, la megalomania, i debiti, la piaggeria dei cortigiani e delle damigelle possono aiutare a spiegarci l’azzardo di quest’uomo insieme inquietante e disarmante. Ma non bastano.

Uno che dopo aver vinto tutto, ributta sul tavolo verde l’intera posta non è solo avulso dalle realtà, ma è anche ingenuo.

È uno che si crede invulnerabile, eterno, invincibile. Come un bambino. E come i bambini vuole vincere sempre. Come quando da piccoli, il più imbranato del gruppo pur di giocare sempre comprava un tir di palloni, le bibite per tutti e il campo di gioco. Ne abbiamo conosciuti tutti di pargoletti viziati a questa stregua. Berlusconi, ora, appare esattamente così. Quando perde smania, grida al tradimento, tira fuori il portafogli e compra il pallone.

È uno che non può piacere, ora che l’effetto sorpresa è finito. Non può piacere a chi, adulto, conosce il valore del limite che è poi la misura della democrazia.

Ma almeno una cosa gli va riconosciuta: un incredibile coraggio.
Che è qualcosa di più della faccia tosta...

mercoledì 15 giugno 2011

Giovani di oggi e di ieri




Ci sono cascato. Mi ero ripromesso che mai e poi mai sarei caduto nel tranello. E invece eccomi qua a combattere una lite di media intensità con mio figlio Matteo, di anni 20. Egli ha una discreta passione per la musica e una buona predisposizione alla manipolazione di una chitarra elettrica. Così dicasi per i suoi amici e i loro rispettivi strumenti musicali. A me piace la musica; si può quindi tranquillamente affermare che questa cosa ci accomuna. Il muro – solido, impenetrabile e inamovibile – si alza quando si discorre sui brani da interpretare (loro fanno prevalentemente cover). Chiedendogli distrattamente quali fossero le loro band di riferimento, mi ha snocciolato nomi incomprensibili e mai uditi dalle mie orecchie scarsamente – e colpevolmente – poco informate suoi nuovi “talenti” in campo musicale. Testardo, ho cercato un punto d’incontro. Una boa a cui aggrapparmi.
E pensavo di averla trovata; “Ti dice nulla Starway to heaven?”. Risposta: “Così, su due piedi, no. Dovrei pensarci un attimo...”.
L’ultima, definitiva cazzuolata di malta sul muro che ci divide, è stata gettata.

È vero. Niente è più trito e fastidioso dei rimbrotti ai giovani di oggi fatti dai giovani di ieri. Quindi, è da considerarsi un errore pacchiano contrapporre il culto dei Tokio Hotel a quello dei Led Zeppelin: ci si limiterebbe a constatare che ogni adolescenza ha i suoi sogni. E che tutti i sogni vanno rispettati. Sono d’accordo. Ma sento che qualche cosa non quadra.

Per quanto io cerchi di relativizzare le mie esperienze giovanili rispetto a quelle odierne (e cercando di non ricalcare le pedanterie che ho dovuto subire in passato), io so, fortissimamente so, che i Tokio Hotel e i Led Zeppelin non sono la stessa cosa. E la so non in quanto giovane di ieri, ma in quanto persona che avverte la siderale differenza di qualità e di valore che passa tra i geni del Novecento (Beatles, ma anche Picasso e Mastroianni) e gradevoli mestieranti.

Questo vi piaccia o no, fa una differenza. Anzi, fa la differenza. Parlare di questa differenza è difficile: si ricade nello stereotipo dell’adulto saccente. Non parlarne, fa anche peggio.

Si ricade nella decrepita categoria dell’adulto ipocrita...

martedì 14 giugno 2011

Nude parole




Girovagando gioiosamente per i canali televisivi mi sono imbattuto su un reportage che ci veniva proposto da Brembate di Sopra.
Non c’era nulla di nuovo riguardo al barbaro omicidio di una ragazzina (come si direbbe nei migliori telefilm americani: la polizia brancola nel buio). Ciononostante il giornalista per guadagnarsi la pagnotta e giustificare il suo stipendio, ha pensato bene di piazzare il microfono a pochi centimetri dalla bocca di qualche sventurato brembatese.
Uno di questi tapini, uno spaesato uomo di mezza età, si è espresso decisamente in questi termini: “è un omicidio ingiusto”. Il che mi ha fatto istintivamente dedurre che esiste anche un omicidio giusto. Ero pronto ad inveire contro il nostro povero. Poi ho pensato che lui era solo una povera vittima.

Ho pensato che non voleva dire esattamente quello. E che si era limitato, vedendosi sbattere il microfono in bocca, a cavarsela come meglio poteva, nel disperato tentativo di riassumere in quattro, al massimo cinque secondi, un groviglio di sensazioni, un grumo di rabbia, che magari non era riuscito a dipanare nel corso di una vita intera. In quel momento quella risposta rappresentava la sinapsi di anni di ingiustizie e barbarie. Un omicidio ingiusto. Tutto qui.

Sempre più spesso, chi parla  - in Tv, sui giornali, per radio, sul web: ovunque la parola dia pubblico spettacolo e ludibrio – mi suscita una solidale pena. Rispondere ad un giornalista o ad una sciampista, non è mai facoltativo. È obbligatorio.

E non avere nulla da dire (fissarlo e tacere; oppure mormorare a bassa voce “non saprei che dire” o “che cazzo di domanda mi fai, brutto pirla”), costituisce un vero e proprio scandalo. Scandaloso come la nudità francescana.

Il silenzio sarebbe l’unico mezzo per spogliarci dai ridicoli drappeggi delle parole che formano il nostro (precario) status. Ma quando si è nudi si prova vergogna.

Così continuiamo a parlare, a dichiarare.
E a scrivere...

giovedì 9 giugno 2011

Professionisti della Corrida




Medici che tranquillamente prescrivono medicinali dopanti a minorenni, chirurghi che allegramente tagliano trippe sbagliate, giudici che inflessibilmente sbattono in galera persone innocenti, giornalisti che superficialmente fanno morire persone vive e vegete. Politici che non conoscono la Costituzione, calciatori che mettono polverine alla camomilla nella borraccia dei propri compagni, arbitri che non vedono e segnalinee che non sentono. Ma l’elenco è lungo. Lunghissimo.

Finalmente entra in crisi uno dei più perniciosi miti di questo scorcio di epoca: la professionalità. Siamo tutti, chi più e chi meno, null’altro che volenterosi mestieranti, amatori, artigiani di categorie più disparate.
Tentiamo tutti quanti, a volte con qualche talento e qualche profitto, di sbarcare il lunario nel modo più piacevole di quelli messici a disposizione dal fato.

Perchè mai, allora, abbiamo voluto illuderci che una qualità totale e infallibile, fosse scesa sui nostri capi ad illuminarci e a frenarci la mano e il cervello, quando siamo in procinto di fare qualche cazzata?
Lo svarione che Tizio chirurgo o Sempronio che di mestiere fa il giudice, ha certo conseguenze più nefaste e irreversibili di quello che potrebbe fare un idraulico o uno scribacchino.

Ma se a questo doloroso rosario di cialtronaggine, pressapochismo e incapacità riuscissimo a togliere il cilicio ideologico della professionalità, non sarebbe forse meglio?

Ve lo ricordate quando i comunisti – quelli con un dito di barba, la pipa in bocca e Marx sotto il braccio – si autodefinivano “professionisti della Rivoluzione”?
Beh, visti i risultati, non sarebbe stato più prudente chiamarsi “dilettanti della Rivoluzione”?...

martedì 7 giugno 2011

Lezioni di politica




Enzo Forcella, scrittore e giornalista, sosteneva che non più di millecinquecento lettori si soffermavano sulla pagina della politica. Questo sui grandi giornali. Nelle testate locali il numero si assottiglia. Tra quel pugno di lettori che seguono le mie note politiche ho avuto la sfiga di imbattermi in un giovane rampante che non gradiva le mie considerazioni.

E, sfiga nelle sfighe, l’ho pure incontrato in un freddo bar del centro città. Confesso di avere il terrore di parlare con un giovane rampante, di qualsiasi area politica egli appartenga. In questo caso trattavasi di una nuova leva della sinistra moderata che prende il nome di Partito Democratico.

Dopo aver fatto i conti per anni con innumerevoli convergenze parallele e con decine di anatre zoppe, dovrei aver accumulato una dose massiccia di anticorpi che dovrebbero proteggermi dal lessico politichese. Ma non è così. Ogni volta mi sento terribilmente a disagio.

Secondo la prassi consolidata da anni di frequentazione alla scuola della Frattocchie, il nostro rampante denunciava il grave ritardo con il quale il giornale in cui lavoro riesce a percepire il movimento democratico che sta nascendo. Mentre il monologo si stava spostando in avanti, io mi sentivo sempre più indietro. Sempre più in ritardo.
Congiuntura, decentramento delle funzioni decisionali, democrazia partecipata, la demistificazione del linguaggio.

La rincorsa mi sembrava improba, la lotta impari. La guerra perduta per sempre. Cercavo di fare mente locale e capire il punto esatto in cui avevo iniziato a perdere terreno.

Se mai avessi avuto la fortuna di capirlo, il nostro rampollo rampante, ha provveduto a materializzarmi un altro ostacolo invalicabile: il nuovo che avanza. E nella mia mente angosciata è subentrato il panico puro. Tentavo di immaginarmi come fosse il nuovo che avanza. Cercavo di capire che forma avesse, perchè avanzasse e con quali intenzioni. Per quanto mi sforzassi, l’unica figura metaforica che mi veniva in mente era un camion pieno di lucette e di santini. Uno di quelli che ogni volta che usano il clacson sembra di essere al concerto di Capodanno. Più che di capirlo mi venne voglia di scansarlo.

Dopo un paio di ore di lezioncina sulla politica, si alzò dallo sgabello e si smaterializzò, accompagnato da una scia di aromi provenienti da empori lontanissimi. Mi avvio anch’io verso casa, scrutando nella notte piena di neon per vedere se, nel frattempo, il nuovo fosse ulteriormente avanzato.
Ma tutto, fortunatamente, mi sembrò al punto di prima...

venerdì 3 giugno 2011

Il mio privilegio




Oggi ho riflettuto sui miei privilegi. Mi è capitato di farlo perché mi sono svegliato all'alba. È l'ora in cui mi sveglio e mi alzo, l'alba. Ma l'alba di questa mattina è stata molto particolare. Dalla grande finestra di cucina mi è apparso un mondo nuovo e irreale, come se il cielo e la collina fossero stati mutati in una materia diversa, spostati in un altro universo. O come se io, durante la notte, fossi stato trasportato in un altrove ignoto.

Guardavo alle sette questa mattina un mondo rosso cupo farsi lentamente del giallo spento dello zolfo e poi ancora rosso, di un rosso immaginario e astratto che non ricordo di aver mai visto nemmeno nella più grande scatola di pastelli. Sono stato a lungo a guardare, mentre il caffè bolliva e ribolliva. E mi ha preso uno sgomento strano, uno stato d'animo raro: stupore e sgomento al cospetto del mondo intorno a casa mia, al mio mondo.

Ma le sensazioni che ho provato permangono ancora adesso, e forte ancora sento il bisogno che ho provato all'alba di questa mattina: bisogno di riparo. La certezza che solo un metro al di là della finestra mi sarei perso in un mondo stravolto e alieno e la certezza la mia casa mi avrebbe protetto. Ed è stato un privilegio straordinario. Riparare la mia anima dalla tempesta, restituirle forza e tranquillità.

Io ho il privilegio di vivere in una casa che mi accoglie tra pareti più solide della loro stessa materia. Di alimentarne la mia anima, curarla, sostenerla, crescerla. Perché, anche oggi, il mio privilegio fa di me un uomo capace di liberarsi dalla paura, dall'angoscia, dallo sconcerto. Un uomo ricco che non ha bisogno di altre ricchezze. Per questo posso ancora vivere sentendomi libero, nonostante da molto tempo ormai, ogni mattino al mio risveglio, il cielo e il mondo sotto il cielo, mi appaiono di colori innaturali, spesso lividi, dipinti dalla voce delle notizie alla radio, dalla lettura dei giornali.

Forse è questo che fa di noi persone libere. L’avere un riparo per potersi difendere da tutte le baggianate che ci vengono propinate. Un baluardo per difenderci dagli uomini neri che puntualmente, tutte le mattine, ci vengono a spaventare.

Una casa e un cervello. Due privilegi che vogliono toglierci a tutti costi...

mercoledì 1 giugno 2011

Muri parlanti




È passato qualche giorno dal terremoto politico che ha sconquassato il panorama nazionale. Ma oggi non mi voglio soffermare su sofismi politici: a questo hanno già pensato giornalisti più qualificati del sottoscritto. Voglio parlare della sconcertante rivelazione che ci propinano i muri ogni qualvolta siamo chiamati alle urne. Sì, i muri.

Ecco, è giunto il momento di volgere il nostro sguardo ai muri: ci sono state le elezioni e ci siamo orientati nell’apporre la crocetta con un viso. E i muri sono lì per insegnarci e educarci al voto. Austeri muri in mattone, cemento, intonaco; glabre distese in profilato industriale, lamiera zincata, carton gesso. Questo è lo straordinario album fotografico della grande e gaia famiglia dei candidati a governare il nostro futuro. È davvero immensa la fiducia che il personale politico riversa nella propria immagine. Pare che tutto ciò che valga la pena comunicare agli elettori sia il proprio volto come se ciò che gli elettori andranno a votare sarà una faccia, non un sindaco o un consigliere.

Non ho visto nessuno raccogliere capannelli di cittadini intorno a sé per convincerli della concreta bellezza della propria “Idea”. Nessuno mi ha avvicinato per prenotarmi un esame clinico o per spiegarmi su come sia davvero possibile una sanità umana, efficiente e efficace. Niente ricette economiche, nè teoremi di ecosostenibilità. Niente di tutto questo. Sono tutti lì, appesi ai muri a mucchi, a mostrarmi il loro muso per ingiungermi di presceglierlo con l'ausilio di uno slogan.

Perché l'idea pare che sia questa: se un buon slogan fa vendere la peggio porcheria, può far vendere anche la mia faccia. Questa è l'idea di politica, di coscienza democratica, di volontà popolare che i muri della città mi invitano a considerare.
E io li ho guardati in faccia i candidati, uno a uno, e qualcosa ho imparato.

Ecco la sconcertante rivelazione: la campagna elettorale è pura, drammatica lotta di classe. Oggi assai più che ai vecchi tempi, anche se in modo difforme da allora. Perché è lotta non di partiti di classe, ma di candidati. I quali si dividono nelle seguenti classi: milionari, benestanti e taccagni. Facilmente riconoscibili in base non a parole d'ordine - gli slogan sono equipollenti in modo inquietante - ma dall'elaborazione dei loro ritratti: i milionari sono stati elaborati da una affermata agenzia di immagine, i benestanti da una sedicente agenzia di immagine, i taccagni dal nipote o dal figliolo con il pallino del computer.

Dal manifesto altamente sofisticato, frutto di studio e applicazione di professionisti, a quello pateticamente di basso costo, a quello fatto in casa, o in ufficio nella pausa pranzo. Sarebbe di una certa eleganza che gli elettori fossero informati circa i danarosi sostenitori di coloro che potrebbero votare. Così, tanto per capire.
Allo stesso modo per cui quando vediamo in TV le previsioni del tempo, sappiamo contestualmente che ci sono state fornite con il supporto di una marca di pasta o di scarpe, quando ammiriamo la faccia di un candidato sarebbe di una qualche utilità scorgerne al fianco i marchi e i nomi dei suoi sponsor.

Tutto questo ho pensato. E l’ho scritto, pensando che potesse essere regola certa anche per i giorni a venire. Più soldi uguale vittoria assicurata e potere immediato. Tutto questo pensavo. Poi, persone in piazza vestite di arancione mi hanno instillato concreti dubbi...