domenica 27 febbraio 2011

L'Abc della democrazia


Quando andiamo in macchina io e Brunin sembriamo due pirla. Mi spiego meglio.
Girovaghiamo per ore e ore alla ricerca di un posteggio che non sia fuori dai limiti segnati e che non danneggi altri automobilisti costringendoli a manovre millimetriche per non danneggiare specchietti e fiancate. Missione impossibile.
Infatti, dopo aver parcheggiato la macchina, spento la macchina e chiuso la macchina, ci mettiamo a fare le simulazioni di uscita dal parcheggio dell'auto di fronte, quella di lato e quella dietro. Sembriamo due pirla, appunto, con un immaginario calibro in mano. Calcoliamo circonferenze e stabiliamo ipotetiche traiettorie di impatto.
Poi, inevitabilmente, scrolliamo la testa montiamo sulla macchiana, accendiamo e ripartiamo. Troviamo sempre posto in un parcheggio desolato nell'estrema periferia del paese (a due chilometri dall'osteria). Uno spiazzo enorme popolato da tribù di giovani borchiati che discutono sulla smontabilità e rivendibilità dei pezzi di ricambio della auto in sosta (compresa la nostra, cazzo).
Questa nostra prerogativa provoca l'ilarità e stimola l'arlia di Adelmo e Carmelo il marocchino. Ma loro vanno a piedi, non vale.

In una di questi viaggi della speranza (di trovare parcheggio ad una distanza accettabile), ci siamo imbattuti in una Bmw nuova fiammante che sporgeva di un metro dal parcheggio, paralizzando il traffico di una viuzza. Dopo una ventina di minuti, arriva una signorotta abbronzata, fresca di shopping. Alle mie rimostranze (stranamente educate) la signora mi fa presente che parcheggia in quel modo “per evitare che qualcuno mi blocchi”. Inutile spiegargli che in quel modo lei aveva bloccato una decina di macchine. Inutile, perchè lei se ne era già andata evitandosi il “vaffanculo” che mi stava sorgendo, spontaneo, dal più profondo dell'anima.

Si mastica amaro, di fronte ad un gesto di arroganza così serenamente rivendicato. La vita è piena di oltraggi ben peggiori, di soprusi, prepotenze e ingiustizie. È vero. Ma proprio per questo l'aggiunta di una così minuta tracotanza quotidiana, irrita. Irrita, forse anche a dismisura. È come uno scappellotto di fronte ad un Tyson incazzato; si potrebbe far finta di nulla. Ma è una minuzia che va ad aggiungersi alle preoccupazioni vere. E la non chalance con la quale si è maleducati (pardon: ricchi e maleducati) spiega meglio di molti trattati la facilità del sopruso, l'abitudine alla sopraffazione. Come la maleducazione è indice di violenza, l'educazione è l'Abc della democrazia...

venerdì 25 febbraio 2011

Elogio alla normalità



A volte mi manca proprio il mio oste Brunin. Mi basta varcare la soglia per veder appoggiato sul bancone di ardesia un calice di Vermentino con il supporto sfizioso di una bruschetta spalmata di pesto. Basta un’occhiata. Va tutto in automatico. Che bello...

L’altro giorno ho avuto la sfiga di entrare in un bar ipertecnologico nel centro di una città. L’insegna (abilmente invecchiata da un gruppo di esperti in marketing), proponeva il locale come un bar vecchio stile. I quadri all’interno erano depigmentati dal tempo, le pareti erano scaccheggiate di antichissimi avi con gli occhi lucidi. In un angolo del soffitto pendeva una perfettissima ragnatela; ma questo penso sia dovuta più alla scarsa pulizia che all’effetto vintage. Ero un po’ imbarazzato non lo nego.

Ed è proprio quando sono pervaso da questo tipo di sentimento che sono più proclive alle cazzate.
Infatti, puntuale, è arrivata. Eccola: ho chiesto al barista (un tipo abbronzato, con il gel e un orologio no-limits) un semplice caffè.

Mi guarda stranito, quasi incollerito. «Un caffè? Corto, lungo, macchiato caldo, macchiato freddo, un mocaccino, al ginseng. E soprattutto, in quale tazza?». Dico, sempre più a disagio – e quindi sempre più esposto alla gaffe - «Normale...». La cosa più stupida che si possa dire, lo so. Oggigiorno la normalità è bandita. Scazzatissimo mi fa un espresso e me lo appoggia sul bancone, evitando di incontrare il mio sguardo. Penso di fargli pena.

Mi rendo conto che la storia non è finita. Infatti: manca lo zucchero. Un’angoscia fossile mi sale da tutto il corpo fino ad arrivarmi alla gola. Ne esce un afflato che assomiglia ad un fragile preludio al pianto: «Mi scusi, lo zucchero?». «Lo zucchero? Ma come: di canna, dietetico, all’anice, al maraschino, fruttato? Oppure preferisce il glucosio, il miele alla castagna e quello all’acero?». Sudo freddo, trattengo i conati di vomito dalla troppa tensione. Ancora una gaffe: «Normale...». Il superabbronzato non mi sopporta di più. Mi appoggia davanti al muso una bustina di zucchero semolato, scrollando la testa. Finalmente sorbisco il normale caffè espresso, zuccherato normalmente.
Esco senza salutare (avrei voglia anche di un digestivo, ma evito...), fotografando mentalmente barista, locale e via, per non ripetere lo sbaglio.

Salgo sulla macchina e imbocco l’autostrada. Dio, quanto mi manchi Brunin...

martedì 22 febbraio 2011

Dura Lex, Sed Lex



Adelmo è incazzato. Ha in corso una diatriba con i suo vicino a causa di un muretto che, a dire del suo dirimpettaio, sfora di una decina d centimetri nella sua proprietà privata. Ma questa è l’ultima angheria, l’ultima goccia nel mare di cazzate che da sempre accompagna la vita di Adelmo: palle che travalicano inaspettatamente le palizzate, briciole che incautamente svolazzano nei poggioli sbagliati, volumi di televisori e radio che oltrepassano la soglia dei decibel della loro personalissima scala. Rami che inondano di ombra il muro di un altro.

Chiaramente sono andati in causa: non poteva essere altrimenti. E che diamine. Adelmo non sembra per niente impaurito dalle necessità che una causa civile comporta: avvocati, aule di tribunali, carte bollate. Io ne sono, da sempre, terrorizzato. Ma Adelmo, il mio amico Adelmo, non è una mosca bianca, e non è nemmeno un capitano di industria avvezzo a tutte le battaglie della vita. L’Italia è fatta di passaggi in tribunale che cambiano la storia. Conviene allenarsi se si vuole entrare negli elenchi degli aventi diritto.

Noi siamo l’unico paese al mondo, e il primo della storia, che sia riuscito a far fuori una classe dirigente senza rivoluzioni, nè elezioni politiche, nè ogni altro utensile in uso agli umani per fare della politica. Lo ha fatto a colpi di carta bollata. Ai nordafricani è bastato l’aumento del prezzo del pane. Noi avremmo promosso una class action e ci saremmo ritrovati tutti insieme in un immenso tribunale. Per noi questa è la Rivoluzione, da Tangentopoli in avanti.

La cosa deve essere piaciuta e anche molto. Perchè da lì in poi – cioè da oramai da vent’anni – l’intero paese è in preda ad un vero e proprio delirio leguleio.
Avvocati, giudici, pubblici ministeri, Gip e Gup sono popolari come Little Tony al tempo di Canzonissima. Certi  studi di avvocati associati hanno più dipendenti della Fiat. Le comparsate in Tv sono più richieste dagli sponsor che un discorso a reti a unificate di Obama. Non è un azzardo pensare che prima o poi anche Panini metterà in cantiere un bel album di figurine (già li vedo i ragazzini: ti do un Taormina per un Ghedini e, mi voglio rovinare, ti do anche il membro laico del Csm). È logico e non innaturale pensare che se due cittadini si guardano storto come minimo si rivolgono al Tribunale Europeo.

Ho sempre pensato che la nostra Costituzione sia intoccabile, sia un modello da seguire per tutti i paesi del mondo. Ma quella postilla che rende obbligatoria l’azione penale, ebbene, farei in modo di cambiarla.

Il rischio è quello di fare diventare la Magistratura come un gigantesco Telefono Azzurro, per un paese, come il nostro, fatto di bambini di ogni età...

giovedì 17 febbraio 2011

La consegna del silenzio



Sono un indefesso fruitore del treno, pur essendo conscio del fatto di essere seduto su uno dei luoghi più settici del mondo. Mi piace la sua intimità, adoro il fascino discreto dei vecchi “locali”, che uso prendere - a causa di un lavoro sballato cronologicamente rispetto agli altri pendolari - , alle ore più impensate: la mattina tardi e la sera tardissimo. Siamo una decina in tutto il convoglio. C’è il turnista in fabbrica, il docente universitario, la prostituta, il vù cumpra. E il giornalista “di chiusura”.
Tutti insieme in un microcosmo che contiene (oltre che batteri sconosciuti e perniciosisissimi) un ventaglio variegato di storie, problemi piccoli e grandi drammi. Il numero dei viaggiatori cambia a seconda della stagione e delle variabili impazzite: sciopero degli universitari, retate delle forze dell’ordine, metalmeccanici in subbuglio.
C’è invece una costante, che tutti amano rispettare: il silenzio, l’assoluto e rinfrancate silenzio. Ci salutiamo tutti con un cenno del capo, poi ci tuffiamo nelle letture più disparate o nell’osservazione attenta di ciò che avviene fuori dal finestrino (cioè il nulla ammantato da una fitta nebbia).

Capita, però, che qualche intruso della cosiddetta società civile si intrufoli nel nostro microcosmo, infischiandosene bellamente della consegna del silenzio. L’altro giorno erano due giovani donne di un’avvenenza artificiale che parlavano ad alta voce con un atroce accento emiliano. Erano molto fastidiose, come petulante era il trillio sincopato del loro telefonino che squillava in continuazione. Non abbassavano il tono della loro stridula voce nemmeno quando si trattava di conversazioni private. Io, la prostituta e il turnista siamo stati informati del fatto che una di loro aveva una tresca con un altro uomo diverso da quello con il quale era convolata a giuste nozze, che la stessa aveva fatto sesso non protetto e che quindi poteva incorrere in una gravidanza non voluta (ma comunque stava ingurgitando la pillola del giorno dopo) e che i prezzi delle Beauty Farm erano cresciuti al limite del sopportabile.

Non credo che esistano statistiche su quanti in Italia parlano a bassa voce e di chi, invece, grida. L’impressione è quella che il silenzio (o comunque il rumore moderato) sia una dimensione sconosciuta alla maggioranza delle persone. Provate, come forma di autodifesa, a chiedere a qualcuno di abbassare il tono della voce o addirittura di spegnere la radio quando si è in un luogo pubblico: la reazione che incontrerete sul viso dei casinisti non è rabbia: è sbalordimento. Segno evidente che gli urlatori a) non si rendono conto di urlare; e b) per gli urlatori il rumore è una soave compagnia. Chi chiede loro di fare silenzio fa la figura del rompiballe eccentrico, dell’ombroso nevrastenico, del guastafeste che aborre il frizzante buonumore che è dato (per motivi a me sconosciuti) dal frastuono. Ma il punto è un altro.
La leggera malinconia che avvolge il silenzio è visto come un insopportabile affronto.
E poi il casino allontana, per sempre, il rischio pericolosissimo del pensiero... 

martedì 15 febbraio 2011

Incontri ravvicinati del terzo tipo


A volte si intavolano le discussioni più strane all’osteria di Brunin. C’è Adelmo che pare fatto apposta per trovare le storie più bizzarre che accadono nell’universo mondo. L’altra sera se ne è arrivato al bar con un ritaglio di giornale. C’era scritto che un’organizzazione mondiale paga appositamente – e profumatamente – un donna per accogliere gli alieni in caso di improvvisa apparizione. Sbalorditivo.
Brunin era distratto da Carmelo il marocchino che voleva affibbiargli il ventitreesimo paio di calzini bianchi da tennis. Lui oppone un netto rifiuto, ma alla fine cederà. Sono sicuro. Praticamente il mio oste è un campionario vivente della merce venduta da Carmelo (come del resto tutti noi). Un po’ per alleviare il nervosismo della contrattazione, un po’ per sentire anche l’opinione di Giovanni da Padivarma – un giramondo venditore di marmi – Brunin la butta lì: «E se dovessimo dare un oggetto ad un alieno per simboleggiare l’Italia che cosa gli potremmo dare?». Silenzio di tomba.

Il primo ad esprimersi è stato Carmelo (che dopo i calzini stava tirando pericolosamente fuori dalla borsa di plastica un pullover damascato: orribile): «Un piatto di spaghetti», e giù a ridere.
Prova Adelmo: «In quadru» (Un dipinto: nota del traduttore). Io, Carmelo e Brunin facciamo cenni di assenso per sottolineare la saggezza della proposta.
Ma i nostri sguardi vanno a Giovanni, che nelle ristrette mura dell’osteria è noto come Cassazione, vista la sua micidiale cultura e la sua insaziabile sete di apprendimento. Giovanni Cassazione scrolla la testa è pronuncia la sua sentenza: «Io gli darei una foto degli ultimi G8». Silenzio di tomba. Carmelo approfitta del buco audio per decantare le qualità del pullover damascato. Ma è zittito da tutti noi. Cassazione comincia a spiegare.

Gli alieni potrebbero essere stranamente interessati alle vicende politiche italiane, viste le anomalie che sono oramai sulla bocca di tutti. Basterebbe mettergli davanti al muso le foto di gruppo dei G8 che si sono svolti in Italia. A quello di Napoli nel 1994 c’erano Clinton, Major, Mitterand, Kohl, Eltsin, il canadese Chretien, il giapponese Murajama e Berlusconi.
Nel 2001 a Genova c’erano Bush, Blair, Chirac, Schroder, Putin, Chretien, Koizuni e Berlusconi.
A L’Aquila nel 2009 erano presenti Obama, Brown, Sarkozy, Merkel, Harper, Aso. E naturalmente Berlusconi.

Cassazione non ha aggiunto altro, ha finito la sua birra e se ne è andato, non prima di aver indossato un orribile pulloverino damascato...

venerdì 11 febbraio 2011

L'autorevole Moody's


Nonostante il nome che rievoca soffitti bassi, pinte di birra, freccette e inglesi che fanno bisboccia, pare proprio che Moody’s abbia un’autorevolezza planetaria.
Gli operatori dell’informazione, ma anche politici e vip, quando menzionano questa agenzia mai omettono di omaggiarla con l’aggettivo “autorevole”. L’autorevole Moody’s.

L’altro giorno i sodali di questo circolo finanziario hanno promosso la Fiat, illustrando con termini spocchiosi e tecnicissimi, che l’azienda torinese sta andando dalla parte giusta. Spesso spendono parole anche sull’andamento della coltivazione delle banane in Venezuela e sulle gastriti di qualche principe mediorientale. Quando qualcuno di loro, tra una freccetta e l’altra,  esprime un giudizio negativo su una minuscola cazzata produttiva planetaria, i nostri soldi in banca valgono meno. E questo, perlomeno, è poco corretto. Come se un distinto signore in bombetta va al casinò e perde dei soldi e io che me ne sto al bar mi vedo raddoppiato il prezzo del caffè.

Io non sono autorevole, soprattutto quando si parla di macrofinanza: ho la stessa competenza di economia che Salvo del Grande Fratello ha della meccanica quantistica. Però vorrei una volta ogni tanto, affiancare l’autorevole Moody’s all’altrettanto autorevole Adelmo, che non parla inglese, ma un perfetto ligure, una lingua dolcissima che rievoca le atmosfere sudamericane. Questo non per sbugiardare l’autorevole Moody’s (me ne guarderei bene) ma piuttosto per contrapporre anche il giudizio di chi si alza tutti i santi giorni con l’intento non di andare a fare un brunch, ma per collocarsi davanti ad una catena di montaggio. Questo in un governo davvero  democratico e progressista.

In estrema sintesi si tratterebbe di confrontare i giudizi dell’autorevole Moody’s con quelli dell’autorevole Adelmo, in modo tale da avere, sull’economia, due pareri complementari, dal micro al macro.  La mia impressione è quella che i due punti di vista possano spesso essere in disaccordo. Ma non è detto. Potrebbe anche essere in sintonia.

L’unico scoglio è la lingua: quella testadura di Adelmo si ostina a parlare in vernacolo ligure anche con Carmelo il marocchino.

Superato questo inghippo, se dovessero trovare un punto di vista omogeneo, allora sì che Moody’s potrebbe dirsi finalmente e imperituramente autorevole...

martedì 8 febbraio 2011

L'ultima moda



Spesso non ce lo scambiamo più. Non costa nulla, ma il saluto all’osteria di Brunin pare essere bandito. Almeno quello tradizionale. È sostituito da un grugnito onomatopeico o una timida alzata di mano. Non che stiamo in uggia l’un con l’altro. Quello che evitiamo è pronunciare il classico «Come va?». La risposta è sempre, inevitabilmente, la solita: «E come vuoi che vada...». È quasi un codice, regolamentato dalle ultime vicissitudini. Tasse, influenze, lavoro che non c’è, burocrazia. Il Genoa che non vince...

Siamo perennemente incazzati, insomma. Uomini e donne, aldilà della conformazione genitale (strano, no?). Non si tratta di malinconia o tristezza o paura, sentimenti più profondi che necessitano un’analisi più ampia.
Siamo incazzati, un termine triviale che rappresenta alla perfezione l’acrimonia spicciola, l’ira ambulante che ci portiamo dietro quando entriamo nei bar, all’edicola, nei capannelli delle piazze.

Ma la domanda da porsi è da dove nasce questo malanimo tutto italiano. A meno che non si voglia filosofeggiare alla maniera delle più sfigate compagnie di sventura, occorre ammettere che ci sono più soldi, più salute, più vacanze di qualche decennio fa. Chiunque possiede una macchina, un paio di telefoni cellulari, una casa più che decorosa. Si deve supporre, allora, che questa acredine sedimentata nel tempo rappresenta una supremazia del benessere psicologico nei confronti dei beni materiali. Potrebbe. Più semplicemente penso che questa rappresenti una moda, l’ultima moda. Assomiglia sinistramente ad un “non datemi fastidio”, “fatemi passare”, “non sgualcitemi la giacca”. Rappresenta il sentimento di chi non ne hai mai abbastanza, di chi si sente perennemente fregato dallo Stato, inchiappettato dai colleghi, fottuto da un epoca ingrata.

Ci difendiamo con piccole paranoie bipartisan da debellare a tutti i costi: l’invasione dell’Islam, il comunismo, il berlusconismo. E poi ancora il salutismo, il consumismo.

Ma la domanda “come va?” è troppo importante per essere liquidata rispondendo a seconda del mal di testa mattutino o dell’ultima contravvenzione finita sulle cartelle esattoriali. Le condizioni di miseria e guerra, sopraffazione e odio che affollano altre e più lontane contrade cambiano il nostro malumore quotidiano in un semplice vezzo cretino, in una scorreggina in mezzo ad un trambusto di martelli pneumatici. Forse bisognerebbe pensare solo per un attimo, uno solo, al gran culo che abbiamo avuto a nascere qua, con il Golfo dei Poeti a portata di mano e le bidonville di Caracas lontane mille e mille miglia. Quella dell’incazzatura perenne, dai nostri posteri, sarà catalogata come la grande recita italiana in questo scorcio d’epoca.

Nel frattempo il tempo passa e nell’osteria di Brunin entra Carmelo che, alla faccia del nome, è un venditore ambulante marocchino. Ha una stimata età di 40 anni, quattro figli in patria, i piedi gonfi dal troppo camminare e una fame atavica da soddisfare. Lui è l’unico che contravviene alla regola. Sorride (sempre) e chiede (sempre) «Come va?». Risponde Adelmo per tutti: «E come vuoi che vada»...

sabato 5 febbraio 2011

Locandine tempestose


Lo schiaffo del Quirinale: Napolitano ha fatto l'unica cosa che poteva (e doveva) fare, ovvero seguire la procedura costituzionale.
Il Tesoro di Tanzi: una paio di credenze tarlate dimenticate in uno scantinato del Parmense.
Scintille tra Fini e Barbareschi: una polemicuccia sbadigliante tra due amiconi.
Parla la regina del Bunga Bunga: confidenze di una escort nordafricana sulla cucina etnica e sul suo rapporto con il mascara.
Allarme in Casa Juve: Luca Toni ha la dissenteria.
Choc al Grande Fratello: uno sconosciuto manovale tira un moccolo ed è rispedito a casa sua (è il terzo in due mesi).

Ecco come si può tramutare un giorno qualunque in un inizio di Apocalisse (in attesa di quella vera: 21 dicembre 2012. Appuntiamocelo). Dobbiamo essere grati ai titoli dei giornali. Trasformano la Noia occidentale in una specie di drammatica piece teatrale infarcita di duelli all'ultimo sangue, tesori pirateschi, approdi da tempeste inenarrabili.

È la dimostrazione che tutte le vite – perfino le nostre – possono diventare avventurose e tragiche. Ma avventura e tragedia scorrono da altre parti, o troppo alte e troppo basse perchè possano colpire una qualsiasi edicola del nostro Paese.

Andiamo mestamente dal giornalaio, preparandoci alla nostra dose di preghiere laiche e quotidiane, avendo bene in testa che la distanza che c'è tra la comodità dell'informazione occidentale e la cruda vita è la stessa distanza che esiste tra Jules Verne e il centro della terra...

giovedì 3 febbraio 2011

Prova di virilità

Sono curioso per natura. Spesso mi sintonizzo su canali sconosciuti ad ore improponibili per guardare programmi impensabili. Una di queste frequenze era occupata da documentari di paesi lontanissimi. Spiegava con dovizia di particolari che presso certi popoli primitivi usava, come iniziazione all'età adulta, sottoporsi a dolorosissime prove fisiche, come appendersi a ganci accuminati e arruginiti o gettarsi da una rupe con una fune alla caviglia. È con lo stesso spirito che ogni tanto mi sintonizzo sul Tg4 di Emilio Fede. Voglio dimostrare a mia figlia Chiara di essere diventato finalmente un uomo. Speriamo che basti.

Siamo così abituati a ridere di Emilio Fede e dei suoi telegiornali da avanspettacolo, che spesso ci scordiamo che per ogni persona che lo guarda come prova di coraggio, ce ne è un'altra che lo prende sul serio (vi giuro che è così). L'italiano che non lo guarda con allegria, è vittima di un palese furto: è derubato, a sua insaputa, di quel poco di verità che ancora ci resta.

Ho sentito la sua patetica auto difesa sui fatti di cronaca che hanno interessato il trio delle meraviglie Berlusconi-Fede-Lele Mora e, serenamente, cordialmente devo ammettere che ero schifato.

I suoi commenti sono stati bugiardi, faziosi, sfrontati, servili e con una vena di violenza nel riportare pochissimo e malissimo le esternazioni di chi, giustamente, si sentiva contrariato da quello che è successo all'interno della casa del Primo Ministro. Di contro, ampio risalto alla difesa affannosa dei rappresentanti del governo raccontata con enfasi al limite con il disgusto.

Fede continua a farci ridere. Ma in termini di onestà professionale è un ladro, perchè ruba ai telespettatori una fetta sempre più consistente di realtà.

L'acme della mia personale prova di virilità (praticamente quando il gancio mi stava squarciando il coppino) è stata quando Fede, guardando fisso la telecamera, ha dichiarato che nella residenza del Primo Ministro “non è successo niente di strano”.

Allora, acciambellandomi sul divano per limitare i danni di questa affermazione, mi sono chiesto: “Ma si può dire, in televisione, una cagata del genere senza sprofondare?”.

La risposta è: sì, si può dire.
Alla faccia dell'Ordine dei Giornalisti...