mercoledì 30 marzo 2011

Bambini, soli...



Uno dei ricordi più vividi degli ultimi dieci anni è stata la trasferta che abbiamo fatto in terra urbinate. Dovevamo incontrare due persone straordinarie, Marco e Nadia, e i loro inarrivabili pargoli, Enrico e Vittoria. Una sfacchinata. Ma ne è valsa la pena. Eccome. Urbino è di una bellezza che lascia senza parole, ma la sua visione è passata senza lasciare traccia alcuna nella mia memoria. Ciò che si impresso in maniera indelebile, è la serata accanto al caminetto, senza luce, senza Tv, senza nemmeno la radio. Gli unici suoni – celestiali, argentini, eterei -  erano le voci dei tre bambini che raccontavano storie da loro inventate. Splendido. Eravamo sette persone intorno ad uno sfavillio di lapilli. E niente altro

Eravamo gente che si raccoglie intorno ad uno di loro per ascoltarlo allo stesso modo di centomila anni fa. Parole che navigano nell’aria e vengono raccolte, suoni dell’immaginario che diventano per incanto emozioni condivise. Una magia fatta di niente, in un’epoca di meravigliose magie televisive. Di fantasmagorici effetti speciali. Eppure funziona, eppure ha funzionato. Così come funzionava nella cucina di casa mia, in un paese qualunque degli anni sessanta, quando mia nonna prendeva a raccontare qualche cosa di stupefacente che le era capitato quel giorno, da qualche parte, a qualcuno: una tra le mille favole del quotidiano. 

Questo miracolo funziona sempre. Funziona perchè l’arte del comunicare è materia più complessa di quella ipotizzata dagli ideatori degli spot pubblicitari. Funziona perchè quando si è finito di raccontare, intorno c’è gente più amica. Ed è la cosa più bella, che nessuna tecnologia può ricreare.

E poi, ciclicamente, c’è qualche pirla che dice che la favola non funziona più, che i racconti sono finiti, immaginando un punto di non ritorno per la parola, questo bene sacro che ci distingue dagli animali.  “Nessuno sta più a sentire le favole”, dicono. Forse, più semplicemente, non c’è più nessuno che sa raccontarle, le storie, ordinarie e straordinarie. Forse, non c’è più nessun cantastorie in questo Paese.

Un Paese che ha in odio la fatica di amare, amare per davvero, i propri bambini. In questo Paese i bambini vengono ignorati, tollerati, vezzeggiati, ma non amati. E nemmeno voluti. I bambini sono una fatica che cerchiamo di risparmiarci, come intendiamo risparmiarci la fatica di costruirci uno straccio di futuro. Sono, bambini e futuro, un prezzo che andrebbe a gravare sulla montagna di costosissima spazzatura che fa da placebo alla disperazione di questo Paese di favole, altre favole, bugiarde.
E' una gran fatica raccontare a un bambino. Mettere in moto cervello e cuore per inventare qualcosa per lui, qualcosa che non sia qualche sciocchezza raccolta nella spazzatura di cui ci nutriamo. Meglio comprargli un giocattolo, accendergli la televisione.
E' una fatica anche nelle cose più banali. In quante scuole c’è un giardino, in quante giocherie c’è qualcosa di fantasioso e intelligente, in quanti quartieri c’è un parco per la sua bicicletta, un lago per le sue barchette, un teatrino per i suoi sogni? Avete idea della solitudine di un bambino di questo Paese? No, perché non gli avete mai chiesto il voto. E quello dei suoi genitori in certe città è in vendita per una ricarica da 20 euro per il cellulare.
Nel Paese della televisione più insulsa del mondo, del campionato di calcio più ricco, dove lo Stato ha finanziato anche i film porno, un bravo scrittore di storie per l'infanzia può farlo solo come secondo lavoro, nei ritagli di tempo, se vuole anche solo pagarsi l'affitto di casa. Già, in Italia non si fanno più figli. E perché mai dovremmo aver voglia di vedere nel loro pianto, nel loro sorriso, il riflesso della nostra vergogna...

domenica 27 marzo 2011

La guerra e l'arte della coltivazione del basilico



La mia pianticella di basilico si sta rinvigorendo. I primi raggi di sole hanno su di lei un effetto taumaturgico.
Ieri mi sono alzato che albeggiava, quando notte non è più e giorno ancora non è. Ho tolto il crocchio che le ho messo da riparo posticcio per la notte e l'ho fatta baciare dal sole. Non chiedetemi il perchè, ma ho sentito il suo ringraziamento. Chiaramente. Credo di essere un ottimo tutore della mia pianticella di basilico. Forse è l'unico lavoro che so davvero fare con le mie mani. Non roba astratta, come scrivere, ma qualcosa che ha a che fare direttamente con la materia e la vita. E l'immediata cruda responsabilità che ne deriva.

Il mio basilico ha tre anni. L'ho piantato io, miracolosamente. Ed è sopravvissuto, un altro miracolo riuscito contro ogni previsione (fatta soprattutto da mia moglie: “Gli uomini non hanno il pollice verde e tu in particolare”). Ogni anno mi regala centinaia di foglie, con le quali confeziono una decina di vasetti di pesto, che comunque mi costano tre volte quanto pagherei l'equivalente al pastificio della Olga. Ma per una decina di volte all'anno posso dire di mangiare un generoso piatto di trenette con il mio pesto. Per questa frase ho combattuto bibliche guerre contro la tramontana, sveglie notturne per metterla al riparo dalla troppa pioggia, placcaggi improvvisi a bimbi troppo ansiosi di staccarle le foglie.
So che non potrei mai disfarmene. Perchè, a conti fatti, è, a tutt'oggi, l'unica vera continuità della mia vita. Con questo mi ripaga, non con le foglie di squisito basilico. Ma per il fatto semplice e definitivo che è lì, sul mio balcone e che protegge le mie incertezze, come io proteggo le sue. Accanto al suo esile gambo trovo riparo come un re sotto ad una millenaria quercia. Spesso ci parlo, nutro la sua terra con briciole di pane, la disseto con abbondanti vaporizzazioni nei momenti di calura. Pochi mi capiscono. Forse solo mia figlia, ancora troppo giovane per il tetro cinismo. E so che visto da lontano, anche solo da un altro terrazzo, il mio basilico è una pianticella patetica, quasi una caricatura; e altrettanto dicasi di me, di me accanto a lei. Ma questo non è di alcuna importanza: molte cose viste da fuori perdono il loro senso.

Ho deciso che quet'anno trapianterò la mia pianticella nella serra del mio amico Brunin. Perchè è giusto che faccia la sua strada. Per amor suo, per rispetto della vita. Perchè cresca davvero e diventi, finalmente adulta. Per darle una continuità così naturale da sembrare una favola. Una favola perfino patetica, se vista da lontano.

Non so se potrò fare qualcosa di più giusto per ciò che sono riuscito a fare attecchire in un luogo angusto, nei corti orizzonti. E crescerà ancora, e io con lei, in epoche più floride, in orizzonti più vasti. Sarà un successo solo se crescerà là, solo chi è riuscito a sopravvivere qui.

L'arte della coltivazione del basilico in tempo di guerra non fabbrica pace, lo so. Ma rende giustizia alla vita, alla vita che è vita anche in tempo di guerra. E vi sembrerò patetico, amici miei, solo se mi state guardando da lontano.
Da molto lontano...

venerdì 25 marzo 2011

Il soffitto di cristallo




È sempre una questione di sbaciucchiamenti. Berlusconi ora è alla berlina per il bacio a Gheddafi. Poco tempo fa lo era per atteggiamenti analoghi nei confronti di ragazze – sembra – minorenni.
Non so a voi, ma a me danno più fastidio gli atteggiamenti nei confronti delle donne.

Berlusconi l’ha sempre fatta franca: gli uomini lo sopportano (più che altro per senso di appartenenza) e le donne lo sopportano (qui non so dare una risposta). Ma perchè noi italiani lo lasciamo fare? In Italia le idee conservatrici sono dure a morire, in parte a causa della cultura patriarcale, e buona parte della colpa (aridaje...) è data dell’influenza della Chiesa cattolica che, da quando Berlusconi è al governo, si intromette sempre più spesso negli affari politici e sociali italiani.

È chiamato, con felice metafora, il “soffitto d cristallo” ed è la barriera invisibile che impedisce alle minoranze e alle donne di fare carriera ai massimi livelli. Ed è sempre più resistente in Italia piuttosto che in altri paesi. L’Italia, infatti, è al 67° posto – su 130 paesi nel mondo -, secondo il forum economico sul divario delle opportunità tra sessi. Viene addirittura dopo paesi come l’Uganda, la Numibia, il Kazakistan e lo Sri Lanka. Secondo l’organizzazione, meno della metà delle donne italiane lavora, mentre la media europea è due su tre.
Inoltre, gli uomini italiani hanno ottanta minuti in più di tempo libero rispetto alle donne (questo perchè si dedicano di più alle faccende domestiche).

Non c’è da meravigliarsi, quindi, se nessun vuol fare più figli e l’Italia ha un tasso di natalità tra i bassi al mondo.
E i mezzi di informazione non fanno altro che esasperare la situazione, presentando donne prossime alla nudità accanto a presentatori vestiti. Il risultato di questo lavaggio del cervello è che per le adolescenti l’ambizione più grande è quello di fare la velina.
E ci mettiamo dentro anche il fenomeno Lega. Umberto Bossi nei momenti di massimo fulgore propagandava non le sue qualità intellettuali, ma la rigidità del suo organo sessuale. Lui ce l’aveva sempre duro.
Questo atteggiamento è senz’altro un riflesso dell’insicurezza economica  sociale. In questo senso, sessismo e razzismo sono due facce della stessa medaglia.

Ma ultimamente il cristallo si sta venando. Le donne – ma anche gli uomini – stanno facendo pressione su quella vena del cristallo. Stanno manifestando come mai in passato era accaduto. Forza, donne, rompiamo quel soffitto...

mercoledì 23 marzo 2011

Invasioni di campo




Scrivere con la Tv accesa, non va bene. Ne risente la concentrazione; non servono simposi di medici per questa affermazione banale. Ma io ho questo brutto vizio. A dire il vero ascolto le parole che escono dallo schermo con una levità regalatami da anni e anni di affiliazione alla categoria dei tele-spettatori. Diciamo che sono vaccinato. Certi argomenti però fungono da catalizzatori di attenzione.

Qualche tempo fa per un attimo ho sollevato le dita dalla tastiera e la mia attenzione era calamitata dall’elegante signore che stava concionando in qualche Tv. Era Cardinal Bagnasco che disquisiva sulla “ineleggibilità di quanti hanno pendenze penali con la giustizia” e la questione del numero dei mandati. E poi individua quattro punti: democrazia interna dei partiti, lotta alla criminalità organizzata, legge elettorale e federalismo. Parla metricamente, quasi solfeggiando, sfruttando con abilità l’uso delle pause. Bene. Bravo.
Naturalmente non parlava del suo Stato (cioè il Vaticano) ma di una nazione straniera (cioè l’Italia).
Ma dico, perchè interessarsi tanto di un altro Stato? Perchè non analizzare lo stato dell’arte in Francia o in America Latina o in Cina? Ci permettiamo noi di dare consigli sull’elezione del Papa? Abbiamo noi qualche rappresentante nel loro conclave? Per restare calmo e analitico mi sono affidato ad un Dio preso in prestito all’istante.

La verità è che questo Governo sta riarrotolando, metro dopo metro, il tappeto della seconda repubblica per riporlo – finalmente – nella soffitta della storia, lasciando scoperti al freddo e al gelo vastissimi territori.
E la Chiesa prova a occuparli tutti. La televisione pullula di preti sessuologhi, preti opinionisti, preti sportivi, preti presentatori, preti costituzionalisti e, ogni tanto, anche preti che parlano di religione.

Da giovane pensavo che un giorno finalmente l’Italia si sarebbe svegliata senza la Dc e governata da una coalizione progressista. Mi avessero detto che ci saremmo svegliati senza la Dc ma governati da Papa, forse avrei deciso di tenermi stretti Gava e Cirino Pomicino.

Ero fieramente convinto di questo concetto senonchè navigando nella Rete mi sono imbattuto nella preghiera che gli schiavi d’America  usavano recitare nei momenti di sconforto (come quello che stiamo passando in questo periodo). La preghiera fa così: “Noi non siamo ciò che dovremmo essere, e non siamo ciò che vorremmo essere. E non siamo quello che un giorno saremo. Ma, grazie a Dio, non siamo ciò che eravamo”.
E allora mi rimetto a picchiettare sulla mia tastiera... 

domenica 20 marzo 2011

Intossicazione delle informazioni



La parola guerra – se non è combattuta contro di noi o contro ciò che amiamo – non suscita in noi emozioni forti. Se combattuta altrove, non abbiamo abbastanza fantasia per vedere la guerra con gli occhi delle vittime.
Sì, certo, siamo tutti libici. Come siamo stati tutti newyorkesi nel 2001 o come siamo siamo stati tutti berlinesi all'origine. E sicuramente non ci sotrarremo dall'essere, all'occorrenza, tutti parigini o londinesi e chissà chi altri. Anche se, è bene dirlo, non ce la siamo sentiti di essere tutti sciiti nel periodo in cui saltavano in aria come birilli. Oppure - ma questo sarebbe stato veramente troppo – essere tutti ruandesi quando trovavano centinaia di cadaveri nei laghi.

Ma ora siamo tutti libici, bando alle ciance. Chi non lo è è un criminale. Vogliamo tutti quanti portare la democrazia in Libia, anche a costo di raderla a zero. Se davvero non esiste una via meno macabra per “esportare democrazia”, perchè allora invece di bombardarli a tappeto, abbiamo lavorato alacremente fino ad oggi ovunque nel mondo (da Timor alla Liberia, fino ad arrivare al Guatemale), solo per instaurare o mantenere in vita delle dittature, teorizzando che la democrazia, tra i popoli “immaturi”, è solo fonte di instabilità e grattacapi di ogni genere? Perchè le dittature africane o asiatiche, perchè i battaglioni della morte latino
americani hanno usato o usano armi che gli abbiamo venduto noi? Questo sta accadendo oggi, non ieri, in contemporanea con il nostro slancio di democratizzazione globale.

Gheddafi non è il primo capo di stato arabo ad essere appellato come novello Hitler. È accaduto anche a Nasser e Saddam. Lasciamo perdere Saddam giustiziato sommariamente dopo un sommario processo. L'egiziano Nasser – il fuhrer arabo all'epoca della crisi di Suez – oggi viene menzionato nell'Enciclopedia Britannica come uno dei massimi leader del movimento dei non allineati: un grande della storia contemporanea.

Ma pensiamo un attimo a Gheddafi, da sempre accusato di essere il mandante di orribili stragi. Il colonnello, all'epoca della crisi in Iraq, in un timido tentativo di evitare l'esportazione di democrazia, fu interpellato dal nostro primo ministro per tentare di mediare tra Saddam Hussein e gli Stati Uniti. Come ci si può sentire a vivere in un mondo dove Hitler fino a otto anni fa era considerato alla stregua di Babbo Natale da tutto il mondo occidentale? Come ci può sentire, Cristosanto?

Ma no, siamo tutti libici. Ci mancherebbe altro. Andiamo tutti dritti per la strada di “libertà e giustizia”, come dice Obama (mamma mia che delusione, quest'uomo che nell'immaginario collettivo raffigurava la Democrazia).
Ma quale è la strada? Fatemela vedere almeno su un pezzo di carta. Per non parlare dei teorici, quelli che ne sfornano una giusto in tempo della messa in onda dei talk show.

Sono in contatto con una collega peruviana che abita a Londra. Si chiama Yesenia. Quando ci scriviamo via mail parliamo spesso di queste cose. Ieri mi ha mandato un tweet, c'era scritto: intoxicacion informativa. Avvelenamento delle informazioni. Che farà, ancora, altri morti...

giovedì 17 marzo 2011

Il significato delle parole



Ammetto di soffrire della “sindrome dello struzzo”. Me ne accorgo quando in Tv passano immagini angoscianti proprio mentre la forchetta colma di spaghetti sta per entrare nella bocca. Fino a qualche anno fa cambiavo canale (vigliacco fino al midollo), preferendo assistere alle performance di Enrico Papi (vigliacco e masochista, pure). Ora mi sono assuefatto, la prendo come una fiction preconfezionata, dove la realtà che scorre sul plasma è abilmente contraffatta per racimolare audience.

Le scene del Giappone in ginocchio scorrono davanti ai miei occhi e davanti a quelle di mia figlia, che aguzza lo sguardo e mi chiede perchè tutti quegli uomini ora sono poveri. La sua è una domanda precisa: mi chiede di spiegarle la povertà. La forchetta si è fermata a mezz'aria. E che ne so, io, della povertà? Che cosa ne sappiamo noi?

Potremmo mai un giorno diventare poveri? Abbiamo, noi occidentali, la più pallida idea di che cosa significhi “essere poveri”?
Vuol dire non avere abbastanza da mangiare o non avere il telefonino? Non avere una casa o non possedere una seconda casa per le vacanze? Non avere di che coprirsi o essere costretti ad indossare i vestiti dell'anno prima?
A turbare i nostri sonni, a rendere più ansioso il nostro futuro, è l'inquietudine del presente. Pur vivendo in una società fondata sui beni materiali non siamo riusciti a costruirci, in un secolo, uno straccio di “cultura materiale” che ci aiutasse a distinguere il necessario dal superfluo, l'utile dall'inutile. È per questo, del resto, che ci godiamo così poco l'allegro superfluo e l'insostituibile inutile: li confondiamo con il grigio necessario.

La concezione di ricchezza è relativa: ci sono persone che hanno dieci milioni, ma ne vorrebbero altri cento e altri ancora. C'è chi non dorme di notte perchè non riesce a comprarsi a rate l'ultimo Suv supeaccessoriato e molto adatto ai deserti. Esempi ce ne sono a migliaia. Quelli sono ricchi o poveri?

Se abbiamo della povertà un'idea così confusa, è perchè abbiamo frequentato malissimo la ricchezza...

martedì 15 marzo 2011

Slogan in bianco e nero




Da un po’ di tempo a questa parte si respira aria pesante nell’osteria di Brunin. Adelmo è in cassa integrazione. Nulla di irreparabile; Adelmo è un bravo lavorante. Una di quelle maestranze tanto reclamizzate, che sono il vanto delle industrie. Troverà presto una sistemazione. O forse, per lui, questa cassa integrazione rappresenta solo una status temporaneo: una sorta di ferie prolungate e obbligate. Ma non tutti sono nella sua condizione. Ciononostante, Adelmo, è scoraggiato. C’è crisi. Il suo (e il nostro) pensiero va alle generazioni più giovani. Brunin lo coccola a forza di bruschette e focacce calde. Passerà. Certo che passerà.

Ma il punto è un altro. Se un gruppo dirigente di una grande impresa colleziona sconfitte che cosa suggeriscono le famose regole di mercato e che cosa impone la cosiddetta “etica del capitalismo”? Di licenziare operai, oppure di attingere agli ammortizzatori sociali, andando a pietire da chi stringe i cordoni della borsa nazionale. Magari portando come “argomento forte”, le famiglie senza un’entrata. Non è un criterio molto fantasioso. Già visto. Già sentito. Già provato sulla pelle di migliaia di famiglie, soprattutto in questo periodo. E le aziende – meglio se grandi e con un grande debito – sono le uniche navi al mondo in cui il capitano non affonda mai assieme alla ciurma. Se è vero, come è vero, che gli uomini, nel mosaico aziendale, altro non sono che tessere di un inestricabile mosaico, perchè mai non dovrebbero esserle – e forse a maggior ragione – dirigenti, manager e membri del Cda? 

Non ho notizia di manager che si autolicenziano. Pensate che bella e storica figura farebbero i dirigenti se, un bel giorno, davanti a tutti i sindacati e a quello che resta della morale pubblica, un capoccia prendesse la parola e facesse un discorso che più o meno potrebbe suonare così: “Gli operai non si toccano: tremila erano e tremila saranno.  Ma i tagli ci devono essere e i primi della lista saremo noi dirigenti, veri responsabili della crisi”. Ma la vita non funziona esattamente così. E tra le macerie di tutte le aziende che si stanno sgretolando per mancanza di lungimiranza e per la pochezza di capacità innovative, si sente riecheggiare un volgarissimo slogan di sessantottina memoria: “Come mai, come mai, sempre nel culo agli operai”...

venerdì 11 marzo 2011

...il nostro pane quotidiano



A volte capita di fermarsi a mangiare da Brunin. Tutti noi, tutti insieme. Immancabile anche Carmelo il marocchino. Carmelo ha un rispetto assoluto per il cibo. Quasi una fede, una devozione. Adora il pane di Brunin; fragrante, aromatico. Il mio oste è un artista del pane. E della focaccia: quella bassa, unta in superficie come alla base. Croccante ma non secca, ben oliata ma non bisunta, soffice ma non pastosa, salata al punto giusto. Brunin la cosparge d’olio non appena uscita dal forno in modo da far assorbire l’olio solo nella crosta superficiale. Senza lasciarlo penetrare nel mezzo. Solo lui lo fa. Quando la mastichi, l’olio ti arrotonda il palato. Deliziosa. Al termine dello spuntino, capita che qualche tozzo di pane finisca nel cumulo destinato alla spazzatura (la focaccia, invariabilmente, termina in un tempo straordinariamente breve). Carmelo non lo tollera. Loro, per il pane, stanno facendo la guerra...

“È uno tsunami silenzioso”, ha detto Josette Sheeran, del Programma Alimentare Mondiale (Pam) delle Nazioni Unite. Lo disse nel 2008: quasi una profezia.
Un’ondata di aumenti dei prezzi dei generi alimentari sta attraversando tutto il mondo. Per la prima volta in trent’anni stanno scoppiando contemporaneamente in tanti paesi proteste per il cibo. Per il pane. Per la mera sopravvivenza. Per il bisogno primario dell’essere umano: mangiare.
Carestia significa denutrizione di massa. La crisi oggi è fatta di miseria e malnutrizione. I ceti medi dei paesi poveri rinunciano all’assistenza sanitaria e alla carne, per potere mangiare tre volte al giorno. Ma quelli che dispongono di un dollaro al giorno rinunciano a tutto per una scodella di riso. I disperati – quelli che non superano il mezzo dollaro al giorno – hanno davanti a sè la rovina. Il disastro. Ebbene, un miliardo di persone vive con un dollaro al giorno. Facendo una stima prudente, se il costo degli alimenti salisse del 20 per cento, cento milioni di persone potrebbero essere ridotte alla povertà assoluta. In alcuni paesi questo cancellerebbe i passi avanti compiuti nell’ultimo decennio nella riduzione della povertà. La crisi alimentare di questo periodo potrebbe costringere a mettere in discussione la globalizzazione.

Carmelo raccoglie il pezzo di pane e se lo mette nel borsello. Dice che sarebbe un insulto per il suo Paese. Se deve fare una cosa pensa al Marocco, al suo paese, briciola d'universo, sole feroce e polvere. Ringrazia tutti con la sua faccia spigolosa che sembra plasmata da uno scultore ubriaco. Poi apre la porta e se ne va. Silenziosamente. I veri poveri non fanno rumore...

martedì 8 marzo 2011

Storia di una donna sola



Adua è una ragazza madre. Che significa essere donna all’ennesima potenza. Vuol dire anche essere sola nel momento del bisogno. Sola anche quando servono i soldi per cercare di mettere in sesto un negozio che proprio non ce la fa a stare in piedi con le proprie gambe. Sola anche quando si deve cercare di aprire una porta chiusa a doppia mandata della banca. Sola contro tutti, come un’eroina dei fumetti.
Oddio, non proprio sola. Tiene per la mano Riccardo, otto anni di innocenza. Lo porta sempre appresso; anche quando deve andare dal direttore, un tipo belloccio, abbronzato e con una chilata di Rolex al polso. Forse ha qualche amante. Adua potrebbe rientrare in quella cerchia, in quel harem. Ma da tempo l’unica mano che stringe, l’unica fronte che bacia è quella di Riccardo. Sono davanti all’ufficio del direttore.
Io sono nella filiale per fare un’operazione per me difficilissima (un prelievo). Adua si tortura l’orlo della giacchetta. Ai piedi ha le scarpe buone, troppo lucide per non essere appena comprate. Aveva lo sguardo immobile di chi cercava qualcuno nella folla; sul viso, ha i lineamenti schiacciati dal peso della notte. Mi vede, mi sorride e mi saluta. Riccardo tiene lo sguardo fisso sul monitor del Nintendo; per lui l’unico problema, come è giusto che sia, è sconfiggere il mostro. Adua ha in mano un pacco di fogli: sono presumibilmente garanzie, atti di compravendite di lontanissimi terreni.

Nel dicembre del 1912, J.P. Morgan testimoniò davanti al congresso americano nel corso di un’inchiesta. Quando gli chiesero come decideva se concedere un prestito a qualcuno, lui rispose: “La prima cosa è la reputazione”. Chi lo interrogava insinuò che forse le garanzie erano più importanti, ma Morgan replicò: “Non farei un prestito ad una persona di cui non mi fido nemmeno con tutte le garanzie mondo”. La teoria di Morgan era semplice: i sistemi di credito si basano sulla fiducia. Se c’è la fiducia, il denaro viene prestato senza problemi e consente a nuove imprese di nascere, a quelle già esistenti di allargarsi e ammodernarsi e alle attività quotidiane di andare avanti.
Se invece la fiducia non c’è, ci ritroviamo in un mondo in cui chi dovrebbe concedere prestiti accumula capitale, chi vorrebbe avere un prestito resta a mani vuote e la ruota dell’economia si ferma. Cioè il mondo d’oggi.

Dopo aver terminato la mia operazione di alta finanza e aver sopportato l’impiegata che, mentre ero allo sportello, chiacchierava amabilmente sulla puntata del Grande Fratello con un’altra collega, mi avvio finalmente verso l’uscita. Adua sta varcando la soglia del direttore in uscita. Ha ancora in mano il faldone dei documenti che, evidentemente, a nulla sono serviti. Ha sulla bocca un sorriso pallido. Stringe forte la manina di Riccardo. Scarica in quella presa la tensione di dieci minuti di impazientiti rifiuti del direttore. Sono già le nove e la serranda è da aprire. Forza, piccola Adua, ragazza sola contro il mondo....

venerdì 4 marzo 2011

Quello che le donne non dicono


Da più di due mesi, l’osteria di Brunin sembrava il palco del circo Togni. Carmelo il marocchino si era prestato a mettersi in bilico su una sedia in modo tale da permettere all’antenna della radio di captare perfettamente le frequenze di Radio 24. Alle 11 va in onda La Zanzara e noi non ce la vogliamo perdere. Questo non per bullismo nei confronti di Carmelo: il fatto è che Carmelo è l’unico che riesce a restare in equilibrio precario per un tempo (per me) assolutamente record.
Per evitare questa prova degna di una giovanissima ginnasta dell’est europeo basterebbe un occhiello e una vite. Semplice. Tanto semplice che Adelmo un giorno ha lanciato una proposta: «Andiamo dal ferramenta», una frase detta con la solenne chiarezza che hanno i pensieri pensati per la prima volta. L’intervento ha avuto il potere di inquinare quell’aria di incrostata e irrimediabile normalità. Infatti abbiamo evitato questa ingombrante incombenza (il ferramenta dista dall’osteria ben cinquanta metri).

Ieri da Brunin è entrata Giusy, evidentemente impietosita dalla patetica scena di Carmelo-antenna. Aveva un sacchettino con una serie di occhielli di acciaio e relative viti. È andata a prendere una scala che era appoggiata ad una distanza mostruosa (oltre tre metri) e, agguantato il martello, ha costruito un perfetto crocchio con tanto di guaina porta-antenna.  Al termine della complicatissima operazione, Giusy è venuta da me e mi ha aggiustato il colletto della camicia, con un gesto colmo di pietà femminile. Prima di uscire ha pure svuotato il portacenere che stava esplodendo di cicche. Noi, naturalmente, siamo rimasti immobili ad ascoltare La Zanzara, davanti ad un vermentino e un piatto di bruschette al pesto. Così, romanticamente superficiali. In fondo, Giusy, che cosa aveva altro da fare?

Ore 7: sveglia, con relativo sussurro alla piccola Chiara di formule sperimentate nel tempo per tenerla tranquilla. In contemporanea, colazione pronta per Matteo, vent’anni suonati. Dopo aver accompagnata Chiara al pulmino e baciato Matteo sulla fronte. Si va al lavoro.
Ore 13: dopo una mattinata di lavoro, pronti a casa per preparare il pranzo. Nel frattempo che l’acqua bolle, si spazza, si rassetta, si fa una lavatrice e (di tacco, colpo da fuoriclasse) si rammenda un paio di pantaloni. Dopo aver sparecchiato e lavato i piatti, c’è la battaglia quotidiana con le stanze sconfitte dall’assedio tenace del disordine
Ore 14.30: pronta per il lavoro; truccata, lavata e profumata.
Ore 19.30: si abbassa, finalmente, la saracinesca del negozio. Capatina dai genitori anziani. Per rendersi utile, si da una pulitina al forno genitoriale.
Ore 20: preparazione della cena (cercando di cambiare ogni giorno menu: altrimenti arrivano le lamentele). Per fare un po’ di esercizio fisico, si attaccano due quadri, lasciati in un angolo del soggiorno da tempo immemore (sempre per la questione del ferramenta ad una distanza umanamente irraggiungibile).
Ore 23. A nanna, dopo aver lavato i denti a Chiara.

Finita La Zanzara, finalmente, Brunin ci prepara un piatto di pansoti in salsa di noci. In sottofondo una musica neutra: era Wish you were here dei Pink Floyd in una annacquata versione orchestrale. È uno di quei momenti toccanti, in cui la terra è così ben intonata agli uomini che sembra impossibile che tutti non siano felici. Appena dopo l’ultima forchettata entra Giusy che mi rivolge un sorriso totale, di biologica gratitudine.

Non mi ricordo chi aveva pronunciato questa frase, ma mi sento di sottoscriverla: Che cosa è un uomo? Un bimbo gonfio di età...

martedì 1 marzo 2011

Una brutta giornata


La scelta del prosciutto cotto al giorno d’oggi è cosa importante. Molto importante e, soprattutto, complicata.
Mi stavo appunto orientando tra speziati, affumicati, più o meno grassi, con polifosfati eccetera eccetera, quando la signora Amelia mi ha bussato alla spalla. «Ha sentito che brutta cosa?». In breve tempo al banco dei salumi (dove, modestamente, godo di un certo prestigio) si è formato un capannello. La “brutta cosa” era il ritrovamento del corpo di una bimba nel bergamasco. Mi chiedevano di dar un giudizio su questa brutta cosa. Ma non ho saputo dargli niente di più che una impotente allargata di braccia.

Tutto, da quel momento in poi, è stato brutto. Che brutto pomeriggio. Brutto abbastanza per finire in pioggia. Hanno trovato il corpo, “che brutto”, mi hanno ripetuto Adelmo e Carmelo il marocchino, Brunin, mia moglie, mia figlia di otto anni. Che brutto. Brutto per i genitori di quella povera ragazza, brutto per tutti noi.

Per andare a casa ho approfittato del lungomare; al tramonto cerco sempre l’ultima luce, la più bella. La più morbida, che colora il mare di verde e di turchino. Quella luce che riesce a colorare il mare della tinta dell’oro antico. Di solito mi fermo un attimo per prendere quella luce tutta per me. In lontananza si vedono le lampare dei gozzi. Nessuno. Solo io e la luce dorata. Qualche pescatore dilettante fa da corredo agli scogli, avanzi ignei di tempi incredibili. Nessuno. Qualche granchio che fatica a starsene tappato in casa, anche se la notte comincia ad avanzare. Nessuno. Qualche involucro di preservativo da poco prezzo. Nessuno. Di solito mi sta bene dividere il tramonto con loro, personaggi e suppellettili del mare d’inverno. Ma oggi è tutto brutto. Fastidiosamente brutto. Tutti personaggi di questo fermo immagine sono appiccicati da una colla triste.

Ho capito che quel tramonto non mi serviva a niente, che quello che avrei dovuto fare era tornare da dove ero venuto, portando con me un poco del peso di quella bruttura. E provare a fare qualche cosa. Come per esempio, pregare. Allora sono andato vicino ad una cappelletta, l’unica che conosco. Lo spazio angusto era occupato da una vecchietta. Senza bisogno di troppe parole, mi ha guardato e ha detto “che brutto, che brutta cosa”. Si è unito anche un muratore. Ha chiesto notizie. Si è appoggiato alla balaustra e ha appoggiato a terra il secchio della calcina. Ha chiesto da accendere. Abbiamo fumato una sigaretta assieme. Tutte e due appoggiati, come vagabondi esistenzialisti. Poteva essere una bella scena, ma tutto era brutto e spaventosamente monocromo.

Brutto è la parola giusta per reclamare l’inevitabilità di ciò che è successo, di un tempo che può essere molto, ma che non può essere la salvezza di una ragazzina. Brutto è come mi sento io, la signora che prega e il muratore che fuma. Brutto per le migliaia di persone che stanno ascoltando la radio, guardando la Tv navigando sulla Rete.
Forse la bellezza di quel tramonto era per lei, per la piccola Yara, anche se ha vissuto perchè non sapessimo niente di lei. Ma questo è un particolare secondario...