lunedì 31 gennaio 2011

Un consiglio da amico

Malgrado quello che la maggior parte dei miei lettori pensa di me, io sono un amico di Berlusconi. Un grosso amico, di quelli che si vedono solo nel momento del bisogno. Come adesso, per esempio. A fronte di quanto ho detto, gli consiglio di andarsene per sempre da questa terra ingrata.
Silvio (scusa l'ardire, ma tra amici si usa così. Anzi, ti dirò di più: secondo me hai le natiche molto toniche...), Silvio, dicevo, sparisci per sempre. In un bosco canadese o su una spiaggia di Tahiti, fai te. Senza computer né fax, nascosto dietro una barba o sotto ad una parrucca. Rifatti una vita e scordati della precedente. Gioca a ramino o a scacchi con gli indigeni, ridendo con loro sul tuo passato da “statista”. Attingi dalla tua vasta aneddotica per intrattenere i selvaggi ivi consociuti sul come si fa a prendere per il culo un intero popolo per quasi vent'anni (a te piacciono le barzellette, vero Silvio?). Sai che risate!

Ma voglio fare di più. Per non lasciare nulla al caso, sono andato a chiedere il consiglio ad un esperto sul come potresti fare la valigia.

Doug Dyment è un vero esperto nell'arte del packing. È l'autore del sito onebag.com, un sito sull'arte di viaggiare leggeri e senza troppi problemi. Secondo Dyment, il modo migliore per volatilizzarsi è quello di partire con una sola valigia, meglio se di dimensioni “bagaglio a mano”. E questo, caro Silvio, per un ventaglio di ragioni.
Per un fattore economico, in quanto non si deve pagare i facchini né il sovrapprezzo per per il bagaglio extra (non che a te manchino i soldi; ma sono denari in meno per le ragazzine indigene, non so se mi capisci...).

Con una valigia sola, puoi arrivare all'aeroporto appena prima che l'aereo decolli. Puoi prendere liberamente treni o autobus o metropolitana, senza buttar via i soldi per i taxi (sempre per il fattore bunga bunga). Appena arrivato a destinazione eviterai le code per il ritiro delle valigie e avrai più tempo per andare a visionare la fauna locale (non so se mi sono spiegato). Senza contare che, con un solo pezzo di bagaglio, perderai meno tempo per fare le valigie e, mi sa, che le ore per te sono preziose.

Ma aldilà di tutte queste bazzeccole, viaggiare leggeri è la soluzione migliore per te e per il pianeta. Meno mezzi di trasporto per spostare i tuoi oggetti, meno carburante e meno gas serra. E più probabilità per i tuoi amici (Alfano, Gelmini, Calderoli, Vespa, Minzolini, D'Alema eccetera eccetera) di poter lasciare questa terra ingrata.

No, ti prego, Silvio, non mi ringraziare. Per gli amici questo e altro....

venerdì 28 gennaio 2011

Guardando nel frigo



Ci sono giorni che le riflessioni (più o meno profonde) sgorgano davanti ai posti più impensati.
La letteratura è zeppa di aforismi immortali nati davanti ad un tramonto alpino. Oppure libri interi creati davanti alla maestosa immensità del mare. Ieri la mia fonte di ispirazione è stata il frigorifero.

Sono rimasto, così, fermo in folle come una macchina immobile davanti ad un interminabile semaforo rosso, a rimirare l'interno di questo imprescindibile elettrodomestico.

Il mio frigorifero sembra la cella di un supermercato. Con il passare del tempo prenderà le sembianze di un dipinto del tardo Ottocento, avente come oggetto una Natura Morta.

Una approfondita ispezione, porta alla luce i resti di carne mummificata, scatolette ossidate, zucchini intaccati da misteriosissime muffe. E poi, ancora, pomodori disidratati e formaggi fossili. Più altri prodotti di Madre Terra frutto di frequenti razzie della mia famiglia nei vari emporii alimentari del territorio. Non contenti del rapporto qualità-prezzo dei prodotti di una cinquantina di punti vendita, non di rado ci affidiamo anche ai tele-acquisti, spesso auto-fregandoci.

Occorrerebbe, ogni tanto accantonare i problemi minori (scantinati a Montecarlo, party scollacciati, il declino di Sua Bassezza, il dibattito interno al Pd), sedersi davanti alle ante spalancate della dispensa e porsi, finalmente, le sole domande fondamentali di questo scorcio di secolo.

Perchè ho comprato la maionese light se non piace a nessuno, nemmeno, penso, al produttore? Cosa mi ha spinto ad accumulare tanta pancetta quanta ne basterebbe a sfamare per trent'anni l'intera popolazione del Saharawi (vecchi e bambini inclusi)? Cosa ci fanno, a casa mia, undici melanzane? Perchè ho ordinato un bancale di prodotti tipici calabresi se tutti in famiglia aborrono il piccante?

Se vogliamo farci ulteriormente del male, potremmo fare una capatina in cantina o nei garage. Potremmo avere finalmente chiare le cause e gli effetti del consumismo: spazzatura e inquinamento. Basterebbe fermarci un attimo e riflettere. La conclusioni non può che essere una.

È inutile girarci intorno: passa da uno spietato dibattito davanti ad un frigorifero l'unica, vera, speranza di salvezza del vacillante impero d'Occidente...

martedì 25 gennaio 2011

Buon giornalismo e cattive abitudini

C'era un'aria stranamente ilare nell'osteria di Brunin. Non che si parli sempre di cronaca nera, ma solitamente nell'ora dedicata alla politica interna – intorno alle 18, davanti ad una bottiglia di vermentino con vassoi di focaccine calde – l'atmosfera è particolarmente cupa. L'oggetto di tanta allegria erano le prestazioni sessuali del nostro primo ministro. Le battute si sprecano di fronte alle copule millantate da una escort, ospite in una delle residenze di Berlusconi. Numeri stratosferici anche per un Siffredi qualunque. Quello stralcio di intervista andata in onda su Annozero ha avuto il merito – o il demerito, dipende da che punto di vista la si guardi – di svilire tutta la trasmissione, basata essenzialmente su accuse infamanti e reati gravissimi che hanno per protagonista (si fa per dire) il Presidente del Consiglio.
Delle sparate sulla vita sesuale di personaggi noti sono piene le cronache di tutti i tempi. E tutte le volte quello che frega il cronista di turno è la smania di portare in redazione una notizia degna di titolo in prima pagina. Molte volte, però, si tratta di errori marchiani.

Lo scrittore Simenon raccontò un giorno ad un giornalista svizzero che lavorava al Die Tat di aver avuto diecimila amanti. Il cronista riportò fedelmente l'affermazione e ne venne fuori un articolo che suscitò un discreto interesse, trovando posto in molte prime pagine dei quotidiani europei. Naturalmente sarebbe bastato ragionarci un attimo per capire che era impossibile. Il grande scrittore avrebbe dovuto fare una conquista al giorno per trent'anni di fila. Mai un'influenza, un leggero mal di testa. Mai un attimo di tregua. Mission Impossible.

Follow up” è una di quelle espressioni inglesi difficilmente traducibili se usate nell'ambito giornalistico. Per esempio, se all'osteria di Brunin entra un avventore che, tra un bicchiere e l'altro, asserisce di essere stato su Marte durante l'ultimo fine settimana, il follow up consiste nel non passare alla domanda successiva (tipo quale sarà la prossima meta), ma insistere nel ricercare maggiori dettagli su Marte, in modo tale da smascherare l'eventuale - e probabile - bugia.

In genere basta sapere ascoltare attentamente le risposte e concentrarsi su ciò che viene detto. Indispensabile è porsi al di sopra delle parti e evitare accuratamente l'accanimento personale che non giova certo al buon giornalismo.

Basterebbe ricordarsi l'età del nostro Primo Ministro e fare mente locale su che cosa voglia dire avere sette rapporti sessuali in un paio di ore...

domenica 23 gennaio 2011

Percezioni e distorsioni

Ci sono parole che hanno poteri magici.
Una di queste, per esempio, è demagogia. Succede che ti prepari tutto il discorso mentalmente, poi alla fine, magari, nella foga dell'enfasi retorica ti scappa un innocuo “la gente ha bisogno di lavoro”. L'interlocutore, se è scaltro, a quel punto ti stoppa immediatamente tacciandoti di demagogia. Dizionario alla mano, dovrei essere accusato di concionare per interessi esclusivamente miei oppure per procacciare consensi. Ma io non sono un imprenditore né tantomeno un politico. Dovrei continuare imperterrito il discorsetto. Ma demagogia è uno stop loss granitico; ha il potere di creare una pausa perdente nei miei concetti. A quel punto sono fottuto. È la magia di una parola.

Un'altra parola usata a piene mani dai Burattinai è percezione. Tremonti afferma che nella sua personale percezione, la Grande Crisi sta volgendo al termine, quindi le migliaia di posti di lavoro andati in fumo altro non sono che la fallace percezione negativa dei soliti disfattisti (e comunisti, che non guasta mai).

La percezione di Maroni, invece, ci consegna una nazione, la nostra, in balia di rom, stupratori, camorristi e malviventi generici. Ne consegue che altro non si può fare che destinare milioni e milioni di euro agli arsenali militari. Non importa se le statistiche parlano di una situazione nella norma rispetto agli anni passati e alle nazioni limitrofe. Quello che conta è la percezione di insicurezza del Bobo nazionale e del popolo padano. Manco fossimo un paese di medium e chiaroveggenti.

Secondo una recente indagine, la percezione che la stragrande maggioranza delle persone ha è che Georges Simenon, il giallista più famoso del secolo scorso, sia francese. Perchè ha scritto in francese, perchè ha vissuto buona parte della sua vita in Francia, perchè il suo grande successo è iniziato quando ha messo piede a Parigi. Anche in questo si parla di percezioni. Si usa per dire che l'impressione, la sensazione, l'immagine collettiva che uno ha può essere tenuta in considerazione almeno quanto la realtà stessa. In nome del rispetto delle singole sensibilità. Così indagare e descrivere la realtà è un esercizio inutile. Le statistiche dicono che siamo ancora nel mezzo della grande crisi? Non importa. Le indagini parlano di criminalità in calo? E chi se ne frega. C'entrano solo le percezioni. E in nome di queste si giustificano provvedimenti legislativi francamente sproporzionati e malriposti.

Ma aldilà delle percezioni, il punto è che Simenon era belga, non francese. E chi dice il contrario dice solamente una schiocchezza...

giovedì 20 gennaio 2011

La carità del capitalismo

Confesso di non provare simpatia alcuna per quello stimato professionista che, di tanto in tanto, fa capolino sulle Tv per reclamizzare la sua compagnia di assicurazioni con annessa banca. È una questione di pelle. Penso di non essergli simpatico nemmeno io. Ho come l'impressione che mi guardi in maniera diversa rispetto a tutti gli altri telespettatori. Il guaio è che sovente penso a voce alta; mia moglie mi ascolta, mi osserva e da tempo ha stilato la sua diagnosi: è un principio di follia.
Forse ha ragione.

In questo dialogo via etere, l'altro giorno il signor Mediolanum mi ha dato una bella lezione. Ha detto (mi ha detto, guardandomi beffardamente) che chi aprirà un conto nella sua banca, contribuirà ad aiutare una famiglia ad Haiti (oltre che, naturalmente, la propria). Mi ha fatto restare di sasso; se ne è accorto anche lui: alla fine ha anche sorriso, lo smargiasso.
Il signor Mediolanum è orgoglioso. Ne ha ben donde, sta facendo una buona azione. Ma è altrettanto vero che aiutare una famiglia ad Haiti contiene un elemento non trascurabile di ipocrisia.

Nel capitalismo di oggi, la tendenza è quella di mescolare – pericolosamente – profitto e beneficenza. È quello che possiamo chiamare capitalismo culturale. Quando stipuliamo una polizza o apriamo un conto corrente, stiamo comprando anche la nostra redenzione. Stiamo facendo qualche cosa di utile per i bimbi di Haiti o del Guatemala, oppure salvaguardiamo l'ambiente con un detersivo. Oppure ancora ricostruiamo un senso di comunità con una tazza di caffè ecosolidale. Tutto questo genera un meccanismo mentale che ci mette la coscienza a posto rispetto a tutta una serie di responsabilità etiche. Per quanto possa essere positivo, il mutuo soccorso verso i più bisognosi non è la soluzione del problema.

Ho l'impressione che questo sia l'ultimo, disperato tentativo di mettere il capitalismo al servizio del socialismo: non cancelliamo il male, lasciamo che sia il male stesso a lavorare per il bene.

40 anni fa sognavamo il socialismo dal volto più umano. Oggi l'orizzonte più accogliente della nostra immaginazione è il capitalismo globale dal volto più umano; le regole del gioco sono le stesse, però lo rendiamo più tollerante, più simpatico, con un po' più di welfare.

Nell'Europa occidentale, mai come in questi ultimi decenni, si è goduto di tanta ricchezza e libertà. Ora queste ricchezze sono rimesse in discussione. Si è ad un punto di non ritorno: occorre fare di più per gli altri inquilini del Mondo, quelli che stanno peggio di noi.

È ovvio che dobbiamo aiutare i bambini: è inconcepibile che le loro vite possano essere distrutte perchè i genitori non hanno i 20 dollari necessari per una banale operazione chirurgica. Ma se ci limitiamo ad aiutare pochi bambini di Haiti, loro, sì, vivranno un po' meglio, ma si ritroveranno sempre nella stessa situazione.

Non so perchè, ma il signor Mediolanum, mi sembra che mi guardi con fare meno sprezzante.
Ma forse è l'impressione di un folle...

martedì 18 gennaio 2011

Seduto sul bordo del fiume

Ieri Brunin era arrabbiato. Lo vedevo gesticolare, da fuori il locale. Parlava animatamente con Adelmo. Faceva gesti ampi da giureconsulto, indicando un punto imprecisato dell'osteria. Mi faccio forza e entro (le bruschette calde e impiattate sono un incentivo potente). “Proprio te cercavo – sibila – Volevo dirti che io non c'entro niente”. Per una frazione di secondo i miei ragionamenti si sono andati ad impigliare nella cronaca nera (deformazione professionale). Brunin interrogato per un omicidio? Il mio oste incolpato di un feroce stupro? Adelmo lo incolpa di un abuso edilizio?

No. Hanno tagliato dei cedri per far posto ad un parcheggio, in un luogo indefinito dell'entroterra ligure. 
Lui si accalora a proclamare la sua innocenza su tutto quello che succede in questa disastrata nazione, è fatto così. Le generazioni future, lui pensa, potrebbero puntare il dito contro di lui (e contro Adelmo, anche se si anfratta dietro alle bruschette sottilmente pavimentate di squisito pesto). Ora si è messo in testa di mettere un cartello fuori dall'osteria: “Io non c'entro niente”. Azione che gli ho caldamente sconsigliato: la gente potrebbe non capire.

Vuole imitare i pacifisti americani degli anni '70; loro sfilavano come uomini sandwich gridando il loro dissenso rispetto alla scelta del governo di entrare in guerra in Vietnam “Not in my name”, dicevano. Avevano ragione. Anche Brunin ha ragione. Io mi comporto diversamente.

Mi sono seduto sul bordo del fiume, come hanno fatto, in passato, i saggi orientali. Aspetto che questa classe politica si autodistrugga. Oramai ci siamo. Me ne sto buono in silenzio, a leggere i commenti sarcastici che provengono da tutte le parti dell'Universo per addossarci un'unica colpa: quella di essere italiani. Ancora per poco, spero.
Il nostro primo ministro è un'anomalia; e non per quello che è e che fa oggi, ma per quello che era e ha fatto prima di candidarsi a una carica politica per la sua prima volta. Il nostro ministro della semplificazione sarebbe da tempo interdetto dai pubblici uffici anche nel Burundi. Per non parlare dell'informazione televisiva pubblica. Siamo a tal punto “anomali”, che se ci capita di vedere un qualsiasi altro telegiornale del mondo occidentale, ci coglie il dubbio che siano emittenti rivoluzionarie clandestine.

Solo per dilettarci in oziosi pensieri, allora possiamo chiederci, cosa è successo ad un intero popolo perché trovi normale quello che, per chiunque altro, è fuori norma. Perché ci siamo autoimposti – o abbiamo accettato che ci imponessero – una visione della realtà così meschina, povera, squallida. Il problema del mio paese non è il suo primo ministro, ma i milioni di persone che accettano, e gradiscono, questa normalità. Jung dice che un uomo può accettare qualunque cosa, dipende solo dal grado della sua sottomissione. A quale entità, a quale fato, a quale vizio, siamo riusciti a sottometterci fino a questo punto?

Brunin continua a mescere, sfornare bruschette e parlare astiosamente. Io me ne sto in silenzio, accrescendo la sua ira universale. Me ne sto fermo con il respiro al minimo, ad aspettare ciò che il fiume mi potrebbe portare...

sabato 15 gennaio 2011

Nel nome del popolo italiano

Me lo ricordo perfettamente. Compariva nel bel mezzo della partita di biliardo. Si muoveva con movimenti acquatici lungo il tavolo. Per noi era una specie di idolo, visti i suoi trascorsi nel mondo del calcio professionistico. Ma raramente parlava di pallone. Il suo argomento preferito era la politica. O meglio la non-politica: lui era anarchico. Veniva da Carrara, terra di marmisti e di ribelli. Seguiva con gli occhi la palla da biliardo, intanto lanciava terribili strali contro Chiesa, preti, Vaticano e suore.
A suo modo era credente, perlomeno era rispettoso dell'Essere Supremo. Proprio non sopportava il Vaticano. Ogni minimo contrattempo che intralciava il tranquillo accadere delle cose, per lui, era opera della Chiesa. Terremoti, inondazioni, avvistamenti di Ufo, malfunzionamenti di elettrodomestici, rigori non dati ma evidenti: tutta opera dei prevosti disseminati per il mondo. Dopo aver vaticinato (e raccolto un discreto numero di proseliti) usciva, scomparendo per giorni nella nebbia.
Achille era fatto così.

Se avessi il piacere di rincontrarlo, sono sicuro, Achille punterebbe il dito dritto contro Sua Bassezza. Più o meno è quello che sta accadendo in questi giorni in Italia. Berlusconi è stato accusato di tutto, all'appello manca solo l'abigeato (ma penso che sia questione di giorni).

In Italia di Achille ce ne sono milioni, anfrattati nei pertugi più insospettabili. Attendono il Giudizio, certi della sua colpevolezza, almeno quanto lo erano, poche ore prima, della sua proverbiale preparazione imprenditoriale. Avendo sempre dubitato della sua magnificata imprenditorialità (che mi sempre apparsa cinico opportunismo di un mediocre cantante di piano bar), mi sento in diritto di non essere certo nemmeno della sua colpevolezza. Che è, comunque, affare dei giudici.

Mi infastidisce, però, la facilità con la quale milioni di cittadini hanno omesso di giudicare nel proprio ambito – che è quello politico – inondando di voti per quasi vent'anni, questo scaltro maneggione, per poi invocare giustizia per mano di un altro potere, ovvero quello giudiziario.

Troppo comodo, signori, chiedere agli altri ciò che noi non siamo stati capaci di fare, pur avendone il potere. Mi sento orgogliosamente parte di quel gruppo di italiani (aimè, una piccola parte) che non ha bisogno di fare il tifo per la magistratura per avere la certezza che Berlusconi è politicamente colpevole – senz'altro il più efferato colpevole – del disastro italiano.

I processi non mi appassionano.
Mi appassionavano di più, molti anni fa, i discorsi di Achille...

giovedì 13 gennaio 2011

Il nuovo nemico del Millennio

C'è un nemico invisibile, strisciante, che mina la tranquillità delle famiglie italiane: la pediculosi.
Tutti gli infanti, infatti, pare siano interessati da questo invisibile parassita.
I bimbi vivono il “contrattempo” con solare superficialità, appena scalfita dalla burocrazia delle circolari scolastiche e dagli anatemi delle maestre.
Le famiglie sono distrutte da questa guerra di nervi; la mia non ne è esente.

Analizzando i lati positivi, posso dire di aver imparato vocaboli nuovi: per esempio nell'universo mondo esistono le lendini, ovvero le uova da cui sboccia un animaletto marroncino chiamato volgarmente pidocchio (un essere che io, personalmente, non ho mai visto nel suo tranquillo tran tran giornaliero).
La prima avvistatrice – nonché catturatrice e boia – del nemico è stata mia moglie, in una uggiosa serata di due mesi fa. Me lo mise sotto il naso, accompagnando l'ostensione con un grido lancinante e un principio di svenimento. La notte che passò fu, inutile dirlo, praticamente insonne tra roghi purificatori e disinfestazioni capillari. Da allora, da quella sera, tutto è cambiato.

Per prima cosa ci affidammo alla nobile arte della Farmacia, applicando sulla cute della povera bimba – mia figlia, per la miseria – i migliori ritrovati mondiali per la cura dei pidocchi. Due trattamenti al giorno (“Ma sulle indicazioni c'è scritto una volta ogni due giorni”, protesto. “Sconfiggiamoli definitivamente! Tu non capisci la drammaticità della situazione”, risponde piccata mia moglie).
48 ore dopo, la mazzata: le lendini sono ricomparse. Dopo un consulto medico di un pool di cervelli (formato da me, mia moglie, una lontana zia siciliana, una fattucchiera romagnola in odore di eresia e il ferramenta) riusciamo a capire che si tratta di lendini vecchie o secche, cioè che non contengono il nemico parassita. Ma alla mia consorte questa vittoria parziale non basta: vuole vincere la battaglia finale, costi quel che costi.

Allora ci siamo aggrappati a riti ancestrali tramandati oralmente da antichissimi avi: abluzioni con aceto, pettinamenti con unguenti magici, emulsioni con erbe rarissime, la cui raccolta deve necessariamente avvenire nelle notti di luna calante.
Mi presto alle mansioni più umili (raccolta notturna delle erbe, ricerca in tutto il territorio di misteriosissimi olii, acquisto di bancali di aceto nei supermercati del territorio), pur di metter la parola fine a questa disgrazia. Alla fine il pidocchio è sconfitto. Ma evidentemente al gineceo che mi circonda tutto questo non basta. Si procede, allora, come extrema ratio, all'accorciamento della chioma della bimba – che è pur sempre mia figlia, per la miseria -. Segue un breve corso per l'accompagnamento della bambina, al termine del quale mi viene imposta una consegna da cui non posso transigere: il silenzio assoluto. Il pidocchio sarebbe una macchia indelebile nella fedina igienica dell'albero genealogico della famiglia. Concentrato allo spasimo, porto mia figlia a prendere il pullmino scolastico. La madre di un'altra bimba è già alla fermata con una borsa piena di vetro da riciclare (Bottiglie di aceto? Ampolle di olio?).
Nota la nuova acconciatura di mia figlia e mi chiede con fare malizioso: “Le avete tagliato i capelli?”. Fresco di corso per accompagnamento ribatto: “I capelli corti sono più pratici con la bella stagione”. Per inciso la giornata è decisamente invernale con temperature al di sotto di molti gradi rispetto alla media stagionale: in pratica uno degli autunni più freddi della storia dell'Umanità. Lei sorride, sardonica. Capisco che ha capito. Arriva il pullmino e lei se ne va, lasciando una scia acre di aceto.

Pochi giorni fa era sua figlia ad avere la chioma notevolmente più sfoltita. È la mia rivincita: “Anche per lei è una questione di praticità?”. Lei di rimando, come se leggesse il copione di un film: “Ma no, è il nuovo look del mondo di Patty”.
È una battaglia ancora lunga. Moooolto lunga...

martedì 11 gennaio 2011

Pulp news

È stata dura. C'è voluto un litigio di media intensità per appropriarmi del telecomando. L'altra contendente era mia figlia di otto anni. Come tutti i drogati, anch'io avevo bisogno della mia dose quotidiana di notizie. Scorrono i titoli di testa: buona parte del notiziario è dedicato alla cronaca nera. Cominciano i servizi, lanciati in studio con aria lugubre dalla giornalista. Mia figlia è come ipnotizzata da quella scia di sangue. Avvicina la sua manina verso la mia: capisco che ha paura. Mi guarda, la guardo. Arriva la domanda di pietra: “Papà – mi chiede – perchè?”. Meccanicamente la tiro verso di me come per proteggerla. Le bacio la testa. Con la mano libera prendo il telecomando e sintonizzo su Rai Gulp. Il terrore lascia spazio a Tom &Jerry. Meglio, molto meglio...

La visione dei Tiggì e la lettura dei giornali, in questi giorni, dovrebbe essere accompagnata dal bollino rosso. Non è consigliata ai minori e nemmeno ai depressi (e siamo in tanti). Se ne potrebbe dedurre che viviamo in un mondo di stupratori, assassini seriali, mafiosi incalliti. E poi attentatori, folli di gelosia, sequestratori e molestatori di minorenni. In balia del caos e dell'insicurezza. L'informazione nel suo complesso, pare un testimonial instancabile di vigilantes a pagamento e allevamenti di pittbull. Ma le condizioni di sicurezza di oggigiorno non sono poi molto diverse a quelle di ogni altra epoca, almeno in questa parte del mondo. Se ne desume che i mezzi di informazione sono un gigantesco amplificatore delle ossessioni umane. Un catalizzatore di orrori, demenze, brutture. È inutile negare che ogni forma di edulcorazione delle notizie puzza di regime, di censura.

Ma è altrettanto apodittico che l'informazione agglutinata intorno al mostruoso, all'abnorme, al doloroso funziona come un regime. “Ti mostro la parte brutta della società e ti distraggo dagli altri, e forse più importanti, problemi. Non pensare alla crisi mondiale, alla perdita del lavoro: non si trova quella ragazzina. Questo è il problema. Gli altri sono falsi problemi: ci pensiamo noi a risolverli”: questo potrebbe essere il retropensiero dei Burattinai. Spiegare l'omicidio di una ragazzina avvenuto a mille chilometri di distanza, in fondo, è più semplice che spiegare perchè esiste la povertà sotto casa. Più semplice e più vantaggioso.

Così sempre più spesso, siamo costretti a cercare altrove la verità. Spegnendo la televisione, per esempio. Oppure uscendo di casa e osservando la nonna che prende per mano la nipotina. Oppure ancora guardando il senegalese e l'indigeno che battono il cinque. Non è difficile nemmeno scovare le good news. Basta volerlo. Basta scandagliare il corso, oramai clandestino, della vita comune...

domenica 9 gennaio 2011

Dei delitti e delle pene

Io e il mio amico Brunin l'Oste la pensiamo alla stessa maniera. Siamo mediamente civili e tendenzialmente rispettosi della vita altrui. Ci troviamo spesso in accordo sui temi premi pregnanti che vengono intavolati dagli avventori del bar (va beh, io sono genoano, lui tiene per il Toro, comunque troviamo sempre un punto di accordo).
Ma l'altro giorno, davanti ad un cabaret di focaccine calde, gli ho fatto strabuzzare gli occhi. Non è riuscito nemmeno a terminare il bicchiere di Gutturnio che è rimasto, triste solitario y final, sul bancone di ardesia. Gli ho confessato che sono a favore dell'espulsione coatta dal territorio nazionale, con soggiorno obbligatorio in Senegal, Moldavia e Saharawi. È stato un colpo ferale per Brunin, come dargli torto.

È puntualissima. Alle 18.30 scende dal suo Suv 4x4 Edizione Limitata, fabbricato da una costosissima marca tedesca. Parcheggia nel bel mezzo di una stretta via a senso unico. Piazza le quattro frecce e blocca il traffico per un tempo che va dai 4 ai 7 minuti. Il dramma è che quello è l'unico itinerario che io posso percorrere per arrivare a casa. Lei, la conducente del mezzo semi cingolato, la Stronza (così la chiamo io, ma dubito che quello sia il suo vero nome), è vestita con completi leopardati, le gambe sono avvolte in collant neri e talvolta indossa civettuoli cappellini. È lei che mi ha fatto cambiare idea sulla Bossi-Fini.

Mi ritengo una persona riflessiva. Prima di esprimere un giudizio così tranchant, mi sono documentato. La Stronza poteva aver bisogno di quella home car, in quanto educatrice di una colonia di infanti in temporanea condizione di indigenza. Ma l'unico passeggero che sale sulla Jeep No-limit è una bambina di un biondo slavato dall'apparente età di dieci anni, griffata dalla testa ai piedi. La Stronzetta frequenta un corso di canto in una costosissima scuola privata. Penso che anche per lei, per la Stronzetta, possa essere applicata l'espulsione coatta; già me la vedo tra vent'anni a bloccare il traffico in tangenziale con il suo camion Td, infischiandosene bellamente del buco dell'ozono e altri ammennicoli accessori. Il Dna raramente sbaglia.

Ma tutto questo non mi è bastato per arrivare alle conlusioni suindicate. Ho pensato che magari la Stronza abita in un rustico in pietra situato in una zona particolarmente disagiata. Ho pensato a fossi e dossi, pozzanghere e dirupi. Pensavo ad una tappa della Parigi-Dakar, percorso adatto a quel tipo di veicolo che per percorrere cento metri consuma quanto consumo io in un anno (la mia macchina è alimentata a metano). Ma quel caterpillar non schiaccia nemmeno un granello di sabbia, non è schizzato da nessun atomo di fanghiglia. La Stronza abita a trecento metri dalla scuola privata della Stronzetta.

Talvolta dalla 4x4 edizione limitata scende anche un barboncino. Ecco, io lo vorrei salvare dall'anatema. Ma a quel livello, temo, che nessuno possa considerarsi immune...


mercoledì 5 gennaio 2011

Appesi ad uno spot

Penso che abbiamo toccato il fondo. Quando accidentalmente facendo zapping alla Tv ho visto decine di gemelli giocare a scacchi nella penombra di una circolo, ho capito che siamo ad un punto di non ritorno. Siamo fottuti. Quegli inquietanti gemelli stavano facendo uno spot. Ma non si trattava di pannolini o merendine. Stavano mettendoci davanti ad una scelta che potrebbe condizionare la vita nostra, dei nostri figli e dei nostri nipoti: la costruzione di centrali nucleari nel nostro Paese. E per far questo, questo Governo (ma non ho notizia di alzate di scudi da parte della sinistra), si affida ad uno spot. Uno spot. Una reclame. Un pezzo di Carosello. Secondo quelle menti bacate noi dovremmo scegliere come vivere in futuro in base alla presa di cavallo o all'attacco di alfiere.

La democrazia è informazione; questa non è una novità del terzo millennio, è una regola che funziona sin dalla notte dei tempi. Democrazia è il potere del popolo di decidere, e per decidere bisogna conoscere. Il massimo della democrazia si ottiene con la massima circolazione di informazioni attendibili e verificabili. Misurando la democrazia con questo metro assoluto, il nostro è un paese per nulla democratico.


Siamo chiamati a decidere, quando lo siamo, sostanzialmente perchè a decidere siano altri da noi, quelli che le informazioni ce l'hanno e se le tengono ben strette. Giudichiamo e decidiamo in base a stati d'animo, parole d'ordine, movimenti viscerali. Alla suggestione positiva o negativa che abbiamo quando guardiamo una partita di scacchi. Le nostre sono false decisioni. Siamo una comunità di bambocci pericolosamente esposti ai pericoli della vita, a cui ci si rivolge proprio come ai bambocci: attento che i comunisti mangiano i bambini, non toccare lì che c'è la cacca, zitto che chiamo l'uomo nero.
Secondo me non siamo nati cretini, lo diventiamo man mano che cresciamo. E non per una malformazione genetica. Ci rincretiniscono. La democrazia è un lusso costoso, la distribuzione di informazioni un pericoloso potenziale strumento di disordine. Dirigere è infinitamente più pratico che responsabilizzare, così come assecondare è più facile che decidere. Stiamo perdendo la sostanza della democrazia in nome di una maggiore praticità e snellimento della vita sociale.
Non è così solo da noi. Il tema della democrazia e dell'informazione, che ci sta attaccato è intrinseco, è mondiale. Dare informazioni per far decidere con il cervello a tutto regime, nuoce sia alla tranquillità che all'aggressività della gente. E un popolo molto tranquillo o molto aggressivo, a seconda delle necessità, è quello che ci vuole nelle mani di un pastore capace.
Su questo tema però abbiamo l'onore di essere all'avanguardia nel mondo. Basta, per chi fosse curioso, confrontare il sistema informativo dei media degli altri paesi europei con il nostro.

Basta vedere, per chi soffre di insonnia, uno spot con decine di gemelli che giocano a scacchi...

lunedì 3 gennaio 2011

Rifiuti a Napoli, arriva un concorso a premi

Stante la persistente assenza del sindaco Iervolino nei luoghi deputati alla protesta per la spazzatura nelle strade di Napoli (che, incidentalmente, è la città che amministra) e vista l'assoluta inaffidabilità delle promesse fatte da Sua Bassezza per la risoluzione del problema suindicato, i cittadini napoletani hanno deciso di indire un concorso a premi per trovare la soluzione più confacente. Arrivano i primi progetti.

Un gruppo di artisti svizzeri specializzati in costruzioni enormi e avveneristiche in tutte le parti del mondo (esclusa la Svizzera), propone l'accumulo di tutti i rifiuti in una piana a fianco del Vesuvio, in modo da creare un Vesuvio Bis. Concluderà l'opera una colata di cemento rosso che avrà il compito di far sembrare il Vesuvio Bis un enorme piatto di spaghetti con a pummarola 'ncopp.
Sono già pronte migliaia di magliette con l'effige di Maradona sullo sfondo dell'opera d'arte.

Un'altra soluzione è proposta dalla parrocchia della Madonna del Cassonetto. Consiste nel mettere davanti ad ogni cumulo di spazzatura l'immagine sacra della Madonna, portata in processione dalla squadra del Napoli. Nel caso – secondo la Cei molto probabile – che la spazzatura si smaterializzi e scompaia, il presidente de Laurentiis potrebbe approfittarne per girare un cortometraggio dal titolo “Vedi Napoli, che poi muori”. Tutta la città dovrebbe riunirsi in preghiera.
Durante una simulazione di questa variante per lo smaltimento della spazzatura, parecchi napoletani hanno avuto visioni mistiche. Peppino “O Meccanico” afferma di aver visto Calderoli ballare la tarantella con un venditore di accendini senegalese. Mimma “Capatosta” giura di aver comprato una stecca di Camel di contrabbando dal Trota. Il Governatore Caldoro dichiara che il collega Zaia smaltirà nei siti del Veneto parte della monnezza. Tutti e tre sono stati trasportati d'urgenza nel reparto Neuro-deliri dell'ospedale Cardarelli (il Trota è in osservazione: contrabbandava veramente sigarette).
Sono già pronte migliaia di magliette con la foto di Maradona che prende a calci una confezione famiglia di Pomì.

Ma la soluzione più interessante e realistica è quella avanzata dal CCC (Consorzio Camorristico Casalese). In pratica si tratta di comprare tonnellate di monnezza dal comune di Napoli, per poi rivenderle alla Provincia di Napoli, che a sua volta le gira alla Regione Campania. A questo punto l'amministratore delegato della CCC, Carmine “O Animale”, acquisterà senza gara d'appalto la spazzatura a prezzo inferiore di quanto era all'origine. La plusvalenza serivirà per acquisire un inutile sito di valore storico, dove i rifiuti verranno interrati, e una tonnellata di cocaina proveniente dalla Colombia. Il percolato in eccesso sarà imbottigliato e venduto ai devoti di San Gennaro come acqua miracolosa. Sono già pronte migliaia di magliette con l'immagine di Maradona che prende a calci in culo la Iervolino. Queste T-shirt sono già esaurite...

sabato 1 gennaio 2011

E il federalismo?

Di tanto in tanto, chiacchierando nell'osteria di Brunin (dove, modestamente, godo di un certo prestigio), qualche avventore, tra un bianco frizzante e l'altro, mi fissa e mi chiede a bruciapelo: “E il federalismo?”. È il quesito che più mi imbarazza, lo ammetto.

È lo stesso procedimento mentale che spinge ogni tanto, senza alcun rapporto con quello che si sta dicendo, a chiedere notizie di un amico dimenticato o scomparso senza dare notizie. “E Mario che fine ha fatto?”. Segue un silenzio carico di aspettative, denso di domande che richiedono una risposta perlomeno attendibile e moderatamente circostanziata.

Già, il federalismo. Ora non si parla d'altro. Sembra che il destino di ognuno di noi e della nazione intera sia appeso a questo ineludibile esito. Le parole del gotha padano ci fanno credere che nulla possiamo per contrastare questa epifania; dobbiamo solo rassegnarci e subire pedissequamente.

I miei ricordi vanno alla mia gioventù quando il Professor Miglio, circondato dagli immancabili pipistrelli, tracciava le linee della Soluzione Finale.
Al suo fianco il Ghe Pensi Mi di turno con tanto di pochette verde nel taschino, tracciava con il lampostil nero i confini sella futuribile Padania. Ma il paletto primigenio della rivoluzione verde era sempre quello: il federalismo. Siamo cresciuti con questa parola, tantoché ancora oggi mi appare scritta, in tutti i miei incubi notturni, con caratteri gotici vagamente sinistri. Una parola che si porta dietro enormi rovelli. Noi emiliani, per esempio, entreremo nell'area di influenza positiva del federalismo o saremo definitivamente cassati dalla Storia? E i liguri? I marchigiani? I toscani?
A scanso di equivoci, il consiglio è quello di dichiararci tutti federalisti anche se, in cuor nostro, non ci interessa (e non ne sappiamo) una cippa.

Intanto passa il tempo. Un altro anno è finito in archivio.
Tremo all'idea di farmi un cappuccino da Brunin. Potrebbe entrare Adelmo e, dopo aver parlato del Genoa, potrebbe chiedermi a bruciapelo, guardandomi fisso negli occhi: “E il federalismo?”...