giovedì 30 dicembre 2010

La preghiera laica multimediale

Ecco, se devo dire un oggetto che lo identificava, non avrei avuto alcun dubbio: una mazzetta di giornali sedimentata tra l'ascella e il costato. Si aggirava tra i desk con occhi inquisitori. “Ti do una Prealpina per il tuo Eco di Bergamo”. “Fammi dare un'occhiata all'Arena, qui sul Mercantile c'è un articolo che ti può interessare”. Un'emeroteca vivente, un'edicola su due piedi, un notiziario umano.

L'ho incontrato due giorni fa, inaspettatamente privo del suo accessorio. Sembrava nudo davanti alle intemperie della vita.
Oramai è in pensione; ma quel vecchio cronista per nulla al mondo avrebbe contravvenuto alla regola della preghiera laica mattutina. Istantaneamente ho pensato ad uno sciopero improvviso, ma sono tornato in me in breve tempo: sono giornalista anch'io. Ne avrei avuto notizia.
A togliermi di dosso quel fastidioso dubbio ci ha pensato l'adorabile anziano che avevo davanti. “Mi serve un collegamento a Internet in tempo zero. Dammi una mano”. Per meglio esplicare la sua richiesta mi ha mostrato un netbook ultima generazione. Ho sorriso, ma quella era la risposta.

Ci sono parole che meglio di qualsiasi altra riescono a rendere l'idea. Una di queste è stata coniata dagli americani: è social currency, la moneta sociale. Serve ad indicare quelle informazioni spicciole che usiamo per relazionarci con le persone che abbiamo intorno: amici, colleghi, parenti.
Che tempo fa, i malanni vari, le vicissitudini lavorative. Ma anche lo sport, la politica, la cronaca cittadina, i programmi della Tv. Fino a poco tempo fa, il principale veicolo di social currency erano i quotidiani.
Ogni mattina lo sfoglio dei giornali forniva gli argomenti di cui parlare in ufficio, a pranzo, a scuola. Oggi non è più così (e mai più lo sarà).

Secondo uno studio internazionale commissionato dall'Associates Press, la banca centrale della moneta sociale è diventata la Rete, il Web, l'E-mail, i Blog. Prima chi voleva darsi un tono, andava in giro con il quotidiano preferito sotto il braccio. Oggi apre una pagina su Facebook...

lunedì 27 dicembre 2010

Quando cala il sipario

Si avvicinava di soppiatto nei perimetri degli improvvisati crocchi che si formano vicino al bancone di Brunin. Ordinava un caffè “basso e leggermente macchiato caldo” e si sedeva nel tavolo più appartato. Aspettava solo l'orario della parrucchiera, nel negozio di fianco all'osteria. Ogni tanto scrollava la testa, come per togliersi di dosso la polvere dei pensieri molesti.

Amelia è un'attrice di teatro. Nel suo viso, i segni della vecchiaia sono solo una debole maschera della bellezza straordinaria di qualche anno fa. Quasi si vergognava si raccontare del suo passato, dei suoi lavori con Mariangela Melato e Alberto Lupo. Della grama vita delle compagnie itineranti, della concorrenza sleale della prima Tv targata Mike Bongiorno. Poi un bel giorno è implosa: ha raccontato, liberando nell'aria il profumo inebriante dell'assito del palcoscenico. “Oggi – dice - è quasi una vergogna dire che si è vissuto di arte e cultura ”. E pericoloso, aggiungo mentalmente. Si rischia di passare per disperati.

La cultura è forse il problema più spinoso per la società d'oggi. Non tanto l'accettarlo, ma il come risolverlo. Con la nuova Milleproroghe, il Governo ha pensato di rottamare tutti gli intellettuali. Resta da decidere dove stoccare tutti gli intellettuali di sinistra e come smaltirli. Il guai arrivano dalle barbe altamente infiammabili e dalle giacche di tweed che sprigionano pericolosi vapori di alcol e zaffate di fritto da pessima trattoria. Dovendo giocoforza scartarne l'incenerimento, gli uffici tecnici governativi ne sconsigliano anche l'utilizzo nell'alimentazione animale, vista l'età avanzata degli intellettuali (giovani esemplari non se ne vedono in giro).

Non rimane che la rieducazione in centri per il lavoro manuale situati in Brianza e nel trevigiano. Là attori, scrittori, scultori, musicanti e cantanti, pittori e saltimbanchi saranno avviati allo schiacciamento del chiodo e alla tecnica denominata “picca e pala”. Sullo sfondo una gigantografia di Sua Bassezza con l'elmetto giallo da carpentiere allieterà i lavori. Alla fine del corso a tutti gli intellettuali sarà consegnato l'attestato “Ghe pensi mi” e un set di attrezzi da muratore. A richiesta, anche un avviso di garanzia per abuso edilizio.

Questa simpatica soluzione al problema della cultura nel nostro paese, pare sia stata suggerita al Primo ministro da un suo vecchio amico: Vladimir Putin. Lui, in queste cose, è un vero esperto...

venerdì 24 dicembre 2010

Briciole di politica

Può capitare in un momento di irreversibile vacuità e svogliatezza di leggere addirittura le cronache di una riunione dell'Api (acronimo che sta per - penso ma non ci metterei la mano sul fuoco - Alleanza per L'Italia).

La foto che campeggia sull'articolo della cronaca congressuale basterebbe per giustificare la rottamazione del quotidiano, per destinare quelle pagine al più consono ruolo di involucro per uova. La foto è quella di Francesco Rutelli, l'uomo (politico mi sembra una parola enorme) che viene da uno dei più impressionanti filotti negativi che la storia repubblicana ricordi. Dopo aver perso lo scontro elettorale con Sua Bassezza e consegnato la Capitale a Gianni Alemanno, Rutelli si appresta ad affondare il neonato e speranzoso Terzo Polo.

Leggendo tra le righe – lo ammetto: non ho accartocciato quella pagina – scopro che perfino un evento così accessorio della vita nazionale riesce a riassumere il clima di furiosa inconcludenza che domina il Paese. Ognuno è in disaccordo con qualcun'altro, si litiga anche con il cameriere del piano bar, si accusa governi nazionali ed esecutivi di altri Mondi, come se quanto verrà deliberato da questo nobile ma modico partitino, che in qualunque altra parte del mondo conterebbe meno di una bocciofila, potesse veramente influire sulla storia unversale.
Ma Rutelli, sentendosi dopo tanto tempo ascoltabile e ascoltato, continua a concionare, riuscendo perfino a abbozzare un programma per le future elezioni: “La nostra prima battaglia sarà per il lavoro e il futuro dei giovani”. Incredibile, mai sentito prima d'ora: la dichiarazione è riportata anche dall'agenzia Apcom, evidentemente attonita da tanta arguzia e lungimiranza.

Ogni ambiente, oramai, riproduce al proprio interno i segni del disastro, che non riguarda più soltanto i ceti sociali, ma i singoli individui, convinti che le loro ragioni siano imprescindibili, mentre tutto il resto sia inutile e relativo.

Presto arriveranno le telecamere della Cbs per le riunioni del Rotary e quelle della Bbc per gli incontri dei boy scouts. Anche gli inquilini del più misero dei condomini si frammenteranno per meglio interpretare le anime del verbo politico.

Tutti contro tutti, in una sorta di corsa all'autodistruzione. Di questo passo non è più in forse l'unità d'Italia, ma l'unità di Francesco Rutelli...

mercoledì 22 dicembre 2010

L'ultimo tabù

Siamo tutti con il fiato sospeso. Accendiamo la Tv e guardiamo se nelle anteprime dei telegiornali si intravede la foto di quella bambina di 13 anni che manca da casa da tanto – troppo, perlamiseria, troppo – tempo.
La tragedia di Bergamo non è un fatto eccezionale. Ogni anno, dicono le statistiche sempre pronte a rispondere ad ogni nostro dubbio, duecento minori sono inghiottiti nel nulla. Duecento; quasi due al giorno. Uno, forse, mentre sto scrivendo, uno mentre voi state leggendo. Tutti drammi enormi. La differenza lo fa il numero e l'importanza dei cronisti che si occupano del caso.

Molto fa anche il trend dell'informazione. Tempo addietro l'audience era calamitata dagli stupri. Ora è tutto sopito; ma le violenze sulle donne, ahimé, non sono terminate e nemmeno, penso, diminuite. Solamente non se ne parla più.

Qualche giorno fa mi è capitata sotto il naso un'indagine su un argomento un po' demodè: l'usura. Quello che mi stravolge di questo triste fenomeno è l'ammontare della cifra fatale che porta alla catastrofe le vittime. C'è gente che si è rivolta ai futuri boia per 5.000 euro. Come è possibile, ci si chiede ascoltando queste sordide storie, che un italiano per quanto in difficoltà, non riesca a mettere insieme in altri modi una somma che non basta nemmeno a comprare uno scooter del cavolo?
A parte quelle (blindate) delle banche, quante altre porte chiuse (parenti, amici, colleghi) deve aver trovato quel poveretto, per dover infilare la testa nel cappio degli strozzini?
Quanto sordo è diventato l'egoismo sociale se un nostro simile e connazionale arriva a distruggere la vita sua e dei suoi famigliari per 10 merdosissime banconote da 500 euro?

Ma il punto è un altro.
Il tabù del danaro (l'unico rimasto, almeno nel mondo occidentale) è diventato così forte che solo di questo ci si vergogna: ammettere di essere senza un quattrino è un'onta incancellabile. Perchè tutte le debolezze sono concesse e giustificate, tutte le schifezze, turpiloqui e bestemmie, tutte le sconfitte. Tutte tranne una: non aver soldi in tasca...

domenica 19 dicembre 2010

Il Grande Cambio

Questa settimana sono successi fatti epocali; neve al sud, Berlusconi che si salva ancora, l'Inter che vince la coppa del mondo per club contro una (quasi) invicible armada del Congo. Ma per me è stata la settimana del Grande Cambio: dopo estenuanti briefing famigliari, incursioni in decine di mobilifici e riunioni per gli accostamenti cromatici è arrivato il giorno di rottamare la vecchia cucina in favore di un'altra, più giovane e pimpante.

Il fatto è che mi ero affezionato ai suoi difetti. Questa è la verità. E così mi ritrovo al centro della stanza piena di scatoloni, con le mani all'altezza delle tempie accarrezzando con lo sguardo la cappa obsoleta che non ne voleva sapere di accedersi. Solo Giusy, con un abile tocco in un punto esatto riusciva ad avviare il ronzante motore. Altro che Fonzie e il suo juke box...

Ci sono cose dalle quali sembra impossibile staccarsi. Invece eccomi qui, nel momento terribile e unico, dove è impossibile rimangiarsi le decisioni prese e l'assegno per l'acconto è stato già staccato. E la nuova cucina è là, in un anonimo magazzino, impacchettata e distante. Vuota di significati. Il cambio di un arredamento è un lutto: gli psicologi dicono che è il lutto maggiore di una vita, escluso la morte dei parenti stretti.

Lo so che è così, lo sento dentro lo spaesamento, il senso di vuoto. L'angoscia di ciò che verrà. E se la nuova cucina mi respingesse? E se non potessi penetrare la sua intimità? Entrare tutti giorni in una cucina nuova non è cosa da poco. È un matrimonio, un mistero di intese, un patto per la vita. Sento attraverso le tubature, questa cucina piangere. Piango anch'io per questa stanza che mi ha sfamato, protetto, sostenuto. Vorrei che la nuova cucina fosse già qui, nel suo sgargiante vestito arancione e marrone. Ma un arredamento è come un grande Monopoli, dove si pesca sempre la carta degli imprevisti. Al cospetto di tutte queste ragioni non capisci nemmeno perchè l'hai fatto. Lo sguardo mi finisce fatalmente sulla montagna di cartoni che stanno al centro della stanza: ma come hanno fatto tutte queste cose a entrare nella mia cucina? Perchè l'ho comprata, l'ho messa via, conservata e dimenticata? Allora penso che, se non altro, il Grande Cambio serve per fare ordine nella mia vita. Distinguere l'utile dal futile.

Per un nuovo lungo viaggio si deve partire leggeri. Ciò che ti serve è l'essenziale. E ti metti a pensare ancora un po'. Dici che questo ti serve proprio, che quell'altro non puoi buttarlo con tutto quello che ti è costato. E quest'altro ancora? Potrebbe servire, un domani...

Naturalmente non sei più capace di pensare alla tua vita, priva della moltitudine di inutili chincaglierie che con cui hai cercato di renderla tollerabile, se non piacevole. I mille oggetti di pura illusione con cui hai pensato di farti forte. La muraglia dietro a cui, stupidamente, hai pensato di poterti barricare e respingere le imprevedibili incertezze della vita.

Ma la vita va avanti e ad una pausa di riflessione segue la meccanicità della vita. Si continua ad imbustare, insacchettare, preparare. Poi arriva il giorno del Grande Cambio. Aspetti che il citofono suoni. Vai ad aprire e scendi per accogliere i montatori. L'ultima immagine prima delle nebbie dell'ira è un cartello che penzola dall'ascensore: “Fermo per manutenzione”. L'estrema vendetta della vecchia cucina. Ma vaffanculo...

venerdì 17 dicembre 2010

Stupore giornalistico

Prima di esprimere il mio concetto, mi corre l'obbligo di fare un doveroso preambolo.

Le ore sono formate da sessanta minuti, i cani non parlano ma abbaiano, è impossibile passare tra una goccia e l'altra quando piove così come un cammello non entrerà mai nel diametro formato dalla cruna di un ago.
Berlusconi è un uomo ricchissimo.
Affermazioni apodittiche.

Quindi rassegnamoci. Anche se spalare la neve rappresenta, per noi italiani, una sfida tecnologica insostenibile. Gli spazzaneve, gli spargisale, i guantoni di lana, le scarpe con le suole di para, le catene per auto sono diavolerie futuristiche per le quali non siamo ancora pronti. Mi basterebbe solo una cosa: che mi venisse risparmiato il desolato stupore con il quale cronisti e autorità ogni inverno descrivono l'inverno.

Bisogna accettarlo: in Italia, in dicembre, nevica. E fa freddo. Da qualche milione di anni, ogni anno. E spesso nevica anche “sulla riviera adriatica”, come annunciano i giornalisti con l'espressione allibita di chi annuncia che Berlusconi è indagato in qualche procedimento. La costa adriatica, infatti, appartiene all'Italia del nord. E appartiene, secondo gli atlanti geografici, alla fascia del mondo denominata “temperata”, dove in estate fa caldo, in inverno fa freddo. E nevica (Marina, amica mia, fattene una ragione).

Da quando sono nato vedo al telegiornale “le insolite immagini di Rimini sotto la neve”, con immancabile corredo di pedalò imbiancati e castelli di neve sull'arenile.

Prima di morire, sogno di passare un inverno, almeno uno solo, durante il quale a Rimini nevichi senza che nessuno lo venga a sapere. 

mercoledì 15 dicembre 2010

Colletti bianchi, incazzati neri

Si stanno letteralmente scannando per inezie politiche. Non è un'eccezione; è la prassi del dibattito di oggi. Intanto per le strade succede qualcosa che assomiglia sinistramente alla guerriglia: roghi, manganelli, molotov. Assetti da guerra.

La gente è povera, depressa e confusa. Lo dicono tutte le statistiche che ogni giorno ci vengono portate all'attenzione. Ma nemmeno questi tre aggettivi rendono bene l'idea; la verità è che siamo incazzati, incazzati neri. Dico noi che siamo il ceto medio; i privilegiati, i tranquilli, gli speranzosi. Il nerbo progressivo del Paese. Gli ex di tutto questo.
Ovviamente è meglio non spingersi a dare un'occhiata al ceto basso: non aprite quella porta. Quelli sono carne bruciata, gente che non compare nemmeno nelle statistiche, malignamente predisposta com'è a dare un'immagine distorta del Paese. Fa talmente schifo il ceto da 800 euro al mese che c'è da sporcarsi solo ad ammettere che ha qualche problema. Nessuno perde tempo per loro. Il fatto è che il ceto medio, ora, sta andando incontro a quello basso.

All'appuntamento ci sta andando in picchiata. Cominciamo ad andare in giro con un dente sì e uno no, perché i soldi per tutti non li abbiamo più. Per via della nostra scarsa sorveglianza sull'andamento dell'economia, come dice il nostro (ricco) presidente. Stiamo diventando anche ignoranti; perché i soldi per l'altro dente li abbiamo sottratti al conto in libreria. Serpeggia un pestilente senso di colpa di chi ha perso l'abitudine a pensare al bisogno come a un fatto della vita reale, vera e concreta, di chi si è abituato a vederlo col binocolo, incartato nelle brutte notizie, assieme al maltempo e alla scomparsa di ragazzine.

Naturalmente i ricchi sono più ricchi, visto che il denaro non ha la proprietà metafisica di svanire nel nulla. La Fiat diminuisce la produzione delle sue macchinette, la BMW aumenta quella delle sue fuoristrada da 100.000 euretti. Non tutto va male nell'industria, non in quella del sollazzo d'alto bordo.

Il ceto basso intanto continua a pulire le strade, a infilare le lettere nelle cassette, a mungere le vacche, a tornire bulloni, con la certezza di non potersene mettere nemmeno la metà di denti, senza la speranza di potersi fare una risonanza al fegato in tempo per non lasciarci la pelle. Senza la forza contrattuale di poter prendere a schiaffi chi gli dice: “fammi ancora un po' più ricco, che poi quello che mi avanza è tutto per te”. Mentre noi, orgoglio del paese, abbiamo smesso da tempo di fare quello che dovevamo: almeno studiare, almeno inventare, almeno saper trovare qualche buona idea. Tanto buona da poterci governare un paese...

domenica 12 dicembre 2010

Ovile Italia

Ho pagato una contravvenzione. L'ho pagata per la seconda volta, visto che la prima è arrivata nelle casse comunali con 48 ore di ritardo; questo non per pigrizia, quanto perchè, per motivi di lavoro, mi sono dovuto assentare dal luogo in cui risiedo per parecchio tempo.
Ho ripagato l'intero importo della multa, e non, come la logica potrebbe (erroneamente) portare a pensare, l'interesse di mora per il colpevole ritardo di 48 ore. La multa primigenia mi è stata comminata a Pisa (città che, ovviamente, non voglio vedere più, nemmeno in cartolina).
Le mura pisane sono tenute sotto stretta sorveglianza da occhi elettronici, in paziente attesa di turisti da spennare. Il navigatore satellitare mi ha portato dritto dritto nella bocca del leone. Svantaggi della tecnologia.

Il pagamento della multa per la seconda volta (totale 200 euro circa) non mi provocato rabbia, né frustrazione; anzi, ho fissato il cielo con un sorriso ebete e mi sono sentito migliore.
Come la maggior parte dei cittadini italiani, verso oramai in uno stato di sospensione che si avvicina all'ascesi. Cammino leggero di fianco a quel cimitero di logica che è l'Italia e sento che il mio corpo, giuridicamente parlando, non ha più consistenza. Tutto il paesaggio ha perso la forza, il colore delle cose depigmentati, le espressioni della gente rallentati in una enorme moviola. La testa era piena di pensieri che scivolavano uno sull'altro andando a rompersi in tutte le direzioni.
Potevano farmi di tutto (multe, tasse, balzelli, una tantum, fustigazioni), ma la mia anima è altrove.
Ciò che i grandi martiri hanno ottenuto con le pratiche mistiche e la mortificazione della carne, io l'ho ottenuto semplicemente vivendo con il pesante cilicio di pratiche fiscali e burocratiche. Cavilli e vessazioni sono, per l'uomo che sappia coglierne il provvidenziale significato, un prezioso tirocinio: espletarle tutti, fino alle sue più persecutorie insulsaggini, avvicina al Grande Vuoto e, infine, porta dritto all'Estasi.

Con il mio bollettino postale ripiegato in tasca (trenta minuti di attesa), ho camminato a lungo sotto al fradicio cielo padano, sentendomi, finalmente, parte del Grande Nulla...

mercoledì 8 dicembre 2010

Lezioni di cafonaggine

Anche lui aveva la sua bella Olivetti lettera 22 avvinghiata alle dita. Sotto quel punto di vista l'esame di abilitazione alla professione giornalistica è estremamente democratico. Eravamo tutti e due in fila: l'uomo politico del momento (Walter Veltroni) e il praticante che veniva dalle nebbiose lande dell'appennino tosco-emiliano (io...). Tutti facevano capannello intorno a lui, uomo di punta del Pds e illuminato direttore dell'Unità. Nella mia carriera ho avuto occasione di conoscere parecchi politici: ma l'educazione e la disponibilità di Veltroni era unica. Parlava con tutti, dispensava consigli e distribuiva pacche sulla spalla.

L'ho rivisto nei giorni scorsi Chez Floris: non è cambiato di una virgola, anzi è addirittura diventato più buono. Sembrava un primigino di fronte alle matricole goliarde di Lega e Pdl. Non ha imparato nulla. Nulla. Egli è ancora orribilmente buono.

Possibile che nessuno degli esperti di marketing elettorale non gli abbia mai consigliato di condire con qualche accento di malcreanza i suoi interventi? Che ne so, potrebbe macchiare la sua persona con qualche lampo di malvagità. Oppure macchiare la sua camicia con una macchia di sugo; ma basterebbe anche un dito nel naso, una risposta greve ogni dieci, una citazione di Bukowski ogni tre di Bob Kennedy. Un rutto come risposta alle insulsaggini di Cota.

Niente da fare, è più forte di lui. Nel formare la squadra elettorale che andrà a sfidare Sua Bassezza e la sua compagnia di giro, il gotha del centrosinistra dovrà tener conto di inserire anche quel tanto di intolleranza e maleducazione, che comunque fanno parte del Dna della sinistra italiana.

Mi propongo per allenare Veltroni. Sono montanaro, generazione spontanea dell'asfalto. So le parolacce e talvolta sputo per terra. Ho smesso di bestemmiare da quando il parroco mi ha cacciato a calci in culo dell'oratorio di Borgotaro. Ma per il bene della sinistra e con un po' di allenamento posso anche ricominciare...

domenica 5 dicembre 2010

L'insostenibile pesantezza dell'essere intelligenti

Sono convinto che la spinta decisiva a Mario Monicelli sia stata opera della sua straordinaria intelligenza.
Qualche anno fa, un grande scrittore alle soglie dei novant'anni scelse un altro modo, ma anche lui decise di dire arrivederci a tutti: anche in quel caso ho la netta sensazione che il dito spinse il grilletto di una pistola dietro suggerimento di una straordinaria intelligenza. Un dono, in tutte e due i casi, spoporzionatamente grande rispetto all'esile trama della vita.

Sandor Marai, geniale scrittore ungherese (ah, “Le Braci” che bel romanzo: lo raccomando al mio amico Dario, lui capirà il perchè...), lasciò le povertà di una esistenza terrena, senza un apparente motivo.

Le persone come loro, instancabili ricettori di ciò che accade nell'Universo, sono colpite più facilmente di altri da solitudine, stanchezza e malcreanze altrui. Cercano nel prossimo interlocutori per dividere le tante – troppe – cose che hanno capito, ma raramente riescono a trovarli. Allora subentra il vuoto, quel male sottile che nessuna medicina può curare.

Dicono gli amici di Monicelli che i troppi ricoveri in ospedale e la prospettiva di una inevitabile non-autosufficenza, gli abbiano inflitto profonde ferite morali.

Penso che la troppa intelligenza sia una iattura, uno zaino pesante che nessuna schiena può trasportare per troppi anni. E se è vero quello che immagino della loro fine – di Monicelli e Marai – allora è altrettanto vero che la stupidità del mondo sia il quotidiano scandalo che loro hanno deciso di abbandonare e di denunciare.

Sarebbe già molto se noi, per cercare di essere loro vicini e evitare altre tragedie, imparassimo a dirla e scriverla questa criminale stupidità che ci accompagna ogni singolo giorno, in ogni singola azione, in tutto quello che diciamo e scriviamo.
E questo non basta: dobbiamo denunciare la stupidità con minore distrazione, conformismo, pressapochismo. Non dare scampo né giustificazioni alla stupidità.

È un modo per sollevare queste menti eccelse dal peso che, da soli, faticano a sopportare.

mercoledì 1 dicembre 2010

Il terrore del vuoto

Devo dare ragione a Berlusconi. Per una volta Sua Bassezza non dice astruserie. Ha ragione: il giornalismo politico, almeno in Italia, è pettegolo, approssimativo, spesso fazioso, quasi sempre inutile. Lo stesso sfogo lo ebbe anche Massimo “Inciucio” D'Alema qualche anno fa, se non sbaglio quando ricopriva la stessa carica di Berlusconi.

D'altro canto nemmeno Toqueville riuscirebbe a scrivere articoli epocali ogni giorno, soprattutto rubando mezze frasi nei ristoranti frequentati da politici, nei locali che ospitano parlamentari, rubacchiando due righe nei tabulati telefonici. Di più: nella maggior parte delle occasioni, i giornalisti se ne stanno comodamente seduti al desk, facendo il refresh alle ultime notizie delle agenzie di stampa. Segue il classico pastone con le notizie che si ritiene più succulente.


Ma il problema – se questo stato di cose si può catalogare nella categoria “problemi” - non interessa solo la politica. Spesso anche i calciatori si lamentano per un caso “montato ad arte”, così come attori, cantanti e tronisti denunciano la vita impossibile che sono costretti a vivere a causa di paparazzi e giornalisti un po' troppo appiccicosi. D'altronde bisogna anche ammettere che senza i giornalisti e le prime pagine, difficilmente le categorie sopraelencate (politici, calciatori, tronisti) riuscirebbe a condurre la vita dorata che i cronisti raccontano ogni giorno. Gli uni ostaggi degli altri: un'arma a doppio taglio a causa della quale non si capisce più chi è ostaggio di chi.

Un rimedio c'è, ma è improponibile: basterebbe ammettere che non sempre, almeno non ogni giorno, si ha qualcosa a dichiarare e conseguentemente costringere i cronisti a recarsi dai propri direttori per proporre un triste “nulla di notiziabile”.

Ci sono giorni che la vera notizia è il silenzio: la pagina vuota, terrore di tutti gli operatori dell'informazione. Una sorta di “giorno bianco”, utile per ricarire le pile e per fare stagionare pensieri e parole. Ma è utopia, non-senso alla stato puro, soprattutto nell'era della quantità, dove l'assenza è vista come una colpa. Così, quotidianamente, giornalisti, politici, nani e ballerine, producono parole per puro horror vacui.

Chilometri di inchiostro per paura che il vuoto ci inghiotta. Proprio quel vuoto che potrebbe salvarci.