giovedì 28 luglio 2011

Le mie colpe



Quando frequentavo le superiori c’era una materia che proprio non mi andava giù. Era la chimica. Avevo un buon professore e cercavo anche di studiare tutte quelle formule asettiche che non avevano nessun appiglio con la realtà. Leggevo, poi, alla fine, avevo la testa completamente vuota. Non era colpa della chimica o del docente. La colpa era la mia. Quando mi interrogava, nel bel mezzo della discussione, parlavo del peso specifico di Franco Causio all’interno della Juve e del culo perfetto di quella della 5B (il sedere a mandolino, per i poco avvezzi di anatomia femminile). Lui scrollava la testa e cercava di non darmi una insufficienza grave. Mi veniva in aiuto; capiva che non era colpa sua e nemmeno della materia (che nel tempo, peraltro, ho rivalutato). La colpa era mia e soltanto mia.

La stessa cosa mi accade con le polemiche interne al Pd, in vista dei pre-congressi da tenersi per la pre-campagna elettorale. In pratica dibattono su una ipotetica pre sconfitta e sulla formazione di un post governo ombra. Ho letto decine e decine di articoli, redatti da penne importanti e illuminate, ma se mi chiedete quale è il motivo del contendere, se le mozioni vanno nel verso giusto o in quello sbagliato, ebbene non ve lo so spiegare. Ma la colpa non è del Pd. È colpa mia. Solo e soltanto mia che sono uno zuccone e quando leggo penso alla campagna acquisti del Genoa o alla focaccia di Brunin. Il Pd non c’entra niente,. Non c’entrano le sue regole fluttuanti in perenne divenire (mentre invece la formula chimica dell’acqua è invariabilmente H2O).

Leggo le interviste e ascolto gli interventi in Tv ma le parole mi trapassano il cervello da una parte all’altra e non lasciano traccia alcuna. Sono del tutto refrattario a quel linguaggio che un tempo in gioventù fu  - orgogliosamente – mio. Trovavo appassionante quel mondo, mi sembrava incredibile poter chiamare uno sconosciuto "compagno", solo per il fatto di essere lì, sotto il palco, ad assistere al comizio di un carneade iscritto al partito. Ma sono io che sono cambiato, che non apprezzo più la politica, che non la reputo una lingua viva.

La sinistra, amici, mi manca. Ma probabilmente io non manco a lei.
Ce ne faremo entrambi una ragione... 

mercoledì 27 luglio 2011

Rivoglio il Tour de France!




La frustrazione è come la malinconia. È vigliacca, ti assale quando meno te lo aspetti. Quando, per esempio, ti metti davanti alla televisione per goderti in pace la tappa alpina del Tour de France. È un appuntamento, quella della corsa in giallo, che ti allieta la giornata, che ti toglie per un attimo dai problemi, dalle piccole uggie quotidiane, dalle dichiarazioni di Rutelli. Non serve tanto: una televisione, una sedia (in redazione non abbiamo poltrone) e un telecomando. Un telecomando. Fino a pochi anni fa serviva SOLO un telecomando. Ora, ogni luogo che si rispetti ne ha in dotazione almeno quattro. E qui scatta la frustrazione, la completa rovina di una giornata virtualmente trascorribile tra le vette del Galibier e l’Alpe d’Huez. Ammetto di non essere in grado di orientarmi tra i vari decoder, parabole, digitali e analogici, antenne e cavi pencolanti. Lo ammetto: ho sentito la tappa per radio, pur avendo a disposizione due schermi che mi potevano restituire immagini perfette.

Essendo già penosa la tossicodipendenza da sport, il penoso brancolare tra canali oscurati, reti indecriptabili, fottuti decoder, telecomandi non idonei, non aiuta certo a recuperare la dignità di non essere al passo con i tempi. In buona sostanza paghiamo dieci volte quello che versavamo per il vecchio canone Rai in cambio di un telegiornale del Congo o per il campionato mondiale di freccette. Se questo vi sembra un sfogo settoriale di un patetico appassionato di sport, provate ad analizzare il problema e non vi potrà sfuggire un vizio di fondo.

Dai tempi in cui la lampadina elettrica ha sostituito la lampada a petrolio, tutte le scoperte si misurano in praticità. Qualsiasi oggetto messo in commercio nei primi empori era atto a semplificare la vita. Il classico progresso. Al contrario, trasformare gli uomini in deliranti e impreparati tecnici per potersi guardare una tappa al Tour de France, che cappero di progresso è?

Sappiano i vari Antivirus e Antitrust che non ci brucia solo l’enorme spedita di denari (telecomandi, decoder e parabole hanno già riempito in casa mia una gerla per la raccolta della legna), quanto la dose massiccia di impotenza, di nervi logorati, di fronte ad una operazione che dovrebbe essere di una semplicità elementare.

Schiacciare un pulsante è moderno (è rock, come direbbe Celentano) essere costretto a pigiarne forsennatamente sedici, digitare codici in aramaico, districare cavetti, staccare e riattaccare la spina (vi giuro, è il consiglio degli operatori telefonici), indovinare pertugi spazio-temporali per inserire una scheda, ebbene tutto questo è roba da spelonca preistorica.

A parte quella forte sensazione di presa per il culo che lega l’uno all’altro tutti gli evi della storia...

lunedì 25 luglio 2011

E...state in bianco e nero



La vita di ogni essere è cadenzata da innumerevoli riti. Anche il mangiare, aldilà del soddisfacimento di un bisogno primordiale, è un rito.
I miei riti sono la lettura di svariati quotidiani, una capatina su internet, la visione di tre pagine sul Televideo Rai: politica, cronaca e – con molta, molta più attenzione – sport. Da qualche tempo il dito, veloce, va anche sulla videata che cataloga i gusti televisivi di un campione (non so quanto rappresentativo) di italiani.
Tra i programmi più visti, naviga sempre in posizione-podio una raccolta di spezzoni Rai depigmentati dal tempo: è in prima serata, subito dopo il Tg e appena prima del programma forte della rete ammiraglia (di solito un film anni sessanta di nessun valore).

È estate, si dirà; in pochi guardano la televisione. E poi i programmisti Rai e Mediaset sono la categoria di umani che godono del periodo di ferie più lungo al mondo. Logico per i poveri addetti alla messa in onda attaccarsi ai vari “meglio di”.

Qualche sospetto, devo ammetterlo, mi viene anche prendendo visione dei vari Tg, che mi sembra – ma probabilmente è colpa mia – sprofondino nella palude del già visto. L'ultima astruseria di Bossi non mi sembra una primizia; come anche il nuovo proclama di Bersani mi pare la replica del comizio in occasione della sagra del peperone del '98. Insomma, fanno la stessa impressione di un ballo di Don Lurio o di una canzone di Gigliola Cinquetti: piccole memorie che saltano fuori dal baule del passato.

Ma c'èun discrimine che depone a favore di Don Lurio e la Cinquetti: in inverno vengono messi a riposo nelle comode teche. Le dichiazioni dei politici, invece, sono del genere che stilisti e pizzaioli catalogherebbero come genere quattro stagioni, indifferenti sia alle nebbie che alla calura.

Lancio un'idea, magari qualcuno mi legge e ci aiuta, amici miei.
Perchè non mandare in onda nei tg interviste dei vari Berlinguer e Almirante, Moro e Spadolini, Craxi e Paietta. Avrebbero lo stesso spleen in bianco e nero di Don Lurio e la Cinquetti e darebbero un po' di meritato riposo a Bossi e Bersani. In fondo è estate anche per loro.
E un po' anche per noi... 

giovedì 21 luglio 2011

La lezione di Mario




Ogni giorno è buono per un anniversario e ti capita di non farci più caso. Se poi l'anniversario è così “pregnante” da ingombrare i media, allora cerchi di tutelarti preventivamente dalle sbobbe cerimoniali e retoriche vedendo di dimenticare ancor prima di ricordare. A volte invece ti viene di ricordare, che tu ci pensi o meno, perché un anniversario ti si può imporre per la sua eccentricità, per la sua estraneità dal contesto che stai vivendo – la tua storia di oggi – e come può farlo una scatola da scarpe zeppa di fotografie di famiglia, ti riapre lo spazio mentale, e persino quello affettivo, a una corrente di pensieri che ridanno unità alla tua vita, alla percezione che hai della tua vita e della storia in cui è vissuta.

Il 20 luglio del 1928 in borgo della Gazzola nasceva Mario Tommasini. Per Parma - ancora non lo si sapeva -, fu un giorno fausto. Uno di quelli da appuntare sul calendario, magari uno di quelli antichi con i numeri grossi come un pugno.

Tommasini, Mario, ha cambiato il mondo? No, non gli è stato concesso, come sappiamo. Avrebbe avuto la forza di farlo se gli fosse stato permesso? Io ho bisogno di pensare di sì. 
Non più per ciò che è stato o non è stato, ma per quello che potrà ancora essere di me e del mondo. Se sono cresciuto e ora invecchio in una indeflettibile, e forse imperdonabile, speranzosità, è perché sinceramente lo credo. Credo negli uomini, o nelle figurine.

Credo nell’insegnamento di Tommasini, di Mario. Forse perchè credo nella libertà e nel valore incalcolabile e incancellabile dei gesti. Come quello di aprire le porte di quei lager che allora si chiamavano manicomi. A volte anche cancellare qualche cosa ti fa entrare nella storia. Tommasini, Mario, ha cancellato per sempre la parola manicomi. E non è cosa da poco.

Sono passati cinque anni da quando Tommasini, Mario, ci ha lasciati. Ma la sua lezione è ancora lì, tutta da vivere...

mercoledì 20 luglio 2011

Mestieri del nuovo millennio




Non è difficile imbattersi in una storia strappalacrime in Tv. E nemmeno sui giornali. Per non parlare poi dei settimanali. È la storia di copertina. Grazie a quella, si vende centinaia di migliaia di copie. Grazie a quella, magari si fanno ospitate in prime time. Nei giorni scorsi è stata la volta di un carcerato fatto riappacificare con la vita – e con la sua famiglia – dalla stucchevole e partecipe conduttrice. Alla fine anche a lei è spuntata una lacrima che sa tanto di cipolla affettata.

Ma ci pensate mai a quelli che, per mestiere, fanno incontrare padri e figli in lite per farli piangere davanti a milioni e milioni di persone?
Alle varie alessie marcuzzi che vanno a rovistare tra i sentimenti dei parenti di secondo grado dei partecipanti per cercare un appiglio di dolore?
Alle varie barbare d’urso che fanno invocare il perdono a mogli fuggiasche o mariti adulteri, mostrati come bestie nella gabbia di uno studio televisivo?
Ai vari salvi sottili che aizzano questi disgraziati ad indirizzare frasi feroci nei confronti di parenti e congiunti, prima ancora che la giustizia abbia fatto il suo corso?
E quegli scherzi del cazzo che amici e conoscenti di un presunto vip mettono in scena al solo scopo di mettere al pubblico ludibrio l’attorucolo di provincia?

Fanno solo un mediocre spettacolo della mediocre disperazione di tutti noi. E a volte riescono pure a commuoverci nonostante un necessario, provvido, cinismo che ci protegge da questo virus schifoso che è la compravendita dei sentimenti e del dolore.
Ma ci pensate mai che quello è un lavoro? E che li pagano?

Ma non è più onesto, allora, rapinare banche, sfruttare puttane, svaligiare ville che almeno uno rischia del suo, rischia la galera e la pubblica esecrazione. Mica si nasconde dietro al dito del successo, del sentimentalismo peloso, per rubare al prossimo la dignità e di mostrarla in televisione con un bel sorriso, come se stesse vendendo un kit di pentole o una crema rassodante e invece vende persone?

Ma ci pensate che questi moderni schiavisti invece credono di fare un lavoro innocuo, magari addirittura onesto?...

martedì 19 luglio 2011

Economia da bar




Un po’ per senso civico e forse un po’ anche per vergogna – un giornalista dovrebbe essere informato su tutto -, seguo con il fiato sospeso l’andamento comatoso della nostra economia. Mi preparo, nottetempo, frasi di commiato appropriate per l’imminente funerale dell’euro; non si sa mai, se qualcuno del bar mi venisse a chiedere un commento sulla borsa di Hong kong. E allora sondo l’umore mercati, queste misteriose entità che nel mio immaginario, come l’ordine dl Templari, sono investite di una sacra missione sconosciuta ai non adepti.

Non ci capisco un tubo, nè la mia economia privata, molto mediocremente benestante, mi consente di giovarmi o di dolermi di ciò che accade.
Vedo che tutti si preoccupano e mi adeguo. Scimmiotto la faccia triste di Giorgino, mi trincero nel silenzio stampa come il premier, dò pacche sulle spalle al mio barista.

Ma più cresce l’attesa spasmodica – e per la sinistra piuttosto inedita – per le oscillazioni degli indicatori economici e più temo la schiacciamento ossessivo del dibattito politico intorno ai soldi. Anche i discorsi da bar sono pesantemente influenzati dall’indice Mibtel (“chissà sino a quando potremo permetterci l’oliva nel Martini”, “il Milan Messi ora se lo può sognare”, “ora arriveranno gli uomini  moldavi a portarci via le donne”).

Si chiamava un tempo “economicismo” questo ridurre ogni discorso sul conflitto sociale alla sua rappresentazione economica: ed era considerato un brutto vizio. Una contaminazione della politica, un degrado dell’amministrare.

Mi chiedo, oggi, quale spazio resta alla politica al di fuori di questo oramai permanente e antico e pernicioso discorso sulla crisi economica, della quale sento parlare da quando sono nato, attendendone invano o la soluzione o il precipitare, per vedere di nascosto l’effetto che fa.

E le idee? E la cultura? E i destini degli uomini, dei paesaggi, dello spirito pubblico? Sono tutte cose che costano quattrini, si sa. Ma almeno discuterne è gratis, e non dovrebbe turbare i mercati.

Vogliamo approfittarne?.

giovedì 14 luglio 2011

A proposito di Anarchia




La città che mi ospita e mi dà da lavorare vive un momento di estrema confusione. Ci sono anche le manifestazioni di piazza. Chi partecipa è fondamentalmente un gruppo di ragazzi che sfogano giustamente la loro rabbia. Per lavoro sono sempre presente. A volte mi becco anche la mia dose di insulti, assieme ai miei colleghi (pennaiolo, servo del potere, prezzolato). Fa parte del gioco delle parti. A volte, invece, si riesce a scambiare quattro chiacchiere con i contestatori. La maggior parte di loro si dichiara fieramente Anarchico. Perchè non vanno a votare, perchè non credono nelle istituzioni. Forse perchè va di moda o per via dell’onomatopea gradevole. E allora mi torna in mente il mio amico Achille e con lui tutti i suoi vecchi amici. Quasi preistoria del pensiero. Vorrei chiedere a questi ragazzi prima di dichiarasi anarchici, di indagare sulla vita di questi uomini così difformi, lontani, estranei dall’idea generale e dominante di pratica della politica, del pensiero e della vita.

Li riconoscevi a prima vista dal modo di portarsi, e di essere e di fare. Se era un tornitore, era il più ingegnoso della sua officina, se era un avvocato era il più attento e dedito, se era un bracciante il più capace, se era un maestro il più giusto. Vite diritte. La dirittura era la loro unica forza. E così la dignità della loro esistenza; anche se erano morti di fame, e in gran parte così era, state pur certi che avevano da parte un vestito pulito e stirato, una camicia bianca, un fiocco rosso inamidato. E finito il loro lavoro così lì avresti sempre visti: signorili, quasi dei principi. Era quello che volevano, essere riconosciuti per questo.

L’anarchismo non è mai stato un’ideologia forte, una summa di certezze; è un ideale spirituale più che un’idea politica. Un fragile ideale nel cuore dell’epoca delle ideologie forti. Il comunismo, il liberalismo, le altre ideologie della modernità, quelle sì sono piene di certezze, e di certezze nutrono gli uomini che vi aderiscono. Fino a prova contraria, naturalmente.
Un anarchico è conscio che il suo ideale potrà realizzarsi solo oltre la storia, nel costituirsi di un’umanità nuova.

Questo è quello che mi è stato insegnato, questo è ciò a cui mi sforzo di attenermi. E so che questo fa di me un uomo fragile fra i forti, ma fa pur sempre di me un uomo. E mi è stato insegnato, e non dimentico, che, nell’epoca dell’indegnità, essere un uomo degno è comunque una vittoria. Chi me lo ha insegnato (i vecchi amici di Achille) ancora non sapeva che sarei vissuto in anni in cui la schizofrenia è diventata un modo del fare politica e affari largamente apprezzato.

Questo mi è stato insegnato. E per questo ti ringrazio, Achille, amico mio. Dovunque tu sia...

mercoledì 13 luglio 2011

Offresi voto...




Tendenzialmente essere schifati dalla chiesa cattolica – almeno in Italia – è una grossa fregatura. Chi, come me, convive e ha avuto l’ardire di mettere al mondo una creatura, è trattato alla stregua di un appestato. Figurarsi se qualcuno, in campagna elettorale, si appella al voto dei “conviventi con prole”. Nessuna speranza di vita eterna, nessuna possibilità di spendere convenientemente la tua spiritualità. Mi sono ridotto a manifestare (modestamente) la mia essenza profonda nell’amore per gli alberi, gli animali – confesso però che odio le zanzare e i piccioni -; nel mio sconsolante caso anche per la pianticella di basilico che quest’anno mi sta dando grandi soddisfazioni.

Nessuno, nemmeno il più disperato degli schieramenti viene a chiedere il voto alla mia disperata categoria. Nessuno ti inibisce e ti ricatta, facendoti sentire corresponsabile di valori che non hai. E se ce li hai non sono stoccabili al mercato all’ingrosso.

Non si è mai sentito nessun leader politico (neppure Rutelli, che penso sia quello che raschia di più il barile) invocare la “comune vocazione sociale dei conviventi con figli” o il loro “prezioso contributo al mantenimento della tradizione familiare”.

Se abbiamo una famiglia è solo così, per banale simpatia nei riguardi dei nostri congiunti. Se vogliamo bene a qualcuno è così, perchè è troppo faticoso volergli male. Se siamo di sinistra è solo per fare arrabbiare chi vota a destra.

Sereni e indisturbati andremo alle urne aggiornando, a nostro vantaggio, un vecchio slogan del dopoguerra: “Nelle urne non ci vede nè Dio, nè Stalin. Quindi se sbagliamo voto vuole dire che siamo dei pirla”...

martedì 12 luglio 2011

La morte in comode rate




L’ho visto arrivare come una saetta. Prima un puntino nero nello specchietto retrovisore, poi quel neo andava espandendosi finchè ha assunto le sembianze di una Golf nera con alettoni ed esercito di marmitte al seguito. Naturalmente i vetri posteriori erano oscurati, ma l’altissima velocità non mi ha impedito di osservare per una frazione di secondo gli occupanti dei due sedili anteriori. Avranno avuto sì e no vent’anni. Ridevano di gusto, a centottanta chilometri all’ora. Probabilmente volevano fuggire da quel istituto di scuola superiore che avevano lasciato poche ore prima, dopo il termine della prova orale.

Per chi frequenta abitualmente le autostrade – è il mio caso – questi incontri sono all’ordine del giorno (ma anche della notte e con la variante Suv). Gli incidenti, purtroppo, sono una conseguenza nefasta dell’alto traffico su tutte le strade, italiane e non. Ma ce ne è qualcuno – il cui bilancio è sempre quello della strage – che ha immancabilmente per protagonisti dei ragazzini euforici a bordo di uno di questi assurdi bolidi (Golf Gti, Uno elaborata da pista, Clio da Rally, Cinquecento Abarth, Saxo Indianapolis). Ogni casa automobilistica ha in listino una di queste utilitarie camuffate da ordigno.

Si parla tanto di fumo passivo re ci si indigna per le molestie sessuali. Sedute fiume del parlamento per il futuro delle foche monache e sit in per l’uguaglianza delle donne. Petizioni per gli esuli birmani e progetti di legge per la libertà di stampa per paesi ignorati anche da Geronimo Stilton.

Ma non esiste dibattito, e se c’è stato mi è sfuggito vista la poca importanza attribuitagli, sullo spaccio mortifero e indisturbato di macchine dalla potenza pazzesca – e per giunta ad un prezzo relativamente basso e in comode rate – date in mano a ragazzi appena usciti dalle superiori.

Si legifera su tutto, ma perchè non su questo?...

venerdì 8 luglio 2011

L'economia in tempo di guerra




Ci sono abitudini che uno si porta dietro senza porsi nemmeno troppe domande. Io ho quella di comprare ogni santo venerdì il settimanale che si occupa delle varie sfighe che incombono sulla terra: l’ “Internazionale”. Oramai, penso, sia quasi un decennio che ho questo uso tafazziano (che comunque mi sento di consigliare a tutti). Dopo il sommario e l’editoriale del direttore (Giovanni De Mauro) fanno bella mostra tre foto, emblematiche dei fatti più importanti che succedono nell’universo. Valgono il prezzo del settimanale.

Almeno una decina di volte anno, una foto raffigura una scena che, a me, fa rabbrividire. Più di mille corpi martoriati.

È sempre un esemplare maschio tra i 15 e i 40 anni. può essere di etnia curda, sudanese, algerina, afgana, hutu o tutsi. Può avere il passaporto brasiliano o messicano. Può essere cento cose e anche di più. Tanto è sempre identica la sagoma: è in piedi, in mezzo ad una strada, oppure sulle lamiere di un camion. Punta il mitra verso il cielo e spara un’orgogliosa raffica. Festeggia, sorridente o contrito. Non si sa ben cosa, ma festeggia.

I conti sono presto fatti: un buon cinque-dieci dollari di pallottole. Metà del salario mensile, in tempo di pace, per gran parte di quelle moltitudini.

Il discorso è che c’è un’economia di guerra generosa, provvida, che elargisce – oltre al pane dell’odio – anche il companatico della posa ribalda in favore di flash. Ratatatata: pallottole come tappi di champagne.

C’è poi un’economia di pace che fatica a dare il latte e gli antibiotici proprio a quei figli di padri armati e festeggianti.

Chi è poi che disse: “Riempite i granai e svuotate gli arsenali?”. L’ultimo, se non ricordo male, fu Sandro Pertini. Che patetica speranza. Gli arsenali traboccano e i tiranni lasciano in eredità ai poveracci piramidi di munizioni ben più alte di tutti gli ospedali e delle scuole e dei granai delle nazioni che festeggiano a suon di pallottole.

Sparando in aria, in fondo, quelle vittime festeggiano solo i loro aguzzini...

mercoledì 6 luglio 2011

Esagerazioni quotidiane



Quando ieri ho sentito per radio che un magazine inglese ha messo sotto controllo il telefonino di una ragazzina scomparsa pubblicando le ultime strazianti suppliche dei genitori, ho pensato: non è possibile, la notizia sarà esagerata.

Quando ho letto su un blog che un cinese ha speso 330mila euro per un chilo scarso di tartufo ho riflettuto: non è possibile, la notizia, come al solito, sarà esagerata.

Quando ho letto che se voglio mettere un litro di benzina nel serbatoio della macchina sono costretto a pagare una accisa per la guerra in Eritrea e una per la crisi petrolifera del 1979 (!) ho frenato la mia rabbia pensando: la colpa è di noi giornalisti che, per lavoro, esageriamo le notizie per fare un titolo.

Quando la settimana scorsa ho letto che per la terza volta in quattro anni la Rai ha trasmesso "per errore" una versione censurata del film "Brokeback Mountain" (togliendo, sbadatamente, le scene di amore gay tra i due protagonisti), ho immediatamente pensato: la solita esagerazione dei disfattisti.

Quando poi i cronisti presenti a Pontida hanno attribuito a Roberto Castelli la frase “i romani sono culturalmente arretrati” non ho nemmeno pensato e sono arrivato ad una conclusione: impossibile, la notizia sarà esagerata.

Ma tutte e cinque le notizie – scelte a caso nel vasto catalogo delle demenze civili, giornalistiche e politiche - sono vere. Perfettamente vere.

Non è più consentito illudersi che non sia possibile, che le notizie non siano vere o esagerate. L’inverosimile si avvera puntualmente, almeno una volta al giorno. E viene praticato con passione e dedizione.

Di tutte le zavorre psicologiche che ci gravano addosso, ce ne è almeno una della quale ci possiamo liberare sin da subito: lo stupore...

martedì 5 luglio 2011

Viaggiando in treno




Amo il treno. Amo la sua quiete, la possibilità di conoscere persone a causa dell’obbligo quotidiano del trasferimento dalla abitazione al posto di lavoro. Amo la sua incorporea atmosfera di contenitore di vite altrui, di disperazioni, di amori, di tragedie. Amo il treno perchè mi dà la possibilità di trasformare un tempo neutro in schegge di vita pulsante. Ma tutto questo me lo stanno distruggendo.

Un tempo lavorare in ferrovia era motivo di vanto, una medaglia da appuntare al petto. Gente fiera e preparata quella che lavorava sui convogli. Gente seria. Ora tutto è stato distrutto con una formuletta che spiega come tutto deve essere piegata alla logica della “razionalizzazione e contenimento dei costi”.

È però interessante sapere come è stato spartito il meraviglioso bottino di centomila salari risparmiati dalle ferrovie  da dieci anni a questa parte.

Ma sapete perché metà delle porte dei treni è guasta? Perché non ci sono più officine per ripararle. Sapete perché i locomotori si guastano? Perché non esiste più il controllo che per 15.000 vecchie lire facevano i macchinisti ogni 6.000 chilometri e macchine vecchie di cinquant'anni vanno al controllo ogni 50, 60.000 chilometri. Se si guasta il riscaldamento, se si bruciano le lampadine, se si sfonda un sedile, è più razionale sigillare il vagone o, meglio ancora, lasciare perdere. Perché il modo più sicuro di distruggere un patrimonio fatto di roba buona - e le ferrovie sono state fatte a suo tempo con roba buona - è di evitare la manutenzione.
Date un'occhiata alle targhe che trovate in ogni vagone, in ogni locomotore per rendervi conto di quanto sia vecchio il materiale che sferraglia su e giù per il Paese. Date un'occhiata ad un orario di venti anni fa e a uno di oggi per rendervi conto di quanto si siano allungati i tempi di percorrenza. Considerate il fatto singolare che un cosiddetto Eurostar di oggi sulla linea tirrenica è più lento di un antico espresso.

C'è una sola cosa che pare funzioni bene da dieci anni a questa parte: la Milano-Roma per Eurostar. E questo è il bocconcino d'oro, la fetta della torta da lasciare all'ospite di riguardo al cenone per la spartizione delle fu Ferrovie dello Stato.

Il diritto alla mobilità, a potersi spostare in tempi ragionevoli a un prezzo ragionevole, è uno degli indici della democrazia. Il diritto alla mobilità ogni cittadino se lo dovrebbe garantire semplicemente pagando le tasse. Per questa ragione le ferrovie sono un bene pubblico e la privatizzazione deve comunque garantire questo diritto. La dissoluzione e la svendita sono un atto grave di sopruso e tirannia paragonabile alla dissoluzione del sistema scolastico o della riserva aurea della Banca d'Italia. E se penso alle ferrovie d'Italia oggi mi viene in mente l'inizio della fine dell'Argentina ieri. Tutto cominciò con la svendita delle infrastrutture strategiche del Paese...