martedì 27 marzo 2012

La catena di Sant'Antonio




Dunque facendo un rapido conto, tra aliquote varie, Imu, aumenti della benzina e tagli vari il decreto salva Italia costerà agli italiani un bel gruzzoletto.
Con metà di quei soldi il Paese sistema i conti con Bruxelles, con l’altra metà proverà a rilanciare, per quel che può, l’economia. Questo negli intenti dei tecnici. Si tratta di vedere se la seconda parte funzionerà (la prima funziona per forza).

La vulgata comune è quella che siano soldi rubati alla gente per essere dispersi al vento, usati per ulteriori prebende a chi già ne usufruisce, sperperati per dare un senso a quell’esercito di burocrati che paga il contribuente. Pare che questa sia la sensazione di massa, quello che senti dire in fila alla Asl e al supermercato. Allora viene da chiedersi cosa stia succedendo; chi e perché sia riuscito a mettere in testa alle persone che si tratti della più grande rapina del secolo.

In questi tempi mi hanno colpito alcune cose circa le faccende di soldi. Milioni di spettatori stanno attaccati alla tv per seguire trasmissioni in cui risulta con cristallina evidenza come la corruzione, il furto di bene pubblico, il clientelismo, abbiano raggiunto gradi di sfacciata esuberanza mai visti nemmeno nel cuore del disfacimento degli anni ’80. Risultano scioperi, manifestazioni di protesta, esecrabili atti di ludibrio? Non mi pare.

Eppure il frutto velenoso se lo mangia la gente che non ha assistenza sanitaria degna, servizi efficienti, politica affidabile. Quanti decreti salva Italia ci si pagano con quello che si ruba ai cittadini con il malgoverno dei paesi, delle città, delle regioni? I furti li pagano i contribuenti, mica i mariuoli. Ed è incredibile come tutto questo venga buttato giù, senza sforzo, senza un conato. Per cos’altro, se non per questo, ci si dovrebbe aspettare una rivolta popolare? Almeno in un Paese mediamente cosciente, mediamente democratico, mediamente civile. E invece guardi gli inquisiti, i processati, i condannati, aggirarsi per il Paese con la tranquilla protervia di chi è al sicuro; non solo dalla legge, ma dal sentimento del popolo derubato.

Così mi viene da pensare che per una significativa parte della mia gente questo non sia un Paese, ma una torta da spartire fino all’ultima briciola. Mangi tu e mangio io; tu fai i comodi tuoi, io faccio i miei. Il modo per tirare avanti c’è per tutti, volendo.

Ci sarà sempre qualcosa da fare per continuare ad affettare la torta, perché una briciola spetti a ciascuno, anche al più disgraziato. Infatti in questo Paese nessuno muore di fame anche se ha il pane più caro del continente. Infatti, un’impresa sbagliata si può sempre mettere in piedi, tanto mi danno le sovvenzioni. Infatti, alla fine, un lavoro inutile dove ci sia poco da fare, salta sempre fuori; per via di quella conoscenza che apre le porte.

Pensateci bene, amici miei: è la più colossale e perfetta catena di Sant’ Antonio mai vista...

martedì 20 marzo 2012

L'orgoglio di essere uomo



È la mia anima la prima ad accorgersi che la primavera è arrivata, prima ancora della collina di Santa Giulia che mi guarda con occhi spalancati da Levante. Non è un segno tangibile, ma una specie di brezza che mi risveglia l’anima. Annuncia che è arrivata: turgida, madida, odorosa. Colorata.

Ma la primavera è una mera faccenda di profumi e colori. Il verde smorto della salvia, quello brillante del basilico, quello serioso e setoso degli ulivi. Migliaia di nuance per lo stesso colore.
E poi il blu dei narcisi. Dei miei narcisi, che fino a due settimane fa erano appena foglie in germoglio e oggi a guardarle mi viene da piangere. Tutti in fiore, tutti assieme; e io che l’ho pregato e ripregato di fare con moderazione, a turno, di regalarmi il miracolo di un fiore alla volta. Che è il lusso più squisito e proibito che io sappia immaginare. Macché, eccolo, all’unisono in fiore. Decine di campanelle, che se ne infischiano dell’avvedutezza e della parsimonia, vogliono solo essere fiori e godere del loro giorno di splendore. Mi fanno un dispetto ma hanno ragione. Vogliono esistere per la loro stessa funzione: quella di colorare il mondo e la vita.

Tra un po’ anche i petali delle rose planeranno sulle creuze che portano alle pievi di collina. Serviranno ad accompagnare le orme delle spose che si avvieranno agli altari in pietra, mentre gli uomini aspettano sul sagrato rasati e odorosi di una qualche colonia in voga, con la cravatta stretta ad un collo che dal giorno dopo dovrà tollerare pesi che fanno finta di aver dimenticato. 

So ancora immaginare tutto questo, anche se la scena è un po’ desueta: una antica primavera di un’umanità innocente e colma di attesa.
So ancora immaginare il tempo delle fate, il tempo degli incantesimi d’amore, dei canti che finiranno a notte sotto la prima luna del mese, sotto la luna dove tutto cresce.

Vorrei continuare a immaginare tutto questo sino all’ultimo respiro. Vorrei essere un uomo capace di essere testimone di ciò per cui si vive senza l’agonia del sopravvivere.

Ci sarà ancora tra cent’anni e cento ancora qualche chiesa aperta sulla collina, qualche fiore ancora capace di fiorire per me.

Che altro sperare da un giorno di marzo, se ancora mi resta un poco di innocenza e abbastanza orgoglio di essere uomo?...

giovedì 15 marzo 2012

Penne di strada








Facendo zapping sul Web può capitare di imbattersi in scritti che attirano la tua attenzione. È il caso di questo post, scritto da una cronista di un quotidiano nazionale. Di quelle per intenderci che danno ancora un senso al giornalismo: quello prettamente locale, quello fatto sulla strada. Quello vero. Si chiama Eva Del Bufalo e di seguito vi propongo il post, sperando di farvi cosa gradita.



“Mi aspettano, cavolo, sono in ritardo!”. E il suo piede affonda il pedale sull’acceleratore, si sorprende assorto e rallenta, appena in tempo per scalare marcia poco prima di una pericolosa curva a gomito.

Fissa dapprima distrattamente lungo il bordo della strada il guardrail accartocciato su se stesso e un mucchio di lamiere arrugginite, un sottile nastro bianco e rosso delinea appena visibile la curva senza delimitazioni e un segnale stradale: pericolo strada sdrucciolevole.
L’immagine in sequenza, tra il cambio di marcia, il pensiero del ritardo e la strada, si dilegua istantaneamente, per tornare qualche minuto dopo e qualche metro d’asfalto più in là.

“L’appuntamento con il direttore può attendere, sento che c’è qualcosa di strano, in fondo anche questo è lavoro!”, così pensa un cronista di provincia come tanti altri, al suo secondo anno di lavoro, sta per incontrare un entusiasta direttore, convinto che gli affiderà un’importante inchiesta, in preda al più brillante ottimismo mattutino. Le nove meno un quarto, decide di accostare l’auto, istintivamente è condotto verso il luogo in cui la strada è sconnessa e il fiuto gli dice “C’è qualcosa sotto!”.

Prende a camminare, passo a passo, lo sguardo ricerca il suo obiettivo, arriva proprio lì sulla curva ma ci arriva dal campo limitrofo, al di sotto della strada, al di là della delimitazione del nastro, scorge una montagnola di terra ammassata di fresco, la smuove leggermente con il piede,  qualcosa di roseo e rossastro esce fuori prepotentemente.
È una prostituta, probabilmente ventenne, la chiameremo Vania, il corpo è dilaniato con taglio chirurgico, è stata sviscerata come un pesce, gli organi interni sono assenti. Tagliato a pezzi, il corpo è stato accatastato con zelo di ordine e ricoperto. Nessuna traccia dell’assassino, totale pulizia quasi asettica; se non fosse per quel bel viso, nessuno avrebbe scoperto la femminilità di quei resti.
Questo il responso dei primi accertamenti dei NAS, località Ardeatina. Le indagini sono ancora in corso.

Mario arriverà molto tardi al suo appuntamento, ma ciò che ha scoperto quella mattinata lo terrà grandemente impegnato per tutti i mesi successivi, grazie a questo lavoro si potrà dare dignità e rispetto ai resti abbandonati di una donna abbandonata. Vittima ed emblema di miseria e ferocia, due aspetti diversi di un’identica disperazione.

Eva Del Bufalo

martedì 13 marzo 2012

Ma dov'è 'sta Palestina?



Aveva l’aria di chi veramente se ne intendeva. Mostrava di sapere come vanno le cose, perchè non vanno e di chi è la colpa. Prendere l’espresso al bar è anche questo: vivere per una frazione di minuto gomito a gomito con ogni tipo di persone. L’altro giorno ho scontrato le mie orecchie con una frase pronunciata da una signora abbronzatissima, con chilometri di meches e una quintalata di anellame. Denti bianchi da far invidia e il suo bel cagnolino aggrappato alle unghie smaltate.
Ha detto (testuale): “Ma si può sapere una volta per tutte dove cavolo è ‘sta Palestina?”. Questa donna, a occhio e croce, fa parte di quella categoria di umani denominata (approssimativamente) classe media.

Un tempo lontano, aimè, molto lontano, questa particolare classe spiccava in virtù di qualità diverse e concomitanti, non solo di natura materiale ma anche intellettuale. Era gente che ricavava e spendeva non per rendita ma per lavoro. Non avendo rendite di posizione di nessun genere era spinta ad essere libera, sperimentare e di agire nella società. Era portata al rinnovamento, elettivamente avanguardia dei movimenti di pensiero politico e religioso.

Ecco, se la classe media si identifica non per un censo, ma per una forma mentis, uno stile di vita e di lavoro, un'etica di classe, oggi non c'è niente di più stupido che confinarla in uno scaglione di reddito. E oggi non c'è niente di più arbitrario che definirsi membro della classe media in base alla propria disponibilità di reddito o alla sua indisponibilità.

È per questo che in Italia non esiste una classe media, ma solo suoi brandelli. Ciò che con intenzionale mala fede è spesso confuso con classe media, è quella che Indro Montanelli chiamava "la plebe borghese". Mentre i professionisti si indignano perché oppressi dall'impoverimento dovuto alla liberalizzazione delle loro professioni e dall'evenienza di una meno agevole evasione fiscale, i loro colleghi in diverse parti del mondo (anche nel mondo arabo, per esempio) sfilavano per protestare contro un altro genere di impoverimento: contro la riduzione delle spese statali per la cultura. In altre parti del mondo, lontano da noi, ha manifestato la classe media, in Italia la plebe borghese.

Quello che mi chiedo, e vi chiedo amici miei, è: ma questo Paese, questo Stato e questo e i passati governi sanno farsene qualcosa di una classe media attiva e prospera, riconosciuta nella comunità per ciò che sa fare, vuole fare, vuole chiedere, sa pretendere?
O hanno casomai voglia di chiudere i conti e preferiscono vedersela con i più semplici, carnali, interessi della plebe borghese?...

giovedì 8 marzo 2012

Benvenuti nel paese dei balocchi




Ci sono gli orsetti e le paperelle, ma non è il mondo dei balocchi. Si parla con frasi elementari e i pensieri sono raffigurati a fumetti, ma non siamo all’asilo nido. Fa sempre tenerezza prendere in mano il catalogo Ikea. C’è una storia metropolitana che indica come condizione essenziale, per lavorare all’interno della ditta di mobili e accessori svedesi, quello di essere un po’ matterelli.

Questa atmosfera che ti riporta a Pippi Calzelunghe e Winnie The Pooh è adattissima ad un adolescente. Il guaio è che il target di Ikea è il pubblico adulto.

Oltre al tentativo di riportare i consumatori all’infanzia, Ikea si attribuisce una missione ideologica: favorire la giustizia sociale attraverso i prezzi bassi. Se tutti hanno i soldi per comprarsi i mobili trendy, nessuno potrà sentirsi più raffinato di altri. Ovvero, con quattro pezzi di legno – ed una adeguata e costosa campagna stampa – gli svedesi hanno portato ad livello estremamente pratico il concetto di socialismo. Non contenti di arredarci la casa, ‘sti furboni di scandinavi, ti offrono anche il salmone a prezzi concorrenziali. Per non parlare degli hot dog (80 centesimi a panino...).
Il livellamento moderno, per dirla alla Kierkegaard.

In una società come la nostra, inequivocabilmente infantile, Ikea fa centro. Si comporta allo stesso modo di un buon padre di famiglia, che si preoccupa che tutti i figli siano trattati alla stessa maniera.

Non so a voi, amici miei, ma quando entro all’Ikea ho come l’impressione che tutti i problemi possano essere risolti.
Il guaio è che poi, una volta passati dalla cassa, ci tocca ritornare alla realtà...

lunedì 5 marzo 2012

Ama e fai quel che vuoi



Nemmeno il tempo di metabolizzare il folle gesto di un ex marito che uccide a fucilate la ex moglie e il suo nuovo compagno - e tanto che era nelle spese ha fatto fuori anche la figlia di lei e il suo fidanzatino -, che le cronache della civilissima Italia ci danno notizia dello strangolamento di una donna da parte di un gelosissimo marito.

I delitti in famiglia negli ultimi anni sono decuplicati. Il rischio è quello di assuefarsi a questo tipo di tragedie. I siti dei maggiori giornali retrocedono gli articoli inerenti questi delitti in seconda fascia, sorpassati dalla cronaca estera (Iran, Raussia) e dall'economia.

L'argomento è talmente serio che è difficile semplificare o, peggio ancora, polemizzare. Ma un sassolino nello stagno, forse è il caso di lanciarlo.

Proviamo a chiederci se ciò che oggi chiamiamo “famiglia” (ovvero padre, madre e due figli: niente a che vedere con le affollate tribù di una volta), corrisponda ancora al famoso – e abusato – concetto di “nucleo fondante della società”, benedetto dalla Chiesa e dalla politica. Oppure non sia, spesso, un guscio impaurito, all'interno del quale implodono umori, si guastano e deflagrano le passioni, covano rancori e si fabbrica violenza.

Il dibattito sulle unioni civili, sulle famiglie allargate, sui nuovi rapporti, vanno inevitabilmente ad intaccare il vecchia assetto famigliare (oramai svuotato di contenuti).
Forse è meglio che l'affidabilità del nucleo famigliare sia affidata alla dignità del singolo individuo, rottamando – finalmente – la monocratica e obsoleta idea che la famiglia “tradizionale” sia l'unica via di salvezza possibile.

Ama e fai quel che vuoi”, lo diceva Sant'Agostino. E lo ripetevano, forse inconsciamente, anche i giovani hippie nel Sessantotto.
Almeno una cosa – i sessantottini, dico – magari l'avevano capita per tempo.
E forse, pirma del tempo... 

giovedì 1 marzo 2012

Liberate Rossella Urru



Basterebbe una sola frase: liberate Rossella Urru. Basterebbe quello. Basterebbe dire che era in un luogo dove serviva aiuto e l’hanno rapita. Cercava di far conquistare ad un popolo martoriato un minuscolo spazio di povertà dignitosa. Basterebbe questo. Liberate Rossella Urru.

Ma gli scribacchini hanno il riflesso condizionato di scrivere, anche quando le parole hanno poco senso. Occorrerebbero gesti. Ma gesti io non ne posso fare, mi devo accontentare della forza densa e viscida delle parole, il raschio duro e appassionato della penna sulla carta. La tragedia dell’umanità sono le parole: miliardi di sensazioni, miliardi di concetti e pochissimi vocaboli per descriverli. E poi, non lo so, scrivere di lei mi dà l’impressione di essere stato promosso ad un livello di esistenza superiore. Liberatela. Liberate Rossella.

L’hanno detto mille voci, zuppe di dolore autentico. L’hanno detto in molti, ognuno con il mento sulla spalla dell’altro, ognuno a guardare il proprio mondo. Per lei il mondo era una pianura sbigottita di siccità. Per lei la vita era la vita del popolo Saharawi.

L’hanno presa nella notte tra il 22 e il 23 ottobre 2011 in un campo profughi nei pressi della città di Tindouf in Algeria.  L’hanno presa alcuni uomini armati del Mali. E devo fare uno sforzo sovrumano per non chiamarli rapitori o delinquenti o malviventi, perchè anche in questo caso, occorre comprendere e non giudicare, perché ci sono solo vittime, non colpevoli.

A volte i modi di dire hanno un effetto terrificante: il fine giustifica i mezzi, per esempio, ha fatto commettere i crimini più atroci dell’umanità. Se c’è di mezzo un guadagno, puoi convincere un sacco di persone a raccontare la stessa bugia. E quando tutti raccontano la stessa bugia, allora non è più una bugia. Non più. Liberate Rossella. Liberatela.

Da allora, da quella notte, il tempo è passato con un lento ma implacabile movimento di usura. Da allora la notte è sempre più buia; in cielo ci sono miliardi di stelle, ma non luccicano, sono come impolverate.

Liberate Rossella Urru.
L’hanno detto mille voci.
Lo dico anch’io, rivolgendomi ad un Dio preso in prestito in questo istante.
Sperando che sia quello giusto...