martedì 31 maggio 2011

Moderati, al voto!


 


Stavo tranquillamente sbranando una striscia di focaccia alle olive. Era domenica, ora dell’aperitivo. Una domenica normale, visto che nessun ente (comune, provincia, regione) mi ha chiamato alle urne e i referendum non sono ancora votabili. Ero all’ultimo boccone, quello più unto, più appetibile, quello a cui non rinuncerei nemmeno per l’ultima Marlboro, come direbbe Mango.

All’orizzonte si profila Ricky, milanese, 44 anni, piccolo imprenditore. Moglie e due figli. Il viso è arso da preoccupazione vivissima. La sua macchina - un Suv adattissimo alle traversate del deserto dei Gobi, ma rassegnato al valico dei Giovi - è stracarico di valigie e pacchetti. È appena arrivato. Mi guarda con aria funebre: «Siamo in mano ai comunisti, io là (nella Milano conquistata dai bolscevichi ndr) non torno più», gli occhi gli si velano di lacrime vere.

Mi armo di pazienza e gli spiego che anche Lavagna è in mano al (suo) nemico. Mi fanno eco tutto intorno le armi del comunismo: uno squadrone di carte di credito e di bancomat, una parata di telefonini dai trilli sincopati, un battaglione di aperitivi che costano come maglioni e maglioni che costano come l’affitto mensile di un bilocale.

È incredibile come le parole, in questo bizzarro paese, non abbiano più alcun significato, nè si sforzino di recuperarlo. Una sinistra molto – ma molto moooolto – moderata qui e là appesantita e smemorata dal benessere è la sola borghesia che l’Italia è riuscita a darsi in sessanta anni di democrazia. È la sola classe dirigente che sia riuscita a trasformare, almeno localmente e non sempre, una fetta dello sviluppo in servizi per tutti e, addirittura, a rubare meno.
Ecco, questa borghesi, incredibile ma vero, vengono assaliti in quanto “comunisti”. Il baluardo, ultimo e coraggioso, dell’occidente, è una destra che sembra appena uscita da un gulag e invece esce (come tutti: me per primo) da un bar con un Campari in mano.

Ma tutto questo che senso ha? Forse uno soltanto. Se alle prossime elezioni, come si auspica Berlusconi, i moderati, finalmente, andranno a votare, stravincerà la sinistra...

giovedì 26 maggio 2011

Che c'azzeccano?




Tangenti e urbanistica, arrestato il sindaco di Cassano D'Adda

Escort, cene e viaggi ai funzionari dei Monopoli
Così la mafia controllava le sale gioco, 10 arresti

«Caparra per la casa di Scajola»
I regali della nuova lista Anemone
I pm: bollette, multe, perfino un frullatore

Reggio Calabria: arrestati per corruzione 9 tra funzionari e impiegati del comune
Ai dipendenti finiti in manette contestata l'associazione per delinquere l'abuso d'ufficio e altri reati


Risuonano ovunque, altissime, grida di stupore per i nuovi filoni di corruzione portati alla luce da Pm, giudici, forze dell’ordine. Ma come, dopo Tangentopoli, Vallettopoli, Terremotopoli e Paperopoli, c’è ancora chi osa rubare sugli appalti o frodare il fisco o prendere bustarelle? Sarebbe come dire: con tutti i mafiosi che sono in carcere, come mai la mafia esiste ancora? La verità è che ci si era largamente e lungamente illusi che l’azione della magistratura (il cui compito è applicare le leggi, ergo punire i crimini) potesse assolvere anche e soprattutto ad una funzione educativa e politica. Un’azione, insomma di rinnovamento delle coscienze.

Ogni arresto è stato festeggiato a champagne come l’inizio di una nuova e feconda stagione di aurea onestà, mentre invece era appena la lugubre conferma della metastasi di una classe dirigente. Soprattutto in questo le accuse di politicizzazione dei giudici sono ridicole, ingiuste e fastidiose.

È stato il Paese, in larga maggioranza, ad investire i giudici di un ruolo politico che è, per loro stessa funzione, inesistente. Chi ha provato a saltare la staccionata come Di Pietro ha dato scarsi risultati in termini di credibilità e di spessore. De Magistris ora ci prova a Napoli, ma (che vinca o che perda) rappresenterà sempre una anomalia di un panorama politico disastroso come il nostro in questo momento.

Non ci si scappa: o la politica (lei sì, incaricata di mutare i rapporti di forza e le coscienze) torna a fare il suo mestiere o per i giudici diventerà impossibile fare il loro...

martedì 24 maggio 2011

Il Futuro è adesso



Forse è meglio cambiare la nostra ottica. Sarebbe ora di trasformare la famosa angoscia del futuro in una sana – e più saggia – paura del presente. I fantasmi di cui parliamo oggi, sono sotto i nostri occhi.

A Milano clima da guerra civile, con tanto di presunte comparse raffiguranti rom e delinquenti messi in scena per spaventare il corpo elettorale.
In giro per le grandi città, ronde di paramilitari in camicia verde che picchiano gli stranieri, perchè stranieri.
A scuola pseudo-gang e simil-bulli si divertono a spaccare gli arredamenti per il solo gusto di accumulare contatti su Internet. In passato qualche pugno e calcio è toccato ad un ragazzo diversamente abile (e non immaginate nemmeno quanti click si è meritato).
Preti che abbordano ragazzini e spacciano cocaina, fregandosene bellamente di inoculargli l’Aids.

A Torino un padre stufo dei continui insulti, minacce e botte tira una coltellata al figlio tossico e alcolizzato. Poi chiama i Carabinieri e si siede ad aspettare le manette.
A Livorno un 84enne, invasato da troppe pillole blu, prende una sbandata con una 35enne e, geloso, le spacca l’appartamento a picconate.
A Lucera, in provincia di Bari, un commandos di delinquenti nel bel mezzo di una carreggiata prende a fucilate un camion porta valori e si impossessa dell’intero bottino.

A questo aggiungiamo il non trascurabile particolare del continuo - noioso - vociare tra istituzioni e giudici, tra giornalisti e politica, tra forze dell’ordine e avvocati, tra Cassano e il suo procuratore.

La felice Italia, di cui si è abbondantemente scritto in passato, ha felicemente partorito i suoi agghiaccianti figli.

Che cosa possiamo fare, adesso?
Non lo so, e nessuno può dirlo con precisione, nemmeno Morelli o Crepet.
Ma c’è almeno una cosa che possiamo fare da subito: smetterla di scrutare l’orizzonte con aria pensosa e preoccupata.

Guardare fuori dai portoni, davanti alle nostre auto, all’interno delle nostre scuole, tra i palazzi delegati ad ospitare le più alte istituzioni.

Il futuro, amici miei, è già arrivato. Ha la testa vuota e le mani pesanti.
E ha fretta di farsi conoscere...

giovedì 19 maggio 2011

La politica dei passi carrai




Aspettiamocelo. In questa settimana di ballottaggi per le grandi città, qualcuno tirerà fuori qualche idea mirabolante per decurtare le tasse, aumentare gli introiti, dimezzare le uscite dei cittadini. Aspettiamocelo: si parlerà di soldi. In campagna elettorale non si parla di altro. Dal comune più piccolo alla grande metropoli.

Soldi da pagare al fisco, soldi del deficit pubblico. I soldi che mancano e quelli che servirebbero. 
La politica ragioniera ha dato lo sfratto (oramai da tempo) alla politica filosofa e filologa. E negli stessi luoghi nei quali un tempo si discuteva di argomenti - magari vaniloquenti - come il destino dell’uomo, oggi ci si scanna per la tassa sui passi carrai.

I casi sono due: o i passi carrai hanno riassunto mirabilmente il senso della vita oppure si è tacitamente deciso, di comune accordo, che il senso della vita non deve necessariamente riguardare la politica.

Questa seconda opzione sarebbe anche accettabile se nel periodo di ubriacatura ideologica e filosofica (forse anche molesta, non c’è dubbio) in cui il dibattito era contraddistinto da una perdita di lucidità e di controllo, fosse seguita una nuova fase dialettica, più consona ad argomenti certo più interessanti (più o meno tutti hanno a che fare con la tassa per i passi carrai), ma non particolarmente stravolgenti.

Macchè. Date un’occhiata alle tribune politiche del giorno d’oggi. 
Ci si insulta per “l’un per cento”. 
Ci si odia per l’Irpef. 
Ci si maledice per i debiti fuori bilancio. 
Ci sono rancori che vanno avanti da anni per la Tosap. 
Per non parlare dell’Ilor: si può arrivare ai coltelli.

Ci siamo meritati, in passato, criminali e martiri in nome di una Idea.
Rischiamo di meritarci, adesso, criminali e martiri nel nome del Patto di Stabilità...

martedì 17 maggio 2011

Nonna Florestina e l'arte di insegnare




Nonna Florestina usa festeggiare i suoi compleanni sotto il bersò, in giardino. Organizza tutto il genero Tano, una spremuta di organizzazione e bontà. Florestina si avvicina lemme lemme al traguardo dei cento anni di vita. Sorride sempre sotto la sua permanente d’argento. A volte mi fa arrabbiare; soprattutto quando legge il giornale senza bisogno di occhiali.

A volte racconta la sua vita. Racconta del dolore, del silenzio, della vita grama che si viveva un tempo.
E racconta una quantità di storie, così che la sua vita mi sembra gigantesca, monumentale, infinita. Ma nel suo racconto - e negli occhi e nelle mani e sulla bocca -, non trovo mai ciò che sono indotto a cercare: la traccia di un dolore intollerato e intollerabile, di una tragedia soverchiante, di una miseria disumana. Nonna Florestina sembra unicamente compresa del fatto, inoppugnabile, di essere gioiosamente viva.

E questo successo fa giustizia di ogni altra cosa. Riduce a puro accidente quello che, anche solo ad averlo succintamente scritto, non può che apparirmi come tragedia di miseria, di ingiustizia, di malvagità. Mi sorprende come Florestina racconti la storia della sua vita in perfetta coscienza e assolutamente priva di rancore. Gioiosa e magnanima perché vittoriosa.

Mi rendo conto di quanto l’ipervedente e ricciuta Florestina, sia più forte di me. Di me che non riesco ad essere né più grande né più forte dei modesti danni che la vita mi ha inflitto. 
E so anche di non essere solo in questa debolezza. Direi addirittura che siamo i più. 
Forse non è giusto chiederci di essere grandi come Florestina; forse non serve neppure a quanti tra noi non hanno dovuto né dovranno cimentarsi nella vita come lei ha dovuto.

Ma mi chiedo cosa ci potrà essere di buono in un vecchio signore, come spero di arrivare ad essere, che racconta le sue storie senza il sorriso di Florestina, senza la sua gioiosa coscienza. E mi viene da credere che se nel corso di questo secolo e di queste generazioni qualcuno potrà incontrare ancora una nonna Florestina, sarà assai probabile che la troverà altrove da qui.

Facilmente tra quegli uomini e quelle donne che saranno sopravissuti ai naufragi, alle deportazioni e al disprezzo, quelli che chiamiamo "disperati" e da cui ci difendiamo strenuamente. Qualcuno di loro sopravviverà .
E qualcun altro lì starà ad ascoltare, e continuerà ad imparare...

venerdì 13 maggio 2011

Una vecchia canzone d'Amore




Sally cammina per la strada senza nemmeno
guardare per terra
Sally è una donna che non ha più voglia
di fare la guerra
Sally ha patito troppo
Sally ha già visto che cosa
ti può crollare addosso

Non c’è stato nulla da fare: mia figlia Chiara non ha potuto fare altro che sorbirsi il mio canticchiare. Chiara non è affatto contenta che io canticchi per strada. Lei è una bambina assai attenta al pudore (posizione mentale sbagliata, in quanto mi ritengo molto intonato). Questa volta no: si è dovuta sorbire una vecchia canzone. Questo perché certe volte solo le canzoni hanno il potere di essere più attinenti a ciò che ti capita di sentire in cuor tuo. 

Era una giovane donna, non bella, non interessante. Tiene in braccio una bambina, una bambina piccola, scura come la madre, che le sonnecchia sulla spalla. Tra le mani regge un passeggino, un enorme passeggino ripiegato. È stanca, è sudata; sono le due del pomeriggio e aspetta l'arrivo dell’autobus cercando di ripararsi dal sole all'ombra della lurida pensilina. Guarda la sua bambina, guarda in su, verso la luce. Il suo sguardo è mite e buono, e la stanchezza e il sudore le segnano il viso. Ma non lo sguardo.

Arriva il tram e le persone in fila – tra cui io e Chiara – si avventano sulle portiere. Siamo furenti di ritardo, di afa, di scontento. La giovane donna resta lì, sotto la tettoia, a guardare in su. Chissà in grazia di quale illuminazione capisco, torno sui miei passi e le chiedo se per caso ha bisogno di una mano. Domanda idiota: come potrebbe farcela da sola? Ma lei non si risente della mia stupidità: sorride appena e dice sottovoce: “Sì”. Seduta davanti a me e Chiara, nel fetido abitacolo dice solo: “È più difficile con i treni, lì non trovo mai nessuno”. E sorride, ancor una volta, prima di appisolarsi assieme alla sua piccolina. Un pacco di tenerezza così limpida da sembrare animale, buttato su un sedile macchiato di qualcosa che non voglio sapere.

Una vita che non conoscerò mai, ma che posso solo immaginare oltre la soglia del suo silenzio.
Ha un marito, un marito che la ama?
Ha una madre che l'aiuta?
Ha forse un lavoro?
E questo suo viaggiare eroico – uscire di casa, prendere l'autobus, scendere dall'autobus, accudire la sua bambina, nutrirla da sola, aspettando in silenzio che qualcuno capisca che ha bisogno di essere aiutata – questa sua inesorabile fatica rappresenta la sua vita?
Ci sarà gioia da qualche parte per lei e la sua figliolina?
E se ci sarà del pianto, chi si occuperà di placarlo?
Non lo saprò mai, non lo saprà mai nessuno. Una silente vita eroica.

Ho voluto bene a quella giovane donna non bella, non affascinante, non interessante. Non ho provato altro sentimento più sofisticato, più attinente, più socialmente proficuo. Non pietà, non solidarietà, non comprensione: le ho solo voluto bene. Le ho voluto bene in totale gratuità, partecipando alla sua vita per quei pochi minuti in modo così profondo.
E mi sono chiesto se non sia ridicolo pensare che la comunità può non solo fornire servizi, garantire solidarietà, essere all'occorrenza pietosa, ma anche voler bene. Forse non è ridicolo, ma è irragionevole, lo so, immaginare una comunità affettuosa.

Stavo pensando proprio a quello, quando mi è venuta in mente una vecchia, forse stupida, canzone.

Nanananà, nanananà, nanananà.
Sally cammina per la strada...


martedì 10 maggio 2011

Uno spunto per l'amico Giacobbo




L’altro giorno ho parlato con mia zia. Lei è pensionata; il suo hobby principale è andare in giro per negozi. Meglio se inseriti all’interno di un centro commerciale, il nuovo punto d’incontro del terzo millennio. Molto spesso non ha bisogno di nulla. Lei e le sue amiche (pensionate) cazzeggiano in giro tra le offerte speciali. i tre-per-due, i sottocosto, i menodicosìègratis. L’altro giorno, appunto, era particolarmente preoccupata: una saracinesca dentro al carrozzone, era chiusa. Ma non per ferie o per rinnovo locali: era chiusa per sempre. 
Un faro che si spegne nel firmamento del consumismo.

Ci si interroga spesso sulla contrazione del mercato dell’abbigliamento. Sul calo delle vendite dei giornali. Sul picco negativo dell’audience televisiva. Li si ricollega  ad un più generale (e generalistico) calo dei consumi. Non c’è dubbio che le montagne di merce invenduta che ci circonda parla anche di questo.

Ma la crisi - pur relativa -, dei consumi allude a qualche cosa di più misterioso, più inquietante. 
Mi domando come mai, Roberto Giacobbo e il suo Vojager (con la sua trentina di spettatori), non si siano ancora occupati di questo affascinante e nebuloso risvolto economico.

In una società in cui i membri sono chiamati “consumatori” e ciò che si ha è ciò che si è, smettere di consumare (o consumare meno) è come smettere di parlare. Non comprare più un quotidiano, smettere di acquistare una marca di pullover, costringendo così i negozi a chiudere, significa sparire magicamente dalle griglie di statistica e analisi di mercato attraverso le quali veniamo studiati, analizzati, classificati. Attraverso le quali noi parliamo ai Grandi Burattinai.
Che questa mancata comunicazione avvenga perchè siamo meno ricchi o perchè siamo stanchi di certi consumi, è certo molto rilevante.

In entrambi i casi, però, è come se il telefono, il nostro telefono (quindi parecchi telefoni), cominciassero a squillare a vuoto. Un interlocutore abituale, un vecchio amico, ad un certo punto smette di dirti come sta, come si veste, cosa mangia. Come si muove e come ritiene opportuno informarsi sui fatti del mondo.

Forse è arrivato il momento che chi è dall’altra parte del apparecchio telefonico che squilla a vuoto, si ponga qualche domanda strana e irrituale. 
Come per esempio se abbia mai conosciuto chi effettivamente era dall’altra parte del telefono.

Non ci hai pensato, eh, Giacobbo...

sabato 7 maggio 2011

Non leggete questo post

 

Ci sono giorni, per fortuna anche solo attimi, in cui la vita assume le sembianze di un grumo oscuro di colpe. Senza possibilità di redenzione. A volte si è quasi risucchiati in questo vortice di afflizioni che ti segnano per tutta la vita. Una sensazione claustrofobica e cupa, sovente suggerita da episodi minimi, come quella che ho vissuto non più tardi di qualche giorno fa, durante la compilation di episodi vuoti – catalogato dagli ideatori di palinsesti come “il meglio di “ – della trasmissione “L’isola dei Famosi”.

Buona parte della puntata – che, vi giuro, è andata in onda in prima serata, su un canale nazionale e per due ore abbondanti -  verteva su liti di media intensità tra Nina Moric e Eleonora Brigliadori. Spesso intervenivano con parole di luciferina vuotaggine anche Simona Ventura e Vladimir Luxuria. Le loro cazzate si spingevano nei meandri della psicologia, andando a tastare il terreno minato delle cause dell’eterno dibattito tra il bene e il male. Ero quasi impietrito davanti allo schermo, incapace di premere il tasto del telecomando per evitarmi questa agghiacciante performance. Nonostante la mia paralisi fisica il mio cervello continuava ad arrovellarsi.

Ho pensato nell’ordine che il direttore di rete ha fatto male a concedere il benestare a questo insulso spettacolo.
Che, una volta che sciaguratamente hanno concesso l’andata in onda, avrebbero dovuto almeno vietarla ai minori; non tanto per i lati B e le tette concesse a piene mani, quanto per il terrificante messaggio della trasmissione.
Che ho fatto male a pagare il canone.

Poi ho pensato che la Moric e la Brigliadori hanno fatto male ad aprire bocca.
Che Simona Ventura ha fatto male ad invitarle, anche se erano l’attrazione dell’Isola. Poi ho pensato che ho fatto male a non cambiare canale (anche se le mie dita erano come anchilosate e la pila funziona ad intermittenza).
Che faccio male, in generale, a guardare la televisione e i reality in particolare.
Che forse ho fatto male a comprare la televisione.
Che la vita non ha senso.
Che fa più male un’ora di Simona Ventura che due settimane nella città più inquinata del mondo.
Che infine moriremo tutti quanti (Nina Moric, Eleonora Brigliadori, Vladimir Luxuria e io) segnati per sempre dall’insensato attimo vissuto insieme.

Infine penso che ho fatto malissimo a dedicare queste righe all’Isola dei Famosi. E che voi avete fatto malissimo a leggerle...

giovedì 5 maggio 2011

Un giorno al mare




Non sono molto contento oggi. Ho passato il pomeriggio a godermi il primo sole di maggio, ma non sono per nulla contento. Guardo meccanicamente il mare, gli scogli, di cui so a memoria anfratti e increspature, come visi di persone familiari che diventano invisibili per la troppa familiarità. Ad un certo punto stendono il loro asciugamano di fianco a me, due giovani. Sono quasi a contatto di sudorazione.

Li ho ascoltati per tutto il pomeriggio parlare del loro lavoro. Lavorano in un call center, pagati in nero, la miseria bastante a godersi, con me, il dì di festa e provare a mettere un asciugamano da qualche parte al mare di casa loro; un mare calmissimo e irrepetibilmente verde.

Fanno un lavoro di “merda”, il tipico lavoro di un call center: frapporsi fra chi ha bisogno di informazioni e chi dovrebbe darle, dando risposte che per lo più non hanno la possibilità e la scienza di dare. Il loro discorso non aveva il tono del lamento, ma della nuda e cruda constatazione: una frustrazione senza rimedio e senza consolazione. Trattati come pezze da piedi, come se il solo fatto di aver accettato quel lavoro fosse l'implicita ammissione di una colpa. Parlano anche dell'amica licenziata, appena la pancia ha tradito la scarsa produttività di una futura madre. Non solo nessuna certezza, ma nemmeno nessuna speranza, nessuna opportunità. Le loro frasi erano una specie di manifesto dei perdenti.


Questo ho ascoltato: la certezza di una precarietà immobile che dilaga dal lavoro all'anima, ai sentimenti. E ci ho pensato su tutto il giorno, sul mio ascuigamani in riva al limpido mare di Lavagna.

Ho pensato a questa generazione di lavoratori, alle molte centinaia di migliaia di giovani uomini e donne istruiti, cresciuti nella contemporaneità globale, e mi sono chiesto quanto sarà diversa la loro vita, se avranno mai maggior animo, maggiori speranze, più opportunità di emanciparsi dalla contingenza di una precarietà senza libertà, di quante ne aveva un bracciante servo, perso in un latifondo lucano nel cuore degli anni '50. Quanto peserà nel loro futuro di adulti, aver trascorso l'età della loro giovinezza nella frustrazione delle più degne aspettative, in una società che spiega loro che ciò che hanno avuto è il giusto e il resto è solo invidia di classe. Mi chiedo cosa resterà loro da dare ai propri figli, al mondo, all'universo, se non hanno per sé altro che un oggi da ripetersi all'infinito.

Ho passato una giornata di festa al mare pensando al lavoro. Non mi ha fatto bene...

lunedì 2 maggio 2011

Cercando il Generale



Io e Giusy siamo due persone fortunate. Tra le tante cose delle quali dobbiamo dire grazie al Signore, c'è anche il fatto che possiamo usufruire di un piccolo appezzamento di terra antistante al nostro appartamento. Nelle corrusche nottate di maggio non è raro che ci mettiamo seduti in mezzo all'erba a guardare il cielo.
Sì, il cielo.

Si sentono stridere le civette, cantare qualche raro grillo. Ci sono alberi che, baciati dalla luna, emergono prepotentemente dal paesaggio. Un primigenio 3D.

Il cielo sembra vicinissimo, molto più vicino del campanile di Santa Giulia. La notte era di una bellezza difficile da descrivere. Immensa, sonante nel suo vuoto siderale. Ti senti parte di una lavagna vergine che si lascia imprimere da qualsiasi fruscio, gemito, odore. Sono gli aromi e i rumori, le scritture di una notte di maggio. E noi due eravamo lì, apposta, per lasciarcene imprimere. Forse eravamo un po' dispiaciuti di avere occhi e narici così minorati rispetto alle civette, ai grilli. Rispetto all'immenso respiro del bosco.

Ci siamo seduti nel mezzo del prato: la terra era dura, ma lasciava trasudare l'ultimo tepore diurno. Verso Santa Giulia, nella collina di fianco a noi, un barbaglio infinitesimale di luce, lasciava intendere la presenza di un'auto: ma era l'unico indizio tecnologico nell'Universo che avevamo di fronte. Questo lapillo mi ha dato la forza di rollarmi una sigaretta.
Guardavo le stelle, fumando.
Faceva freddo.
Faceva bello.

Abbiamo guardato le scie degli aerei, cercando di indovinare le destinazioni. Erano tante le scie che passavano sopra di noi: cocci di vita con le loro valigie, i loro pensieri, le loro speranze. I loro drammi, quotidiani e straordinari. Quelle strie bianche sono il nostro spettacolo per farci pensare alle loro vite. Alle nostre vite.

A voce bassa, come soldati in trincea, abbiamo parlato dell'Universo Mondo. Con gli occhi fissi abbiamo sviscerato lo scibile intonso: il tempo, l'anima, il bene e il male. Man mano che il discorso si srotolava nel buio, qualche parola, inevitabilmente, si apriva un varco verso l'incontenibile altezza che ci sovrastava.

Fin dove ci potevamo arrampicare in una notte così, se tra noi e il cielo c'era solo un'occhiata?
Ci siamo arrampicati, è ovvio, quasi sino a dio. Solo per constatarne l'inevitabile assenza.
Per due soldati in trincea, come me e Giusy, non è per nulla semplice ammettere che non c'è il Generale. Da nessuna parte. Almeno, noi non l'abbiamo trovato.

Forse perchè eravamo disorientati da un giorno passato in mezzo alle immagini di persone trionfanti. Ma che mondo è mai questo, se grida ebbro di felicità per la morte di un uomo?
Spiegamelo, Generale, ovunque ti sia.
Fosse anche un mostro, ammesso che sia il male assoluto, ma che mondo è mai questo?
Spiegamelo, Generale...