sabato 29 ottobre 2011

Avanti il prossimo



Di solito scende in Italia quando Ottobre declina dolcemente nell'autunno. Quando il mare non ha più nulla da dire ai turisti e l'odore del fritto misto non è poi così invadente.
Marcelo è un sudamericano che il lavoro ha portato a vivere in Svizzera. Ho perso il conto di quante lauree abbia racimolato nel corso degli anni. Ha un'intelligenza primigenia, infantile. Capisce tutto “alla prima”. Una spugna.
L'ho incontrato da Brunin. Lui e il mio oste erano intenti alla preparazione della salsa di noci. Io non ho ancora capito la chimica degli ingredienti. Marcelo, sì; l'ha capito “alla prima”. Manco a dirlo.

Una cosa però non capisce. E non si dà pace, per lui è una sconfitta, tra le prime nella sua vita. Quando ci incontriamo, inevitabilmente, mi guarda fisso, con quei due occhi che ti penetrano l'anima, e mi dice: “Ma, Berlusconi?...”.

Si potrebbe liquidare il discorso dicendo che è un potente marpione che porta in giro il suo corpo plurioperato in cerca di giovani e ambiziose donzelle. E nei ritagli di tempo prova a governare.
Ma non è così.

Lui è un leader forte e resistente, sopravissuto a molte disgrazie – molte delle quali giudiziarie – con la coscienza rifatta con il botulino come la sua faccia. È un padre padrone della politica. Dall'inizio della sua discesa in campo ha fatto scoppiare il caos politico (il perfetto disordine ordinato). Ha travolto il parlamento, i mezzi di informazione, la chiesa. E tutto il paese, che lo critica e lo vota in massa.

Ma come siamo arrivati sino a questo punto?”, mi chiede sempre Marcelo.
La risposta (anche se nessuno ha voglia di ammetterlo) va cercata a sinistra.

Il vulnus entro il quale Berlusconi si è infilato è stato creato dal catastrofico naufragio di una sinistra logorata dai litigi, dall'inettitudine politica e sempre lontana dai cittadini.

Berlusconi sarà anche un populista demagogico, ma almeno sa parlare ai comuni mortali.

Ma la domanda forse non è come siamo finiti a Berlusconi, ma “dov'è finito Gramsci?”. L'Italia era la strada da seguire, la sinistra ragionevole. I grandi movimenti operai. La battaglia di supremazia ideologica.

In realtà, fatta eccezione per il lucido intellettuale sardo e pochi altri, la sinistra italiana è sempre stata un carrozzone vuoto.

Che arrivasse un Berlusconi era solo una questione di tempo.

Il dramma è: chi sarà il prossimo?

giovedì 27 ottobre 2011

Una tassa "giusta"




In paziente attesa davanti alla cassiera del supermercato ho notato una scena divertente. Una donna si rigirava tra le mani una teca di plastica, all’interno della quale faceva bella mostra una scatola di tonno. Sorrido e chiedo alla cassiera che cosa avesse di tanto prezioso quella scatola di tonno. “Nulla – mi ha risposto -. Solo che è l’articolo più rubato nei supermercati. Circa 100mila euro all’anno. Solo nella nostra catena”. Incuriosito chiedo il perchè: è facile da far passare alla cassa in quanto tascabile. I protagonisti di questi furti non sono ineffabili rom o furfanti immigrati. Sono pensionati o padri e madri di famiglia che non riescono ad arrivare a fine mese. I nuovi poveri.

I poveri io li vedo quando il mercato sta chiudendo e si fanno avanti per trovare qualcosa di buono tra i rifiuti dei banchi di frutta e verdura. Li riconosco quando si aggirano con circospezione davanti alla parrocchia il giorno della distribuzione dei pacchi con dentro gli alimentari. Li guardo negli occhi quando alla cassa del supermercato lasciano alla commessa la scatola di tonno o una busta di detersivo perché hanno fatto male i conti.

Loro, i poveri, si sono accorti del rincaro della vita ben prima dei giornali e degli enti statistici perché fanno la spesa con un borsellino pieno di monete da venti, dieci, cinque, due centesimi, e contano ciò che pagano e il loro resto centesimo per centesimo. All'aumento del pane, per esempio, hanno reagito nell'unico modo che gli è dato: ne hanno comprato un po' meno.

Poi ci sono tutti gli altri, quelli che gli spiccioli non sanno mai dove ficcarseli, che buttano l'occhio sul cartellino del prezzo ogni tanto, e che non ricordano bene quanto hanno pagato ieri il filoncino. Questi altri, i non poveri, si sobbarcano come spese essenziali un 50 euro di cellulare e un 150 di benzina mensili, un paio di centoni a stagione per l'abbigliamento; e poi un paio di pizze e una gita. Ciò che ci appare ragionevolmente il minimo per una vita decente. In mezzo a tutti gli altri ci sono i ricchi e i ricconi, e questi sono un'altra storia e un altro mondo.

Per quelli come noi, per tutti gli altri "normali", non poveri e non ricchi, il pane dovrebbe costare almeno cinque volte il prezzo attuale. Almeno in un mondo dove il prezzo delle cose fosse basato sul "giusto" prezzo. Dipendesse da me applicherei un'imposta tremenda sul pane, esenti solo i poveri. E sarebbe una tassa di inaudita bellezza. Perché oggi il pane costa così poco che ne possiamo comprare quanto ce ne pare e piace.

Il pane dei non poveri sfama i cassonetti dell'immondizia, non le famiglie. Ho fatto un conto su di me, io che ho grande rispetto per il pane. Bene, i miei conti mi dicono che ogni giorno ne butto via almeno un etto. Per mille idiote ragioni. Sono qualcosa come 200 euro l'anno. Quanto un governo pietoso ficca nella calza della befana di un pensionato.

Mi piacerebbe sapere quanto pane c'è in un cassonetto; quanto ne butta una famiglia tutti i santi giorni di tutto l'anno. Come fosse spazzatura. Come fosse niente, appunto. Un chilo di pane può nutrire un uomo adulto a sazietà per tutto un giorno; finché costerà come un'inutile, estenuante telefonata alla fidanzata, non varrà niente. E nessuno che abbia un reddito che gli permette quella telefonata ha il diritto di lamentarsi se aumenta anche di un euro al chilo. E questo lo dice un non povero.

Ma i poveri, chi li sente?...



mercoledì 26 ottobre 2011

Dietro le sbarre




È un argomento delicato, quello che tocca Alessandra, una mia lettrice. Parla di carceri. Ne parla in risposta ad un amico di Facebook. Una lettera molto interessante e sentita che ho deciso di ospitare nel mio blog, sperando di fare gradita ai miei lettori.

“Ti scrivo perchè non posso parlarti, non ti conosco, non ricordo neppure il tuo nome. Ricordo i tuoi commenti su fb, quelli sì, li ricordo bene.
E siccome non sei l'unico che la pensa così. Ti dico soltanto alcune parole, senza giudicarti lo giuro, perchè purtroppo, anch'io qualche volta sono caduta in questi luoghi comuni.

Hai detto che le carceri dovrebbero essere peggiori di quel che sono, perchè i mafiosi, gli omertosi, gli stupratori, gli scippatori non meritano nessuna indulgenza. Poi in un'altro commento hai detto che se qualcuno tocca i tuoi, ti fai giustizia da solo. Io sotto un certo punto di vista ti capisco. Però ti devo dire una cosa.

Gran parte dei mafiosi sono coloro che hanno vendicato l'uccisione di un loro familiare, quindi simili a noi quando parliamo di vendetta. E quando noi vediamo qualcuno che sta male, magari buttato per terra e continuiamo a camminare senza intervenire, non diventiamo omertosi? Ti è mai successo di bere parecchio e poi salire sulla tua auto per andare a casa? Sai che i tuoi riflessi in quel momento non sono gli stessi che avresti a mente lucida?

Forse la tua responsabilità morale in quel momento è la stessa del ragazzo che fa cadere la vecchietta per scipparla, e mettendoti per strada quando hai bevuto potresti anche investire un bambino che attraversa velocemente, o un anziano che non fa in tempo a scansarti perchè troppo lento.

In un altro commento ancora, hai detto di non capire le donne che si battono per un carcere migliore. Quelle donne, non stanno giustificando i reati, stanno soltanto chiedendo che lo Stato applichi la Costituzione nell'infliggere la pena. Quelle donne  stanno lottando anche per te, per me, per tutti noi, perchè il futuro è incerto e la vita da un momento all'altro può cambiare rotta.

Se hai dei figli piccoli, non sai ancora che cosa succederà a loro, se hai dei figli grandi, non sai ancora che cosa riserverà la vita ai tuoi nipoti. Quindi, lasciale lottare quelle donne, lasciale gridare di migliorare le carceri, lo stanno facendo per tutti. Anche se pensi che sia una cosa che non ti riguarda, non è vero sai? Noi facciamo parte dell'umanità e in ognuno di noi c'è una parte di coloro che stanno scontando una pena, non siamo perfetti e siamo soggetti a sbagliare. Quindi lascia che le donne e gli uomini invochino un carcere migliore e giusto. E se puoi...... fallo anche tu”

(Alessandra Lucini)

martedì 25 ottobre 2011

Governi e priorità




Un impressionante studio di una agenzia internazionale ci informa che il grano prodotto potrebbe (tra pochi anni) non essere più sufficiente per l’intera popolazione mondiale.
Il mese scorso altre statistiche ci mettevano sull’allerta circa il quantità di acqua potabile a disposizione: (tra non molto tempo) la bottiglietta di acqua potrebbe essere centellinata per la sola sopravvivenza.

Le proiezioni per il futuro – aimè, prossimo – sono sconvolgenti. Speriamo che le stesse siano influenzate da quel pizzico di catastrofismo che alimenta da sempre le analisi geologiche che interessano il nostro pianeta. Vi giuro che appena intravedo sullo schermo Luca Mercalli mi tocco automaticamente il basso ventre.
Comunque sia, tutti i rapporti su scala internazionale, finiscono con l’explicit: “una tragedia immensa che i governi continuano ad ignorare”.

C’ da chiedersi quando ci imbattiamo in questo tipo di notizie come cambierebbe la politica – e come cambierebbe il mondo – se i bisogni primari dell’uomo fossero, finalmente, a capo dell’agenda dei potenti.

Se, mettiamo per un attimo, l’innalzamento o meno dell’età pensionabile, fosse solo un penoso dettaglio amministrativo da affrontare nei ritagli di tempo lasciati liberi dalla politica dell’acqua, dal cibo per tutti, dall’educazione universale, dal diritto ad una casa ad un prezzo accessibile anche per l’operaio. Pensate che bello.

Forse accadrebbe anche che l’innalzamento di un paio di anni dell’età pensionabile, in quanto dettaglio e in quanto fastidioso, sarebbe sbrigato in fretta. E anche bene.

Le grandi questioni rimetterebbero a posto anche le piccole.

Le frattempo – e siamo tristemente al giorno d’oggi – quelle piccole, impediscono di pensare (anche solo di pensare) a quelle grandi...

lunedì 24 ottobre 2011

Sogni a caro prezzo



Io ve la racconto come l'ho sentita. C'è un uomo, valente manovale, che tiene da dieci anni segregata in un garage una Porsche nera e fiammante. Conosco quell'uomo e mai me lo sarei immaginato. Quel bolide deve essere il sogno della sua vita, e per acquistarlo deve essersi indebitato per tutta la vita che gli rimane. La leggenda narra che ogni sera il manovale - lavato e profumato di doccia dopo le otto ore di polvere e sudore -, vada a pasare mezz'ora a bordo del suo sogno, accontendandosi di accendere l'autoradio. Tutte le sere, festivi compresi.

Non voglio fare il ragioniere, ma ho la quasi certezza che, pagata la rata, dato da mangiare alla famiglia, non gli rimanga nemmeno un euretto per dar da bere un litro di benzina alla sua macchina che solo per muoversi dal garage ne chiede una tanica.

È un sogno, dicevamo, per quel uomo; senz'altro più abbordabile del sogno di un mondo di giustizia, della propria promozione sociale, di un futuro radioso per il suoi figli. Più abbordabile e anche più reclamizzato: fateci caso, ogni due spot pubblicitari in Tv, almeno uno decanta le doti meccaniche di una macchina, il design di un Suv, le prestazioni di una fuoriserie.

I sogni non hanno prezzo, su questo penso nessuno abbia nulla da obiettare. Ma questo sogno ha un prezzo che paghiamo tutti quanti.
Secondo le ultime statistiche, l'Italia in rapporto alla popolazione, è la nazione più inquinata del mondo, addirittura più della rutilante Cina. E non siamo un Paese in pieno boom economico che fuma da milioni di ciminiere, ma - attenzione - un Paese, unico nell'universo conosciuto, dove le automobili immatricolate hanno superato il numero delle persone in grado di portarle, con o senza patente.

Provate a trarre delle conseguenze da questo strabiliante primato. Provate a pensare cosa gliene può fregare agli italiani dei mutamenti climatici; provate solo a chiedervi se sanno di cosa si sta parlando quando si parla di gas serra, di risparmio energetico, di futuro del mondo. E provate a chiedervi ancora: cosa interessa veramente agli abitanti di questo Paese, di cosa sentono di aver bisogno, che non sia un pacchetto di eurazzi in tasca e un poliziotto sotto il portone. Per inciso abbiamo rispetto agli altri Paesi europei un 30% in più di polizia; più poliziotti di noi li ha solo Cipro, paese diviso in due dall'ultima cortina di ferro.

Siamo un paese profondamente egoista, anche per quello che attiene la sicurezza. Scendiamo in piazza per la nostra sicurezza, ma in quanto alla sicurezza sul lavoro siamo ancora al livello del Medioevo.

Ma questa è un'altra storia...

giovedì 20 ottobre 2011

La bellezza negata




C’è un posto dove il tempo sembra non faccia presa sul mondo. Come se il mondo iniziasse esattamente da lì.
Un pugno di case, quasi sulla sommità del passo del Bocco. Faccio quella strada da quando sono nato. Terra di confine tra Liguria e Emilia. Per me è una landa fatata. Quando devo transitare per il Passo del Bocco cerco sempre di partire prima, per fermarmi qualche minuto su una panchina che sembra essere messa lì, apposta per guardare il vuoto. Una vecchia panchina di pietra.

L’altro giorno, alle sette di mattina, quella sedia di pietra era occupata da un anziano con la pipa. Solo, giaceva in una polla di acre silenzio. Tra la nebbia appenninica. Densa. Guardava l’ovvia bellezza della campagna. Mi sono seduto anch’io, dopo aver fatto un breve cenno con il capo. Mi sono rollato una sigaretta. In silenzio. Tutti e due avevamo uno sguardo vicario, despota, verso il panorama mozzafiato. La collina che declina, fino quasi a sfiorare un lembo di mare, giù in fondo. Guardavamo il nulla che, come ebbe a dire Monet, è il tutto, sorpreso in un momento di momentanea assenza.

Per me quel posto è come la piramide di Cheope o il Colosseo o un castello della Loira. È esattamente la stessa cosa, perché il valore - non immobiliare, ma paesaggistico, culturale, storico – del passo del Bocco è altrettanto inestimabile.

E allora dico: che cosa ci fanno quei pali della luce che sviliscono l’effetto? Mettereste una grondaia alla piramide di Cheope? E una antenna parabolica sulla facciata di un castello?

I pali della luce appartengono a una specialità tutta italiana: il nostro è il Paese dove non uno - dicasi uno - dei suoi innumerevoli stupendi paesaggi non sia segnato dal passaggio di un elettrodotto. Dove all'Enel non gliene frega niente della bellezza e men che meno della sua salvaguardia. Si dice che costa troppo interrare i cavi elettrici, ma cosa è “troppo”? Quale cifra è ”troppo” per conservare la piramide di Cheophe? Ma non ci sono enti, movimenti, autorità, partiti, che si sono dati l'impegno della tutela e dell'educazione ambientale e del contrasto alla deturpazione?

E mi sovviene che non ho mai visto un parlamentare dei Verdi, né un presidente di parco, né un segretario di associazione ambientalista incatenato a un traliccio, a digiunare sotto un elettrodotto. Magari funziona, no? E ho così la frustrante impressione che, qui da noi e solo qui da noi, i politici dell'ambiente, quelli che in suo nome prendono voti e incarichi, abbiano lo sguardo sempre più alto delle quotidiane brutture e delle locali nefandezze.

Immersi nell'empireo cielo delle grandi battaglie, quelle che non si vincono e non si perdono mai, quelle che garantiscono una rendita politica eterna...

martedì 18 ottobre 2011

Tagli al bilancio




Ho un rovello nel cervello. Qualcosa non mi torna. Dunque, apro i giornali – aimè, sono costretto – e accendo la Tv – idem -. Tutti mezzi di informazione ci informano che occorre attrezzarsi alla catastrofe. Vanno a ruba i servizi che ci consigliano come affrontare una vita di stenti. Come sopravvivere autarchicamente. La bomba atomica della miseria, vaga pericolosamente sulle nostre teste.

Ma quel dubbio continua a girovagare per il mio – limitato – cervello. Ma non erano gli stessi mezzi di informazione che fino ad un paio di anni fa suonavano le trombe del trionfo, ci riempivano la testa di top manager e top model. Dove i top segretari di partito luccicavano di oro e brillanti. La parole più in auge erano successo e benessere e ricchezza. Parlavano dello stesso Paese? Ma erano proprio gli stessi mezzi d’informazione?

Sì, lo erano. Non ho ma capito in quale misura siano loro ad influenzare gli umori della gente o il contrario (è nato prima l’uovo o la gallina?).

Sia come sia, una cosa voglio tenere ben presente: non mi fido più. Prendo tutto con beneficio di inventario, leggo solo gli editoriali che hanno un basso impatto sulla mia vita di tutti giorni.

Non mi fidavo dei media quando ci descrivevano un paese ricco e spensierato e non ci credo adesso che ce lo restituiscono povero e angosciato.

Nella realtà, ho capito solo che molti di noi dovranno ridiscutere – anche drasticamente – il proprio tenore di vita. Un taglio ai consumi mi sembra ineludibile e, sotto un punto di vista sociale, anche etico.

Occorrono tagli, dunque? Bene. Ho deciso: la prima sforbiciata al mio bilancio sarà destinata al consumo di giornali e televisione...

giovedì 13 ottobre 2011

L'ibernato




Non so se avete mai sentito parlare di ibernazione. Ad una persona vengono temporaneamente bloccate le funzioni vitali con un repentino abbassamento della temperatura. Dopo un periodo X di tempo, la persona ibernata viene restituita alla vita. Mettiamo che una persona si sia sottoposta a questa tecnica, diciamo, una vetina di anni fa. Come possiamo sintetizzargli 20 anni di storia italiana? Proviamo.


  1. Il più grande amico di quello che fu ritenuto il più grande corruttore nazionale, è diventato il leader indiscusso della nazione (nel frattempo è riuscito anche a mantenere la proprietà di tre reti televisive nazionali e il controllo delle altre tre);
  2. Il capo dell’unico partito neo fascista dell’arco costituzionale, è stato eletto terza carica dello Stato (uno dei suoi più fedeli camerata è il sindaco - amatissimo -  della Capitale);
  3. A decidere sulle sorti del Governo ci sono uomini urlanti che pretendono di autodeterminarsi in Padania, territorio compreso nei dintorni del fiume Po;
  4. I partiti della sinistra sono scomparsi, tramite un processo noto come “la sindrome di Taffazzi” che consiste di raggiungere la valenza mono atomica, scindendosi varie e varie volte (gli ex leader comunisti sono in lizza per il Nobel per la fisica molecolare):
  5. è stata istituita l’usanza medioevale della ronda. I neo tutori dell’ordine pubblico sono ex carabinieri e poliziotti e neo razzisti in camicia verde.


Tutto questo è il presente raccontato in stile Bignami (l’opera omnia è molto, molto peggio)
Lasciamo all’ibernato l’ipotesi del futuro. 

mercoledì 12 ottobre 2011

Rivoluzioni geriatriche




Quindi, secondo Roberto Calderoli, i padani hanno il diritto all’autodeterminazione. Sognano di tracciare il loro perimetro, battere la propria moneta, parlare il loro idioma. Magari celebrare i loro personalissimi gemellaggi con i pellerossa o i lapponi (notare quanto lontano i padani vanno a trovare assonanze etniche). Vogliono governarsi perché “si bastano”. Fora dì bal.

In molte regioni d’Europa i partiti di quelli che “si bastano” (e si piacciono) conquistano sempre nuovi successi. Anche i polacchi (sì, i polacchi, perché, non possono?) hanno il suo bravo leader xenofobo, che vuole rispedire tutti gli stranieri a casa. Ma la lista è lunga (dal compianto Haider al francese Le Pen). I leghisti sono in buona compagnia.

Lo so che è una richiesta impopolare, perché anche in Padania c’è chi vede come fumo negli occhi i leghisti e rifiuta di mettere nel suo stemma araldico la polenta, ma sarebbe molto divertente provare ad accontentarli, “quelli che si bastano”.

Vedere come se la cava e come si diverte la Padania sola soletta.
Vedere come camperebbe, leader com’è nella produzione di reumatismi e cassoela. Chissà come si sollazzerebbero su e giù per Ponte di Legno, con Borghezio che canta “O mia bela madunina” con il cappellaccio pennuto e le braghe a mezza gamba.

Nei nazionalismi extraeuropei c’è sempre qualche cosa di pauroso e irruente. C’è la rabbia repressa di milioni di giovani che si affacciano al mondo per riempirlo di pugni. C’è una storia di usurpazioni, di ghettizzazioni. Ci sono storie di imperialismo e di sfruttamento. Poi c’è la guerra, ci sono i morti. I martiri. Una scia di storia da rimettere a posto e i tasselli di una società da ricomporre.

Nei nazionalismi europei c’è invece sempre qualche cosa di squallido e triste. Interessi di misera bottega. Un’antica piccineria di contrada in versione rimbambita. Ogni tentativo di moto insurrezionale sembra una rivolta per le pere cotte in un ospizio.

E c’è il terrore cieco che qualcuno venga a bussare alla porta per chiedere l’eredità...

lunedì 10 ottobre 2011

La sconfitta dell'Uomo-Lasagna



Il fatto è che ci fregano ogni giorno. Non fai in tempo ad abituarti ad un termine che subito dopo ti scontri con un altro neologismo che ti condiziona la vita.
Ieri sera è arrivato un giovane rampante proveniente dal salone nautico di Genova. Oltre ad avere disturbato la normalità olfattiva dell'osteria con i suoi fortissini aromi di emporii lontanissimi, ha spiazzato tutti con una richiesta che ci ha lasciato basiti (io, Brunin, Adelmo e Carmelo il marocchino). Voleva organizzare un brunch per domenica mattina.

Brunin ha accettato, non prima, però, di aver organizzato immediatamente una mini-riunione tra di noi nella saletta dei vini.

Ci siamo informati (ah, Internet che bella scoperta in questi casi...), perchè non vogliamo mica fare la figura degli stupidotti con gente estranea.

Le statistiche dicono che il pranzo domenicale (a casa o al ristorante) è in netto declino, soppianato dal brunch - anglofona crasi tra breakfast e lunch – che si consuma in tarda mattinata. Tra le pietanze che vanno per la maggiore spicca il pancake (una spugnosa fuffa che sa di dopobarba), imbibito di sciroppo d'acero (assieme al baseball, le uniche cose americane fin qui giudicate non esportabili).

Non saremmo più, quindi, dei contadini inurbati, ma cittadini del mondo. L'anziano uomo-lasagna, stordito dal suo ripieno, si avvia barcollante sul viale del tramonto sostituito dal croccante ragazzo-bacon.

Sono un tradizionalista, ma è difficile arroccarsi in difesa della nobile abbuffata domenicale. A parte il richiamo dell'unità famigliare, il torpore oleoso che si protraeva almeno sino al Novantesimo minuto, non appartiene, aimè, alla salubrità e fa certamente a pugni con i metabolismi contemporanei. Gli anziani, che di solito governano questi antichi riti, discendono da avi che avevano un fabbisogno calorico illimitato; gente avezza alla bicicletta, alle zappe, ai badili. È per persone come quelle che qualche nonna ebbe a inventare la lasagna, terrifica summa di proteine, grassi e carboidrati.

Oggi quando vedi verso le tre di pomeriggio, le Uno e le Duna ridiscendere dai colli cariche di nonni e zii sonnecchianti a minima velocità, non puoi che ammirare lo forzo sacro che i commensali hanno fatto per rispetto di una tradizione secolare. Hanno aliti ribollenti e guidano con braccia saldate al busto da sughi di cinghiale e vini della casa.

Se lo sciroppo d'acero è alle porte (come sembra essere) non è nella tradizione offesa che troveremo la forza di reagire.
La smettano le nonne in ansia di minacciare il nipote in fuga con porzioni smisurate di tradizione. E non provino nemmeno, non dico ad imbandire, ma a pronunciare la parola brunch (avremmo tavole trafficate di taniche di sciroppo d'acero e aceto balsamico).
Provino piuttosto a sezionare la liturgia tradizionale in piccole parti, in porzioni umane. E a trarne il meglio, l'appetibile, l'affascinante. Il poetico.

La qualità, non la quantità, ha sempre la meglio. E chissà che non sia possibile, in questa chiave, tramandare ai posteri anche la lasagna, svuotata da qualche intruglio e abbassata dal suo volume tipo Dizionario Zingarelli a quello di un tascabile...

venerdì 7 ottobre 2011

La casa di Franco



C’è una barzelletta che impazza sul Web. Sentite: c’è un uomo che va in banca e chiede all’impiegato un prestito per comprarsi una casa. L’impiegato risponde: “Ci sono qui pronti 200mila euro”. Allora l’uomo insospettito dice: “Non mi starà mica prendendo per il culo”. L’impiegato: “Certo, però ha cominciato prima lei...”.
Fa ridere, ma è la fotografia esatta di ciò che sta succedendo in questo momento, in tutte le banche d’Italia.

Ho raccontato la storiella da Brunin. Hanno riso tutti. O quasi. Franco non rideva. Lui aveva una casa in campagna dove viveva con la famiglia. Poi un errore, e le banche se la sono portata via. Terribile. Gli hanno portato via l’anima, altro che un immobile. Da quel giorno Franco è sempre più taciturno. Non scortese, ma triste.

Gli hanno portato via una soglia su cui sedersi per fumarsi la prima sigaretta della mattina, i travi che sostenevano le allegrie serali degli amici. Penso che ad ognuno spetti la sua casa, ad ogni casa spetta la sua famiglia. I segni di quella casa, Franco li cerca ovunque. Era la casa dove era nato e cresciuto, una casa di contadini.

I grandi muri di pietra intonacati a calce. I muri vivi, che respirano notte e giorno; che ti ci appoggi d’inverno per averne calore e d’estate per riceverne freschezza. Il grande sasso sotto cui mettersi al riparo da ogni cosa.
E poi le piante, la verzura. I contadini non tengono in nessun conto i giardini, ma amano ingentilire le loro aie e i loro orti. Il pergolo, appunto, per l’ombra e l’uva dolce per i bambini. E per i bambini anche il nespolo e il pero e il susino. Il fico per gli ospiti improvvisi e per i merli canterini; la siepe di alloro, quella di rosmarino e la lavanda, per gli odori. La palma per la signorilità e il buon augurio.
Quando ne parla Franco – perchè ancora ne parla, quando il Vermentino disattiva il dolore e dà briglia sciolta al ricordo - non tira mai in ballo mobilio e arredi e piante, ma menziona sensazioni, rumori, odori, sentimenti dell’abitare. Una strappo alla regola lo fa quando descrive la sua libreria, grande il giusto per contenere l’estro dei buoni romanzieri e quando parla della sua grande poltrona che conteneva i sogni della sua pennichella pomeridiana. Quando parla della sua casa a Franco gli brillano gli occhi.

Tutto questo gli avete portato via. Gli avete portato via il cuore. Banche, Equitalia, Gestione Entrate e compagnia briscola.

Portate via il cuore alla gente...

mercoledì 5 ottobre 2011

Ciao, Claudio...




Era un mio amico. Niente a che fare con affinità culturali e roba del genere; era uno di quelli con cui sono cresciuto assieme. Roba di palloni Rifle, saracinesche svirgolate e bestemmie. Sta di fatto che ci vedevamo una dozzina di volte all’anno e ci lasciavano un po’ alticci dalla troppa birra con una dose di buonumore che ci durava per la volta a venire.

Claudio ha cercato di insegnarmi un sacco di cose, ma io non imparato niente: non ho mai avuto il fisico, non dico la testa, per stargli dietro. Ha provato a spiegarmi cose che si imparano all’università della vita, con docenti di strada e testi che si imparano per via orale. Claudio era per la retorica. Per me faceva parte di una aristocrazia proletaria che non ne esisteranno più. Regole ferree da applicare alla vita, senza che nessuno ti obblighi a farle; aveva la sua Costituzione a cui attenersi. Non aveva bisogno di interposte persone. Claudio, “il Ghiro” era fatto così. Prendere o lasciare. Io ho preso, da sempre.

Lui era un palo di querciolo piantato in mezzo alla mia vita. C’era, semplicemente. C’era anche quando non lo vedevo. Cosa ci sta a fare lì? A prendere colpi e a resistere ai colpi per l’eternità. E a ammaccare un bel po’ di quelli che ci si sbattono addosso, anche se poi nessuno ha piacere di andarlo a dire in giro che le ha prese da quel palo matto.

A me Claudio ha sempre sorriso. Sempre. E questa è una cosa bellissima. Anche l’ultima volta. Mi ha detto: mi sa che stai prendendo una brutta piega, mi sa che prima o poi quelli lì ti fregano.

Può darsi Ghiro, ma che ci posso fare? Io ci ho troppa paura a stare lì, solo, in mezzo alla strada. Anche a resistere un po’. 
Mi prenderanno nel sonno. 
Come hanno fatto con te...

domenica 2 ottobre 2011

Guida ai piaceri minimi



Intorno al tavolo dell'osteria di Brunin, tra una mescita e l'altra, sgorgano le discussioni più strane. La fauna più eterogenea si agglutina intorno al Vermentino e alle bruschette al pesto (anche perfetti sconosciuti vi assicuro. amici miei).

Ad onor del vero, la crisi canalizza le discussioni verso l'ascetico, il trascendente, visto che il contingente non è gran cosa.

L'impiegato dell'anagrafe scala vette inesplorate, il bancario entra in uno stato catatonico per andare oltre lo scibile intonso.
Non mi fatto per nulla impressione, quindi, sentire Arnaldo – di professione rappresentante di suppellettili nautici – citare, e condividere, un aforisma di pietra pronunciato da Colin Wilson. Dice: “Privato dai significati che oltrepassano la sua esistenza quotidiana, l'uomo si riempie di livore e di disgusto”.

Non sono d'accordo. Perchè tanto spregio per il tranquillo tran tran quotidiano?
Conosco diversi casi (tra i quali, per esempio, il mio) nei quali è proprio la vita quotidiana che preserva dal “livore e dal disgusto”.

Naturalmente occorre averne una, di vita quotidiana, da sbrigare e onorare. Dico gli affetti, la socialità minima, la cura dei figli. L'andare a fare la spesa nei negozietti, dove magari il salumiere ti saluta anche per nome.

Per non parlare dei piccoli traguardi minimi come l'appuntamento domenicale con la partita del Genoa o le partite di Coppa al mercoledì.
Lo sfoglio di un libro nuovo.
Una birra gelata.
Un piatto di spaghetti al pomodoro e basilico manufatto dalla mia Giusy.

E poi, ancora, l'innaffiamento e l'emulsione del mio basilico – alla cui compagnia invernale ho provveduto tempo fa con l'acquisto di quattro bulbi di Narciso, che ora sono in gestazione sotto quindici centimetri di terra torbata, e una pianta solanacea -: nel suo piccolo anche questa è un'attività solenne al limite con lo zen.

A venirmi incontro in questa visione di una vita appagata dai piaceri minimi, ci ha pensato niente meno che Ermanno Olmi,ospite di Fabio Fazio nella trasmissione “Che tempo che fa”. Di lui mi ricordo una frase pronunciata nel 2001, in occasione di un'intervista per i suoi settanta anni.
Disse: “Potrei sopravvivere alla distruzione di tutte le cattedrali del mondo, ma non potrei mai sopravvivere alla distruzione del bosco che vedo ogni mattina quando apro la finestra”.

Ecco, proprio questo volevo dire.
Grazie, Maestro...