martedì 29 novembre 2011

Chi pagherà più tasse?




Tutta questa rivoluzione finanziaria, secondo gli economisti, va stoppata con una sola cura: far pagare più tasse. A ben vedere anche la ricetta del taumaturgo Monti, verte sull’andare a toccare il portafogli degli italiani. E così aspettiamoci – prima di tutto - due lief motif, due punti fermi, dei nostri governi passati, presenti e futuri: aumento di benzina e sigarette. Poi tutto il resto con calma (acqua, luce, autostrada ecc.ecc.). Geniali.
Ma anche questo limbo “tecnico” finirà e si arriverà al clima pre elettorale. Vedrete che qualcuno metterà al primo punto del suo programma l’abbassamento dell’esosità dell’erario. Vedrete.

D’altronde sono stati conquistati grandi regni senza colpo ferire con la storia di far pagare meno tasse (trovatemi un umano sano di mente che non arda dal desiderio di pagare meno imposte).
Per molti tra noi, pagare un po' meno tasse compendia l'impegno di tutta una vita. Dalla notte dei tempi si scontrano due contrapposte scuole di pensiero sul punto cardine, sulla questione principe: a chi far pagare meno tasse? Perché l'idea che nessuno le paghi non è utopia, ma puro delirio.

Prima scuola, la più in voga, la più arzilla, la vincente dai tempi di Nabucodonossor fino alla rivoluzione francese, insegna così: paghino meno i ricchi. Più i ricchi sono ricchi, più i poveri troveranno gran quantità di avanzi sotto le loro tavole. Ai poveri le briciole fanno buon pro, e se gli rimane un po' di appetito, meglio, che così non pensano ad altro che a cercar briciole e non hanno tempo per uggiosi pensieri. Nei tempi moderni, questa teoria viene enunciata con termini meno terra terra, ma la sostanza rimane: se i ricchi spendono tanto c'è bisogno di un mucchio di operai che fabbrichino le cose che loro comprano. L'occupazione aumenta e alla fine tutti vanno a star meglio. Naturalmente a sostenere questa teoria sono i ricchi e gli economisti e i governanti a loro vicini.

La seconda scuola dice così: facciamo pagare il meno possibile i poveracci e il ceto medio. In questo modo decine di milioni di cittadini, e non solo un pugno di privilegiati, potranno soddisfare i loro bisogni. Non potranno mai comperare auto di lusso o yacth, ma una quantità straordinaria di beni e di servizi utili e interessanti.
Saranno milioni di persone più felici e più sane, disposte all'ottimismo e a lavorare meglio e di più. Va detto che questa seconda scuola è assai più giovane della prima e assai meno potente oggi come oggi.

In verità fino a poco più di cento anni or sono, i poveri tendevano a risolvere la questione delle troppe tasse facendo, quando proprio non ce la facevano più, una rivoluzione. Spesso gli andava male, qualche volta invece bene, ma alla fine hanno considerato che mettere su una scuola di pensiero e provare a farla primeggiare era senz'altro più economico e soddisfacente di un putiferio dagli esiti a dir poco nebulosi.

Il vero banco di prova per il governo Monti sarà proprio questo: applicherà la prima o la seconda teoria?
Io penso di avere la risposta, ma non ve la dico...

domenica 27 novembre 2011

Le illusioni del signor B.



L'oramai rattristante onorevole Silvio Berlusconi è andato a far visita al suo sodale Carlo “Volatile” Giovanardi per inaugurare una nuova campagna elettorale. Prende la parola tra il tripudio generale – un centinaio di persone -. Dice che l'opposizione non è ancora pronta (e qui è difficile dargli torto), poi si scaglia contro il comunismo imperante nel Paese (qualcuno chiami il 118). Ma l'uomo vuole strafare, come al solito, e dice che i valori del suo partito di plastica sono quelli più vicini alla famiglia, in senso cristiano. A questo punto occorrerebbe dirgli che su quel argomento è meglio rimanere “schisci” come dicono a Milano (stare calmi, quatti, fermini e buonini), visti i processi che sono in corso per le sue pruriginosità in campo femminile. Che non è esattamente un dogma cristiano.

Sarebbe troppo facile fargli notare questo.

Ma in fondo perchè incrudelirsi contro quest'uomo? Chiede solo di abbandonare la scena politica convinto di essere vittima di un complotto, di un'ignobile congiura messa in atto da tutte le forze mondiali.
Che cosa ci costa dopo tutto rendere meno amara la sua catastrofe politica lasciandolo alle sue illusioni? Pensate, è pure convinto che i suoi amici leghisti siano tutt'oggi solidi alleati. Non togliamogli anche queste ultime, infantili, illusioni. Perchè dire ai bambini che Babbo Natale non esiste e che i neonati non sono traghettati al mondo da una cicogna?

Chi di noi, poi, non si è mai consolato delle proprie debolezze accusando, in cuor suo, la malvagità del mondo?

Io, per esempio, sono convinto che l'autunno arrivi puntalmente ogni anno soltanto per acuire i miei problemi all'apparato dentale e per indolenzire il mio braccio destro, proibendomi così di giocare a tennis.

Certo, ne sono fermanente convinto.
Ma mica lo vado a dire su un palco...

venerdì 25 novembre 2011

La mia Maestra




Trotterellava frettolosamente per le vie del paese. I manici della borsa della spesa le asserragliavano le dita, fino a farle diventare esangui. Guardava poco in giro; lo sguardo era fisso davanti a sè. Fiero. Appena mi vedeva mi sorrideva e mi sbatteva davanti – ancor prima del saluto – i miei (tanti) errori dell’ultimo articolo che avevo scritto. Lei era una mia lettrice indefessa. Non ha mai smesso di essere la mia Maestra delle elementari. “Io non ti ho insegnato così. Vergogna!”. Poi mi dava uno buffetto sulla guancia e tornava a occuparsi di vivande per figli e nipoti.

La mia Maestra era una sostenitrice del lavoro “a regola d’arte”, parlo del suo lavoro che io conosco bene da quarant’anni. Una Maestra è tale per tutta la sua vita, almeno quelle di una volta.

Io e i miei articoli siamo siamo orgogliosi di essere diventati, maldestramente, colleghi suoi. Quelli che la mattina si alzano per lavorare, quelli che credono, anacronisticamente, stolidamente, che scrivere sui giornali non sia una concessione divina al furore creativo del genio, né un polimero semilavorato da mettere in mano all’allegra brigata dell’ufficio marketing, ma un duro, onesto lavoro, da eseguire a “regola d’arte”. Per rispetto a se stessi e alla spettabile clientela dei lettori. Questo me lo ha fatto capire lei. Con l’aggiunta che voleva bene a me e voleva bene alla mia storia, con il di più che ci volevamo bene.

Una Maestra non ha bisogno di giustificazioni, non ci sono ragioni per la sua venuta, men che meno per il suo volerti bene. E tu che devi fare? Niente; assistere allo spettacolo, ridere, sbuffare e godertela. E disperare che si stanchi, che lasci la presa da quello che inutilmente pensavi fosse lontano dalla portata della sua matitina.

A tutti dovrebbe toccare la grazia di una Maestra da essere badati.
Per giocare, per lasciare un giusto spazio ai propri difetti, alla scrittura (la mia, in particolare) un po’ troppo bizzarra. Per ricordarmi ogni volta che il suo duro, onesto lavoro, concerneva il farmi un mazzo così per ogni mio vezzo e errorino. Perchè per me era questione di diventare un giornalista decente senza soffrire troppo e tutto insieme.

In fondo a questa storia, in due righette le dico grazie, ora che non c’è più. Queste due righe le ho sottratte alla sua lettura di Maestra. Me le avrebbe corrette e io non avrei voluto...

giovedì 24 novembre 2011

L'ultimo sondaggio




Siamo accerchiati. Ci hanno tolto anche l’ultimo baluardo: l’idea. Di più: l’opinione, il de gustibus.
Oramai tutte le nostre scelte sono orientate dai sondaggi. Dalla politica alla pizzeria, dallo sport all’abbigliamento fino ad arrivare ai nostri gusti nella pratica sessuale. Tutto. Ma in qualche parte del mondo un sondaggio ci avverte che i sondaggiati si sono rotti le scatole e non rispondono ai sondaggianti. È la rivolta dell’uomo demoscopico, ovvero colui che regge la bussola dell’offerta commerciale e politica.

L’aumento dell’indice di insondabilità mi fa felice: questo genere petulante e sommario di indagine ha il peccato originale di orientare le risposte. O, peggio, di formulare domande la cui asciuttezza esclude di per sè la possibilità di formulare risposte intelligenti e articolate (e soprattutto cancella il dubbio, sale della sapienza).
Ma la mia felicità riguardo alla rivolta dei sondaggiati è bruscamente frenata: pare che l’indifferenza degli interpellati diminuisca in cambio di un piccolo omaggio. I sondaggiati, insomma, ambiscono allo status di semiprofessionisti. Un piccolo esercito prezzolato, efficiente e sempre disponibile, al posto della indisciplinata truppa fin qui adottata.

Un drappello di cavie parlanti che hanno il compito di rappresentare arbitrariamente le nostre opinioni e i nostri gusti.

Resto dell’idea che la sola difesa efficace sarebbe il sabotaggio attivo: dichiarare sistematicamente il falso.
Il comunista si dica fan di Hitler, il calvo consumatore di shampoo.
La donna morigerata si finga partecipante attiva alle orge, chi odia i felini denunci sette gatti. I tesserati di vecchi circoli del Pci dichiarino di votare Berlusconi e i berluscones simulino odio per gli spot, ville in Sardegna e donne.

Non servirà a nulla certo; ma vuoi mettere la soddisfazione personale di mentire al Grande Burattinaio?
D’altronde nemmeno il più abile degli hacker riesce a mettere in ginocchio l’affidabilità dell’intero sistema.

Aspetto da anni che qualcuno mi inserisca nel suo campione per dirgli che il mio politico preferito è Scilipoti, che guardo solo il Tg4, gioco tutti i giorni a freccette, mangio solo filetti di sogliola ancora surgelati e la mia città preferita è Isernia.

Purtroppo nessuno mi chiede mai nulla.
Devono avermi già identificato...

lunedì 21 novembre 2011

Rai Fuori Onda



Due sono le cose che mi hanno accompagnato nel corso degli anni. Due “strumenti” che fanno sì che ogni giornata della mia vita abbia avuto un gusto e una colonna sonora.
La prima è la sigaretta: la Silk Cut a Londra, la Belmond in Sudamerica, la Gitane a Parigi. La Ms fumata sino al filtro della mia adolescenza. Poi le lente volute di fumo della mia pipa Peterson che addolciva la stanza con il suo aroma Vanilla. Mai il sigaro: troppo prepotente il suo gusto. Troppo aggressivo.
Ora sono le sigarette artigianali, con il tipo di tabacco che cambia a seconda della stagione e dell'umore. Un vizio, certo. Ma anche una compagnia unica, per un'esistenza come la mia spesso contraddistinta da grosse polle di solitudine.

L'altra è la radio. Quella scatola meravigliosa che ti lascia libero di pensare. Niente a che vedere con la Tv, strumento despota, assolutamente vicario. Ascolto radio al lavoro, in macchina, quando mi corico a letto, quando mi sveglio. Sempre. Ho un vezzo, probabilmente portato dall'età: ho la predilezione per le onde medie. Specie di notte: musiche e lingue sconosciute, accenti diversi, aromi strani. Brusii, strascichii, scricchiolii. Suoni feltrati.
E le reti Rai.

Ma da anni, oramai, Radio Due e Radio Tre sono state cassate dalle onde medie. È un piccolo grande scandalo che lascia interdetti per la pacifica indifferenza nella quale il doloroso stralcio è avvenuto. Il pretesto è di natura legale: ma viene anche da sorridere se si pensa in che modo il settore delle telecomunicazioni vada avanti in barba a tutte le leggi (vedi Rete 4).

Di fatto il black out delle reti radioniche nazionali sulle onde medie, tradizionale ritrovo degli ascoltatori di lunga data come il sottoscritto, va ad aggravare una situazione già pessima. Infatti anche la modulazione di frequenza è soffocata da una pletora di radioline locali che spesso la oscurano. Per ascoltare in modo accettabile “Tutto il calcio minuto per minuto” occorre avere un polso degno di un giocatore di Shangai, tanto è difficile indovinarne la frequenza giusta.

A fronte di quattro o cinque network privati degni di questo nome, la maggior parte dei segnali che disturbano il servizio pubblico sono petulanti contenitori di pubblicità locale e musicaccia scadente. Per non parlare di Onda Verde, strumento quantomai prezioso per chi guida, che su molte autostrade si trasforma in un flebile gracchio.
Di contro i rosari e le invettive di Padre Livio su Radio Maria sono perfettamente udibili anche sulle mulattiere.

Pensare che questo depotenziamento di Radio Rai sia doloso è probabilmente sbagliato. Ma è sacrosanto protestare ad alta voce (almeno quanto Padre Livio).

Sempre che le voci degli affezionati di Radio Rai abbiano ancora un ripetitore disposto a farle parlare...

giovedì 17 novembre 2011

Malati di bipolarismo



C’è nebbia. Come pure ieri e ieri l’altro. La settimana scorsa c’era un vento assassino e un freddo glaciale. Per non parlare della pioggia, che ha flagellato dall’inizio del mese un paesaggio inerme. Abbiamo tirato fuori dalla naftalina i guanti di pelo e la cuffia da barca. 

Guardo dalla finestra e il paesaggio è sepolto da una bruma inquieta; mi specchio e il vetro mi rimanda il viso di una persona triste e sfiduciata. Mi metto al lavoro in preda ad un insopportabile mal di stomaco; ho anche un sottile mal di denti da una settimana. Beh, allora? C'è una qualche notizia in tutto questo, una qualche rimarcabile singolarità? No, nemmeno l'ombra.

La mia quota di ragionevolezza mi spiega che esistono le stagioni e i tempi; c’è il caldo e c'è il freddo, la pioggia e il sole, e ogni altra cosa come dev'essere nella vita e nell'universo. Mi dice la ragione che la cosa più stupida che un uomo possa fare è dolersi dell'ovvio. Ma tutto il resto di me non ne vuole sapere di ragioni e nel cuore dell'autunno vuole sole smagliante e splendida forma. Come fosse naturale vivere una vita dove tutti i giorni è domenica.

Non varrebbe neanche la pena di parlarne se non fosse che so di non essere solo in questo delirio. I miei più stimati amici invocano un'accelerazione dell'effetto serra, dell'eterna, malata estate di cui fino a due mesi fa si lamentavano come dell'estrema maledizione del genere umano.
Sono sicuro che se in questi giorni indicessi un referendum, la stragrande maggioranza della popolazione voterebbe a favore della desertificazione del globo. Se avessi il coraggio di guardare tutto questo da una prospettiva oggettiva, non potrei che constatare di vivere in una realtà abitata da una folla di bambini fragili ed emotivi, capricciosi e irragionevoli. Io tra loro.

Credo modestamente che questo sia il sintomo - e non è l'unico - di una malattia; non un malessere, ma una malattia vera e propria. Non abbiamo più il termostato, per così dire. Si è rotto l'interruttore che regola la temperatura delle nostre emozioni. O abbiamo troppo caldo o troppo freddo, o siamo troppo asciutti o troppo bagnati, o troppo docili o troppo riottosi. Intolleranti verso tutto perché eternamente a disagio con la fatica di sopportare noi stessi.

Questa malattia ha un nome: bipolarismo. No, non quello parlamentare, ma quello dell'anima. È studiata e curata con terapie chimiche e di sostegno psicologico.

Tutto questo solo perché piove? Rifletteteci un poco e constaterete quanti e quali sintomi potete raccogliere a suffragio della mia ardita teoria...

martedì 15 novembre 2011

Tutta colpa del pesce palla




Perchè non mi sono mosso prima? Perchè non mi sono incatenato davanti al Quirinale un paio di anni fa? Certamente la foto avrebbe fatto il giro del mondo, come quella dello studente di piazza Tiananmen e qualcuno di molto più importante di me si sarebbe mosso. E invece no, ho lasciato che tutto andasse a rotoli, ho lasciato che gli italiani imparassero termini come spread, default, Standard & Poor’s.

Mi chiedo dov’è stata per tutto questo tempo la parte non berlusconizzata del paese. Che fine hanno fatto i sindacati, i cattolici che si definiscono “democratici”.
E poi, dove si sono nascosti i parroci. Il Partito Democratico, i girotondini. E Mario Segni, che ha rotto le scatole a tutti per i referendum sulla foca monaca, in quale magione ha passato gli ultimi anni?

Perchè, poi, gli studenti dell’Onda hanno manifestato solo a macchia di leopardo al posto di occupare stabilmente tutte le piazze di tutte le città? Perchè? Perchè siamo voluti tornare indietro di cinquant’anni?

Ma non voglio puntare il dito contro entità astratte, contro sigle incomprensibili.
Mi chiedo che cosa ci faccio io qui a battere sulla testiera del computer al posto di incatenarmi davanti alla Banca d’Italia.

Tutte queste domande di pietra hanno una risposta. E il colpevole è Brunin, il mio oste. È stato lui. È colpa sua, quando mi chiama per farmi fare da cavia per le sue nuove specialità di pesce. Non mi dice nemmeno il nome del “pescato fresco” che mi propina. Lui è un un talento unico tra i fornelli. E io mi fido. Ma ho sbagliato. Mi ha propinato il pesce palla. Ne sono sicuro. Non c’è altra soluzione al dilemma della mia accidia. Il pesce palla è una prelibatezza, dicono. Che però può essere anche mortale. Perchè contiene tetradotossina, un veleno più potente del cianuro.

La tetradotossina funziona così: non si riesce più a parlare, poi si resta paralizzati, eppure perfettamente coscienti.

Esattamente quello che è capitato a me e a milioni di altri italiani.
La somministrazione del pesce palla sembra essere molto diffusa...

domenica 13 novembre 2011

I delfini e l'arte della sopravvivenza



Sono andato a vedere i delfini. Qualche tempo fa, assieme a Giusy e Chiara. Vicino a Lavagna c'e un grosso delfinario; così si chiamano le piscine che ospitano questi mammiferi. Non sono pesci qualunque, i delfini. Si capisce da come i bambini li guardano e parlano sottovoce con i loro. C'è un flusso di comprensione fisica tra di loro. Parlano un alfabeto a noi - uomini e adulti – sconosciuto.
E quando c'è qualcosa che mi sfugge, il mio istinto mi dice che c'è la fregatura in agguato.
Approfonditi studi ci spiegano che, nella notte dei tempi, delfini e homo sapiens si disputarono il primato “intelligente” del mondo. Al termine della tenzone, il giudizio è stato inequivocabile: i delfini sono gli animali più intelligenti del creato. Intendo tutti gli animali, me compreso. E voi, se mi permettete l'audacia. Sono talmente intelligenti che a un certo punto della loro evoluzione, avrebbero potuto giocarsi il dominio del Terra proprio con noi. Ma loro, i delfini dico, hanno scelto qualcos'altro; se ne sono restati in acqua a pensare a chissà che.

Pensano, e mangiano, e sonnecchiano, e fanno l'amore, e giocano. Nient'altro. Di tutto il resto non sanno che farsene. E il resto è tutto ciò che invece noi abbiamo voluto imparare a fare. I delfini sono gli animali che lavorano di meno in assoluto; dedicano meno tempo di qualunque altro essere vivente superiore ad attività utilitaristiche, azioni volte a scopi pratici. Meno persino dei felini, che ci sembra passino la vita a sonnecchiare. Penso a tutte le volte che vengo redarguito da Giusy perchè passo le domeniche spalmato sul divano a guardare le partite di calcio e capisco quanto la mia indole sia portata più verso il delfino che verso qualunque altro essere vivente.

Guardo i delfini che sorridono eternamente e mi sorge dal profondo una domanda cretina.
Quanto è più intelligente dei delfini l'homo sapiens sapiens, la specie dominante che sta lavorando alacremente giorno e notte con l'unico scopo visibile di distruggere ogni cosa sulla Terra, a partire da se stessa?
Qualcuno sa rispondere? Gli studiosi si limitano a constatare che i delfini hanno fatto una scelta e gli uomini un'altra. Non parlano di scelte giuste o sbagliate, dicono solo che è andata così, e né loro né noi possiamo più cambiare strada.

Ma guardo mia figlia che parla con i delfini e non so cosa darei per sapere quello che si stanno dicendo. Cosa ci tengono nascosto dei loro segreti. Intanto constato che ho dovuto lavorare anche per pagare il biglietto che mi permette di stare a guardare una coppia di delfini che mi sbatte in faccia il suo totale disinteresse per il mio faticare.

Ecco la fregatura... 

giovedì 10 novembre 2011

Una vecchia cartolina da Parma




Giacomo è nato in via Gulli, dalle parti di piazza Matteotti. Giocava nel cortile, a volte a calcio, a volte a baseball. C’era la latteria che vendeva anche le sigarette, il bar che vendeva anche la spuma al ginger: i gelati della Tanara, quelli li vendevano tutti. Lì vicino c’era anche il bar dei grandi, dove era proibito entrare. Tutti fumavano a parlavano di calcio. Si chiamava Kappadue, e teneva banco un signore con i capelli ricci, già impolverati di bianco. Si chiamava Mora. Bruno Mora. Vestiva sempre bene e portava anche il loden, quello verde e con la piega lunga: piccoli particolari che a Parma si era inclini a chiamare lussi. Ma quel signore parlava e parlava

C’era anche un signore che camminava per la strada e salutava tutti, ma proprio tutti. La gente che era in strada appena lo incontrava si dava di gomito. Indossava scarpe dalla suola alta, per non sentire i marciapiedi della vita. I suoi occhi erano due cose azzurre piene di timidezza; uno sguardo lungo, senza appoggi orizzontali; riusciva a formulare pensieri senza dare loro voce. I suoi amici si fermavano e gli offrivano da fumare. E lui accettava: in realtà non è che i poveri fumino oppure no; fumano quando glielo offrono. Era muto e si chiamava Athos. Ma aveva trovato un altro modo di comunicare. E lui parlava e parlava.

C’era anche Missio, un bambino tutta cricla e vivacità. Ad eccezione degli amici di via Gulli, non era mai stato importante per nessuno, come una elevatissima percentuale della popolazione terrestre. Quel gruppetto rimaneva lì fino a che i lampioni disegnavano pozzanghere di luce. Lui parlava, chiassoso e ansioso di rendersi simpatico. Gli altri respiravano lenti, assorbendo solo le sensazioni del luogo e del momento. Poi l’incantesimo era rotto dal fado parmigiano delle madri che chiamavano i figli. Ma lui restava lì nella luce medioevale dell’autunno padano. E parlava e parlava.

Poi c’era quello che non si fermava mai e parlava sempre con un voce carica di fretta. Aveva lo sguardo frenetico di chi cerca qualcuno nella folla. Portava sempre il cappello a falda larga e aveva imprigionata nelle dita una cartella di pelle consunta. I ragazzi della via Gulli lo seguivano sin che imboccava via Imbriani, paletto topografico della vita senza adulti. Parlava di quello che succedeva dall’altra parte dell’Oltretorrente. Sembrava un nobile decaduto, problematico erede di qualche impero scomparso. Il tremolio della sua voce da settantenne era un fragile strumento a fiato che suonava melodie sconosciute ai ragazzi. Lui camminava e parlava. Camminava e parlava.

Parma era una città che assomigliava ad un vecchio seduto che racconta le fiabe ai bimbi. Era tutto vago e senza contorni come un film di dilettanti girato con una telecamera difettosa, dove non si distinguevano bene le facce e le voci erano confuse. Alle spalle dei ragazzi di via Gulli, man mano che gli anni passavano, quel vecchio andava scomparendo in quel modo netto e definitivo che hanno solo le cose amate.

Ora Parma si è alzata a vista d’occhio - la città verticale dicono gli amministratori – come se avesse ingerito una enorme pillola di Viagra. Si è alzato anche il vecchio che si stufato di raccontare delle fiabe a chi non lo sta più a sentire. I ragazzi della via Gulli sono tutti incravattati: le loro menti, con il loro bagaglio di pazzia, hanno preso strade diverse, lontane da via Gulli. Qualcuno ha sciupato il frammento di sogno portato in giro con precauzione, come un pezzo di porcellana  custodito dai personaggi della Parma che fu. I ragazzi sono rimasti soli.

Nessuno ora parla più...

mercoledì 9 novembre 2011

La collera degli dei




Angeli del fango e melma dappertutto. Questo è lo scenario che si presenta a chi abbia l’idea di andare a Genova in questi giorni. Qua e là qualche telecamera (imponente il lavoro fatto questa settimana dai media e da l’emittente Primocanale in particolare). I curiosi sono radi e guardati in tralice da tutti; si possono riconoscere dalle scarpe linde e dalla macchina fotografica a tracolla.
Può sembrare strano ma l’espressione facciale più gettonata in questi giorni è il sorriso. Genova guarda all’alluvione con fierezza, come a dire “guarda che non ci metti in ginocchio”. Testa alta, pala in mano e pedalare.
Una donna un po’ in là con gli anni, all’angolo della strada, scrolla la testa e dice: “È il Cielo che ci punisce”. E questo mi ha fatto incazzare. E non poco.

Un po’ tutta la Liguria è stata attraversata da fenomeni mai visti, almeno con quella intensità. Mareggiate, esondazioni, bombe d’acqua. Monsoni. Se è vero, come annunciato tristemente, che questo sarà il ventennio delle catastrofi e del cortocircuito dell’ecosistema, mi preoccupa assai il prevedibile aumento delle interpretazioni parareligiose, apocalittiche e penitenziali. Esattamente come avvenne per l’Aids.

Quando ci sarà maggior bisogno di saggezza, la strizza (come avvenne all’alba dei secoli) farà straparlare ogni genere di santoni e pirla. Quando ci sarà estremo bisogno di saggezza condita con un po’ di igiene mentale, saranno purtroppo le scorciatoie irrazionali ad avere più seguito. Questo perchè “spiegano” dozzinalmente, consolano e ci mettono a posto con la coscienza. Che ne possiamo noi, se gli Dei si sono inalberati. 

Ma la collera degli dei, ha la pessima abitudine di colpire a casaccio. Non è che incenerisca solo gli avidi o gli stronzi o i criminali delle ecomafie o il potente di turno che se ne infischia delle emissioni nell’atmosfera. O chi semplicemente insozza il selcio per il gusto di farlo.
Manda all’altro mondo anche centinaia di innocenti. Toglie la casa a chi diligentemente fa la differenziata. Mette sul lastrico migliaia di agricoltori che venerano la Terra.

Preferirei, dunque, un altro genere di spiegazioni che possibilmente non implichino lo sterminio come inevitabile morale della favola. Un poco più di scienza mi basterebbe. Magari per una volta qualche indagine approfondita che riesca anche ad individuare un nome terreno, con tanto di carta di identità.
Senza andare a prenderne in prestito uno dal regno dei cieli...

domenica 6 novembre 2011

Le donne di Genova



Assai più dei loro uomini, le donne di Genova hanno fatto parlare di sé nel corso dei secoli. Hanno fatto innamorare una marea di forestieri e ne hanno fatto disperare in egual misura. Montesquieu si è spinto a giurare che fossero le più belle e le più fiere d’Europa.
Le donne di Genova. Che non vuol dire essere nate a Genova. Vuol dire transitare e sostare per un tempo abbastanza lungo sotto la Lanterna per essere plasmate indelebilmente dall'aurea femminea genovese.

Sei di loro hanno pagato il prezzo più alto dall'alluvione di venerdì. Non penso che sia un caso che il sangue che macchia l'acqua dei fiumi straripati appartenga a donne, a donne di Genova. Hanno sfidato l'onda di piena, hanno guardato in tralice il fango che veniva giù per le strade un secondo di troppo.

La strage di Genova è tutta una faccenda di donne. Anche il sindaco è donna, donna di Genova. Penso che quelle morti le abbiano appesantito l'anima in maniera insopportabile. Ha fatto apparizioni in tutte le Tv. Ci ha messo la faccia. Non è da tutti.
Ciò non può togliere le immense colpe che ha nell'aver sottovalutato la situazione (“una tragedia imprevedibile”, ha commentato a caldo, scordando che l'allerta c'era da più di una settimana).

Ma non è di questo che voglio parlare. Voglio parlare di storie di donne, donne di Genova. Come quella che riguarda Anna, una donna che abita in Borgo Incrociati a pochi passi dal torrente Bisagno. Appena dopo l'esondazione ha lasciato il posto di lavoro e se ne è andata verso il suo focolare in pericolo. Sfidando l'acqua e il fango. Tenendosi per mano con altre donne che andavano a difendere con i denti la propria casa. È arrivata quasi a nuoto con la poltiglia che le impediva i movimenti. Non è neppure salita in casa e si è messa subito a spalare il fango, ha dato il suo aiuto ad altre persone che combattevano con la corrente.

Queste sono le donne di Genova; sono le stesse che chiedono giustizia per altre donne di Genova. E lo fanno con quello sguardo che non ti dà scampo. Con la stessa cristallina fermezza che hanno negli occhi quando guardano i cartellini dei prezzi di un besagnino di Castelletto; le guardi di sottecchi e non vorresti essere nei panni del promotore finanziario che ha osato provarci a tirarle il pacco.

Come puoi non amarle, le donne di Genova? Avremmo potuto amare anche quelle donne che la piena ha portato via. E mi chiedo se quel sangue gridi vendetta per questa città e se questa città abbia mai chiesto vendetta.
Oppure si aspetti solo giustizia...

venerdì 4 novembre 2011

Il teatro della vita




Franco è fatto così. Ogniqualvolta si parla di sport lui prende e se ne va. Anche se nell’osteria si parla di freccette. Per non parlare poi del calcio: in questo caso sbatte la porta e ci vomita addosso qualche cosa di orribilmente malaugurante. Io per Franco non provo rabbia, ma pietas. Mi spiace che si privi di sentimenti tanto profondi che solo i drammi e i trionfi dello sport ti possono innescare.

Le prime lacrime le ho versate alla notizia che Roberto Bettega poteva finire anzitempo la carriera a causa di una polmonite. Era il 1972.
L’anno seguente sentivo la perdita di Renzo Pasolini e Jarno Saarinen come un lutto difficilmente elaborabile. Le immagini di Monza continuavano a frullarmi nella testa. 
Ancora adesso mi riesce difficile guardare le immagini del Capitano Gianluca Signorini, bello come il sole nel prato del Ferraris.

Ma lo sport è anche poesia. 
Come quella di Marco Pantani che si toglieva la bandana all’inizio della salita e si arrampicava con il turbo. E poi i pugni di Mike Tyson, la danza sul ring di Sugar Ray Leonard. L’imprendibile Pietro Mennea. La potenza di Alberto Tomba. E poi l’uomo che ha sconfitto la gravità, Michael Jordan. Un teatro incessante della vita, un turbinio di emozioni

Ma è inutile parlare con Franco. Un muro di gomma. L’altro giorno, però, pensavo di aver trovato il grimaldello giusto per fare breccia nella sua apatia. Era la scena di un giocatore di calcio della seconda serie inglese. Dopo un gol da antologia si toglie la maglia da gioco e mostra a tutti una maglietta con su impresso il viso di sua figlia, morta a due anni. Metaforizzando è l’agnizione finale delle tragedie dell’antica Roma, quando l’attore alla fine della rappresentazione, si toglie la maschera e mostra a tutti il vero volto (l’ho messa un po’ sul sofisticato, non si sa mai).
Glielo ho detto, a Franco. Laconica la sua risposta: “Ogni giorno decine di bambini muoiono di fame e di malattie banali”.

Eravamo seduti intorno al tavolo da Brunin. 
L’ho guardato e mi è sorta spontanea una frase: “Franco... ma vaffanculo và”...

mercoledì 2 novembre 2011

Scusate l'interruzione




“Perchè non proviamo a parlare uno alla volta?”. Non è una frase pronunciata da una maestra e riportatami da mia figlia reduce da una giornata turbolenta a scuola (frequenta la quarta elementare). È un suggerimento lanciato da Maurizio Lupi nel corso della trasmissione Ballarò.

La proposta, sia nel tono che nel contenuto, aveva in sè qualcosa di struggente e solenne, come la grandi utopie, che fanno sognare proprio perchè irrealizzabili.

Io, cavia tra le cavie di telespettatori, ero letteralmente stremato dal tentativo di riuscire a capire e metabolizzare almeno un concetto riguardo a quello che stavano dibattendo quella pletora di cafoni.

E invece mi sono ridotto a fare il ping pong tra un urlo e l’altro. Il ministro Anna Maria  Bernini interrompeva Francesco Rutelli, Rutelli interrompeva Antonio Di Pietro. Il conduttore Floris interrompeva tutti chiedendo di non interrompere (intanto passava davanti alla telecamera aumentando il caos universale).

L’unica interruzione che ho gradito è stata quando Di Pietro è stato interrotto da Floris perchè seguitava a interrompere il giornalista Pierluigi Battista, chiamandolo Battisti (Lucio, il poeta con la chitarra? Cesare, il patriota irredentista?).

Fatto sta che l’ingenua sortita di Lupi mi ha sinceramente commosso, per l’ingenua ragionevolezza che l’animava  e per il clima elegante e pensoso, quasi aristocratico, che evoca l’idea, davvero bizzarra, che mentre uno parla l’altro lo ascolti.

Ho una proposta la lanciare. Anni e anni di tecnologia forse mi possono aiutare. Vorrei che una mano pietosa abbassi il volume – fino ad azzerarlo – di tutti quelli che in quel momento non hanno la parola. In  modo tale che il cafone di turno possa anche urlare, strepitare, fare i rutti, lanciare i petardi e nessuno possa accorgersene. In questo modo il concetto che ha fatto da incipit per questo post (parlare uno alla volta) possa diventare fredda realtà.

È solo un consiglio. Un buon consiglio che nessuno però metterà in pratica... 

martedì 1 novembre 2011

Evaporati



Social network e e-mail sono una gran cosa. Soprattutto se uno ne fa un uso corretto.

Per quanto mi riguarda, questi due strumenti mi permettono di restare in contatto con i vari amici che ho disseminato nel mondo. Cosa altrimenti impossibile se non con un esborso insostenibile di denari.

Con Yesenia, infatti, riusciamo a scambiare due chiacchiere – si chiamano chat, ma questo vocabolo non mi entusiasma – almeno una volta al mese.
Lei, che è tecnologicamente molto più avanzata di me, chatta pressochè quotidianamente con tutto il globo.

Io e lei abbiamo molti amici in comune. Uno, da un po' di tempo a questa parte, latita.
Si chiama Yoko ed è giapponese. Studiava assieme a me e a Yesenia a Londra, nel quartiere di Ealing Braoadway.

Tutto quello che noi sappiamo di Yoko è:
a) è un imprenditore;
b) aveva un discreto numero di dipendenti;
c) le cose andavano maluccio.

Yoko è scomparso, non risponde più alle e-mail e la sua bacheca di Fb non è aggiornata da tempo (circa tre mesi).

Nell'ultima mail, Yesenia, ha lanciato una ipotesi che mi ha lasciato basito: mi ha scritto che forse Yoko “is evaporated”, è evaporato.
Prima ho riso, poi ho sorriso. Infine mi sono fatto serio e mi sono informato.

In Giappone, gli evaporati esistono davvero. Sono manager, imprenditori, politici che, una volta fallito nella propria professione, scompaiono. Letteralmente. Senz'altro influisce la vergogna, ma il sentimento che spinge i giapponesi ad evaporare è la dignità.
Mollano tutto e si ritirano in luoghi che a nessuno è permesso conoscere. Vivono in mezzo ai boschi, asceticamente, sfamandosi con bacche e con prodotti che loro stessi coltivano. Si tolgono di mezzo da una società che non sono riusciti a servire secondo i canoni che si sono dati.
Nemmeno una Sciarelli qualsiasi a rompergli le palle.
Sono nate anche delle agenzie ad hoc che aiutano gli “aspiranti evaporati” nella loro nobile operazione.

E allora mi rendo conto della siderale distanza che esiste tra l'Italia e il resto del mondo.

In Inghilterra un deputato si è dimesso perchè trovato a marmellare qualche sterlina nella nota spese.
In Usa un politico è stato costretto a mollare tutto perchè in rete circolava un suo video a torso nudo.
Qualche anno fa gli australiani sono andati alle urne e hanno cambiato il governo di destra con uno di sinistra. Lo hanno fatto dopo che il passato governo aveva abbattuto le tasse per un valore di 36 miliardi di dollari, in un momento di grande sviluppo economico, con l'occupazione ai massimi storici; dopo che quel governo aveva levato di torno tutti gli immigrati clandestini, ributtandoli a mare e ficcandoli in campi di concentramento nel deserto, esattamente come nei nostri sogni più arditi. I giornali australiani dicono che i cittadini hanno invece maturato coscienza che il passato governo non sapeva affrontare correttamente, almeno a loro giudizio, una proficua salvaguardia dell'ambiente e una legislazione a tutela del lavoro dipendente.

E allora mi chiedo – e vi chiedo, amici miei – ma possibile che nessuno in Italia abbia avuto la brillante idea di evaporare?...