mercoledì 31 agosto 2011

Il mistero svelato




Chissà che essere alieno ha partorito in qualche mostruosa regione del cervello il personaggio di Maurizio Gasparri. È la storia dell’uomo qualunque, preso a caso per la strada mentre va a prendere il cappuccino al bar, che di colpo diventa un politico, un parlamentare, perfino un ministro della Repubblica. Sembra una bella favola. Troppo facile per comici e caricaturisti sfruttarne l’immagine per fare il loro lavoro.

Io sono al ligio al detto che a tutto c’è una ragione. Quindi anche all’esistenza di Gasparri. Dopo anni di studio sono arrivato alla soluzione.

Da quando è sceso nell’agone politico nazionale intuivo che il volto e l’espressione di Gasparri – che paiono scompaginati da un recentissimo scoppio di un petardo – ci dicono qualche cosa di importante. Ma non capivo cosa. L’atra sera nel corso di un Tiggì sono stato colto dall’illuminazione.
Il volto e l’espressione di Gasparri ci dicono che la politica italiana terrorizza per primi gli artefici stessi. Non la capiscono e non la controllano più. Non ne sono i protagonisti, ma le vittime.

Le parole con le quali tentano di spiegarci in pochi secondi quello che non hanno affatto capito servono soprattutto – se non solamente – a rassicurare loro stessi.

Fateci caso: ogni colpo di telecamera, ogni domanda (anche la più semplice tipo: che caldo che fa) coglie il senatore Gasparri attonito e stralunato, come la cernia nei documentari di Jacques Cousteau. Risponde a tono (è allenatissimo), ma è lo sguardo tondissimo e fisso che colpisce - ma affratella - lo spettatore, il quale si sente portatore dello stesso sentimento di sgomento.

Da dove veniamo? Dove andiamo? Chi siamo? Quando vincerà il prossimo scudetto il Genoa?
Di tutti coloro che sono preposti a sciogliere questi dubbi, Gasparri è il più promettente. Il suo volto sbalordito ci fa sperare che sia proprio lui il primo a confessarci (finalmente) che non lo sappiamo, nè mai lo sapremo...

martedì 30 agosto 2011

Una proposta sensata




Giochiamo un po'. Così come vedo in questi giorni per l'ennesima volta squagliarsi nel torrido l'illusione di un po' di tregua – non dico di pace, che ormai la pace so per certo che non è di questo mondo – quello che propongo è un po' il giocare melanconico e affannato di ragazzini sulle macerie di una guerra mai finita; ma c'è del buono in quei ragazzini, c'è del buono nell'ostinarsi a vivere tra le macerie. E dunque giochiamo, giochiamo a pallone.

Non mi riesce ancora di capire se ci sarà un campionato di calcio quest'anno. Certamente non secondo il calendario “normale”. Dipendesse da me, coglierei l'occasione per fare scelte politiche di vasta lungimiranza; chi ha detto che la politica non deve invadere i campi di calcio? A parte il proprietario del Milan, l'unico sportivo di questo Paese a sostenerne coraggiosamente l'assoluta indispensabilità, ormai una vasta area di pubblica opinione condivide la necessità di una politica del pallone. Io propongo per il campionato di serie A le due seguenti opzioni squisitamente politiche.

1. Non disputare il campionato. Un anno di astinenza dal traffico dei diritti pubblicitari e televisivi, un anno di riflessione e di penitenza, perché no? Ne usciremmo tutti mondati, ripuliti. Ritroveranno le società, e noi con loro, un innocente zelo di redenzione e rinascita. Il prossimo campionato si prospetterebbe meravigliosamente eccitante. Gli americani l'hanno fatto a suo tempo con il loro football e ne sono rimasti più che contenti, tanto che stanno lì al varco per rifarlo alla prima avvisaglia di schifezza.

2.  Far disputare il campionato solo da due squadre: Inter e Milan. Scelta coraggiosa, mi rendo conto. Vista con il mio occhio, genoano, anche assai generosa, visto che da come si mettono le cose in serie A, avrei se non da sperare nello scudetto, la Champions me la sentirei già a casa. Ma dobbiamo saper fare scelte capaci di stupire. In nome di un mondo nuovo di giustizia e equità. Facciamo giocare alle due milanesi una ventina di derby e sistemare la faccenda una volta per tutte.

E gli altri calciatori? La mia proposta interessa solo la serie A e il mondo del calcio professionistico; quindi spazio al calcio amatoriale. Come giusta ricompensa dopo anni passati ad assistere a rinvii alla viva il parroco, campanili improponibili, svirgolate memorabili, i tifosi della Valtarese o del San Bartolomeo della Ginestra potranno apprezzare, dai gradini di spalti scrostati, i lanci millemetrici di Pirlo, le traiettorie impensabili di Totti, le serpertine di Lavezzi. Vi sembra una proposta sensata?

E' o non è un gioco? Gioco, giochino, giochetti. In verità me ne sto qui ad aspettare che qualche Tar rimetta tutto a posto. A posto, come sempre...

lunedì 29 agosto 2011

Lettere in Rete - 1° puntata




Ricevo e ospito sul mio blog, uno scritto di una lettrice. Non l’ho elaborato – come lei stessa mi ha chiesto – per non togliere nè aggiungere nulla ad uno sfogo che merita la pubblicazione. Aspetto con ansia la risposta di un maschietto...

“Da adolescente credevo che avrei incontrato un principe azzurro, che sul suo cavallo bianco, mi avrebbe portato con se, al salvo (ma da che?).
Crescendo ho pensato che il principe azzurro avrebbe preso le sembianze di un ragazzo, di un uomo comune, e che al cavallo bianco si potesse anche rinunciare in una città così piena di traffico.
Ad una cosa non ho mai voluto rinunciare: all'idea che un uomo potesse avere la sensibilità per capirmi e amarmi.
Oggi, oltrepassati i 40 anni, mi accorgo che è più facile incontrare il cavallo bianco, piuttosto che trovare un essere di genere maschile capace di comprendere la mente e il cuore di una donna.

Dici che esagero? Non sono solo le mie esperienze personali, a farmi arrivare a questa amara deduzione, ma il risultato di una serie di confidenze e scambi di idee raccolte da altre donne, amiche e non.
L’elemento comune è l’idea di un uomo che non sa identificare ed esternare i propri sentimenti, e non sa distinguere gli stati emotivi dalle percezioni fisiologiche. Molti uomini le emozioni le vivono direttamente sul corpo, senza rielaborazione mentale, senza necessità di interpretare o sintetizzare con un semplice “ti amo” che racchiude in sè una vastità di significati.

Al contrario spesso restano sconvolti o spaventati dal “ti amo” di una donna, per la naturale reciprocità di esternazione che questa comporta, come se questo li facesse entrare in una specie di gabbia, quella di chi, a quel punto non può più non riflettere sui propri sentimenti e tanto meno può esimersi dall’esternarli.

A quel punto emergono le dissonanze emotive: lui sempre più sfuggente, lei sempre più insicura, bisognosa di rassicurazioni e di amore. Lei vorrebbe sentirsi dire che è nei suoi pensieri, che è importante, che non vuole perderla, peggio….. “non posso vivere senza di te!” .
Lui si pensa già incastrato e scappando pensa: “no grazie, preferisco vivere!”. L’esito al 99 % è immaginabile.
Non convinta della malafede degli uomini, mi sono arroccata su una mia certezza. Uomini e donne siamo diversi non solo per forza fisica e quantità di peli (e questo non sempre), ma perché sentiamo, percepiamo cose diverse in modo diverso. Il problema è che non riusciamo ad essere complementari. Le donne si affannano a “femminilizzare” gli uomini e loro si aspettano delle donne con una mentalità “maschile” cioè più concreta.

Dunque non solo non potranno amarsi, ma non riusciranno neanche a capirsi perché, arroccati nelle proprie verità, non sanno più ascoltarsi.
Aldo, non avermene a male, se sono stata severa con gli uomini. Ci sono, come sempre, le dovute eccezioni, e se oggi ti chiedo un confronto su questi argomenti, è perchè esistono eccezioni”.

A noi la risposta...

domenica 28 agosto 2011

La bellezza delle piccole cose




Oggi vorrei parlarvi della bellezza. Non della bellezza di una donna, della bellezza di un sentimento o di un cellulare ultima generazione. Ma della bellezza delle cose di tutti giorni. Se la bellezza è un lusso, un addobbo opzionale, oppure se è un diritto, parte essenziale della vita come lo è la tutela della salute o il diritto all’acqua. Vorrei parlarvene senza mettere su un discorso pomposo e astratto, ma riferendovi di cose molto pratiche su cui ho riflettuto passeggiando, semplicemente, per le strade di una città qualunque. Bellezze e bruttezze molto semplici, molto pratiche, quotidiane.

Per cercare di capire di questo concetto, occorre camminare e guardare. A Lavagna, per esempio, ci si può imbattere, in edifici di una bellezza estasiante.
A rendermeli belli è quel di più dalla sua cruda funzione: l’armonia intrinseca della costruzione, i dipinti sulla facciata, il paziente lavoro dei pittori che si ingegnano nell'inventare trompe d'oeil. Quei palazzi sono stati costruiti pensando anche alla sua bellezza, spendendo per questo qualcosa, forse molto.

Poi ci sono costruzioni repellenti. Nessuno, credo, possa varcare quelle soglie con spirito sereno: tapparelle bianche, tonnellate di materiali ostili come cemento e acciaio, profilati con strane crasi cromatiche che urlano vendetta. Certo, certissimo, che i suoi alloggi saranno assai più confortevoli delle camerate di un antico istituto, che i servizi igienici assai più numerosi e decenti. Ma non c’è nessuna bellezza lì, nessun conforto per l’anima. Se esiste un’anima che ha bisogno di bellezza.

Aggiunge qualcosa di essenziale alla vita una casa bella a vedersi? Io credo di sì.

Io non credo invece che sia possibile vivere bene nello squallore, io non credo che sia giusto che accada. Credo addirittura che sia stupido, ignobile, costringere gli uomini a vivere nello squallore. Il fatto è, dicono, che la bellezza costa. E che una volta era possibile fare le cose belle perché la manodopera costava poco. È vero. Ma è vero in parte.
Se vuoi fare della bella architettura il suo costo aggiuntivo non sarà superiore al 5-7% rispetto a una schifezza. In un paese che è 200 volte più ricco di cento anni fa, è proibitivo spendere per la bellezza? Davvero non possiamo più permettercela?
Sono portato a credere che non sia tanto la mano d’opera, quanto il di più di guadagno a rendere proibitiva la bellezza. Ciò che chiamiamo speculazione è il nemico numero uno della bellezza. Non c’è in ogni città palazzo popolare, casa operaia costruiti prima della guerra che non abbia, seppur minimo, un suo segno di eleganza, di gratuita offerta di buon gusto.

A Genova nella casa che fu dei carbonai una scritta dice: ricordati che un lavoro, anche il più umile, se è fatto bene crea bellezza. Cento anni fa, dei miserabili scaricatori di porto entrando nel luogo del loro lavoro la prima cosa a cui erano invitati a pensare era la bellezza insita in ciò che stavano facendo. Un secolo fa pensavano anche alla bellezza oltre ai bisogni primordiali.

Una lezione che non abbiamo imparato...

giovedì 25 agosto 2011

Punti di convergenza



A parte l'imbarazzante cognome, dell'onorevole Bocchino dobbiamo sopportare anche l'imgombrante presenza su tutti i mezzi di comunicazione, per qualche motivo che onestamente mi sfugge. 
Assurto agli onori della cronaca per la sua fedeltà all'ex camerata Fini, ora ce lo dobbiamo sorbire in tutte le salse. Qualche tempo fa l'ho intravisto in coppia con un altro prezzemolino (Alfonso “Volatile” Signorini) concionare la platea sulla cottura del pesce.
Oggi il sito del Corriere della Sera – mica pizza e fichi – lo ritrae in compagnia di una discinta signorina di nome Sabina Began (piacere, Aldo Boraschi).

Questo rispettabile ex fascista - la cui posizione politica fino a dieci anni fa era più o meno alla destra del faraone Tutankamon – appare in tutti dibattiti, presentazione di libri, tribune politiche, concorso delle grandi tette, concerti di musica sacra. La scena è sempre la stessa: l'onorevole Bocchino seduto al centro che dialoga con espressione immutabilmente cordiale. Che i suoi interlocutori siano di destra, sinistra, centro, liberali, nazisti, monarchici, eschimesi, animisti, a Bocchino poco importa. Egli si rivolge con urbanità a tutti, e sempre con lo stesso tenace proposito: quello di trovare punti di convergenza per distruggere il suo ex alleato Berlusconi.

C'è chi lo ascolta con un sorriso affabile - se non altro per contraccambiare la sua ammirevole educazione -, e addirittura prende appunti. Ma c'è anche chi sgarbatamente si distrae, parla con gli altri, guarda le gambe delle donne, confeziona aereoplanini di carta e glieli lancia addosso.

L'onorevole Bocchino, quando la sera rincasa, informa i suoi cari delle nuove imprese collezionate durante la dura giornata di lavoro. Quando anche gli astanti cominciano a mettere mano agli aereoplanini di carta, l'onorevole Bocchino prende atto, lieto, che ci sono dei punti di convergenza con il dibattito del pomeriggio...

mercoledì 24 agosto 2011

Il valore di un gesto




Non so se lo spiaggiante Battisti faccia bene o meno a prendersi gioco degli italiani (compresi i famigliari delle vittime delle sue malefatte), dicendo di preferire le spiagge – e le donne – brasiliane alle fredde mura di un tribunale. D'altra parte esiste un diritto intenazionale e a quello occorre attenersi.

Quello che francamente irrita è quel sorriso da piano-bar che ostenta in tutte le inquadrature.

Eppoi, quella mancanza che vanifica tutti gli sforzi ideologici – conditi di aberranti errori – dei suoi compagni che hanno pagato con la vita la loro erronea visione di Stato che avevano elevato a guerra armata.

Cesare Battisti non risulta che abbia mai chiesto scusa e, men che meno, si sia mai attribuito parte della responsabilità politica e morale dei fatti di sangue che gli sono stati imputati.

Non fu così una quindicina di anni fa quando undici uomini di Lotta Continua alzarono la mano e questa lacuna la colmarono. Era il 1997. Quegli uomini non avevano nessuna responabilità penale, ma fecero un bel gesto. Che non fecero, per esempio, gli agenti dei servizi segreti per i fatti di piazza Fontana, anche se qualche responsabilità morale (ampiamente accertata) ce l'avevano.

Non chiesero scusa nemmeno i direttori dei grandi giornali per avere scritto che l'innocente Valpreda era un mostro stragista o che l'innocente Pinelli si uccise “perchè sapeva troppo” (Piccolo inciso. Sono entrambi anarchici: da sempre bastonati dal clero e dallo Stato come direbbe Guccini).

Per tutto questo e per altro ancora quegli undici uomini fecero bene a chiedere scusa e Battisti ha compiuto un altro errore. Quella di 15 anni fa fu la sigla di una pace senza condizioni; c'era soltanto il proposito di rispettare una memoria (loro e altrui). Non c'è mai un controvalore per l'onestà intellettuale. Vale in sé, e pazienza se vale per tutti, anche per chi non se lo merita.

Oggi le parole di odio contro lo stato “nemico” vengono da autorevoli (!) esponenti di governo come Bossi, che nei loro comizi parlano di mitra e sui loro giornali ci ridono sopra.

Quegli undici di Lotta Continua erano poco più che ragazzi. Battisti e i leghisti sono persone adulte: sbrigatevi, avete poco tempo per chiedere scusa...

lunedì 22 agosto 2011

Filosofi al potere




Il mio amico Adelmo – che la sa lunga – ogniqualvolta si va su certi discorsi, finisce sempre con il solito refrain: “è inutile discutere: siamo in un mondo materialista”. Secondo me ha capito male: viviamo in un mondo regolato dalla metafisica, dominato dai filosofi. In questa straordinaria epoca, tutto è perfetta sostanza se proviene dal mondo delle idee. Tutto è illusione se scaturisce dalla materia. La verità è nel verbo. Nella realtà e nell'esperienza alligna solo l'illusione.

Tanto è vero che il verbo più usato dai “filosofi di Stato” è percepire: povertà, sicurezza, inflazione, ricchezza.
Tutto non è constatato, ma percepito. Il popolo vive nell'inganno. Il filosofo solo conosce la verità. La verità che egli può spargere sul popolo è distillata in gocce omeopatiche, in modo che il ristretto comprendonio delle masse non se ne abbagli.
Questo è ciò che pensano gli attuali padroni del mondo, che sembrano presidenti di nazioni, amministratori di multinazionali, segretari di partiti, ma sono in verità filosofi, dottori della metafisica.

Va umilmente spiegato ai metafisici che la percezione è un'esperienza sensoriale mendace, fallace e volgare. La verità risiede, per esempio, nella povertà scientificamente rilevata, nella statistica Istat.
Non sfugge ai filosofi che governano questo paese che l'insubordinazione delle masse alla verità del Verbo è foriera di anarchia. Il nocciolo è questo: il mondo può essere governato in modo impeccabile solo se i popoli sono finalmente disposti a riconoscere la loro incapacità a distinguere ciò che è vero da ciò che loro percepiscono.

Non esiste nell'economia classica il concetto di povertà percepita, essa è parto della cosiddetta economia creativa, la più grande conquista intellettuale di questo millennio.

Questo concetto è stato mutuato in verità dalla meteorologia. Quando forniscono le previsioni, i metereologi danno sempre due informazioni: la temperatura oggettiva e quella percepita. Perché 40 gradi sono molto diversi se l'umidità è, ad esempio, al 10% o al 90%, o se sono vissuti nel cuore di una montagna o nel centro di una metropoli. Se voglio andare a Rio de Janeiro o a Vladivostok, ciò che mi serve sapere è che là la temperatura percepita sarà di +48 gradi e -30, qualunque cifra segni la colonnina del termometro. I metereologi accordano all'esperienza sensoriale un'importanza assoluta, da privilegiare rispetto al dato puramente statistico, e naturalmente fanno bene se vogliono che il loro lavoro serva a qualcosa per la gente.

I filosofi di governo hanno rubato il concetto e lo hanno usato come sanno meglio fare: per servire se stessi.

Provate solo per un attimo a riflettere, provate a chiedervi quanto di ciò che provate, sperimentate, vivete e patite, vi sia negato come verità in nome di una verità superiore che non siete destinati a conoscere se non per bocca di quelli che dicono di possederla. E vi governano. Qui e nel mondo intero.
Provate a pensare cosa accadrà della nostra vita intelligente e della stessa nostra libertà, quando il governo dei filosofi sarà universalmente realizzato e operante...

sabato 20 agosto 2011

Il ricordo di un silenzio



L'altra sera, scorrendo distrattamente i titoli del Tg1, vedo un intrigante montaggio con dissolvenza veloce tra un tiro arcuato di Francesco Totti e la faccia da biscotti Plasmon di Calderoli. Il rullo scorre velocemente sino alla sua naturale conclusione: un servizio sulla morsa dell'afa sull'Italia (Ma va? D'Estate fa caldo? E da quando?).

Dopo un breve cappello in studio del conduttore, parte il servizio di apertura con un primo piano inquietante di Calderoli.

Uso quel briciolo di autorità concessami dalla mia famiglia e interrompo (momentaneamente) quel sabba di grida e lancio di vivande che ci ostiniamo a chiamare "cena".

Alzo il volume e impongo il silenzio (mia figlia esegue, non prima, però, di aver esalato una breve ma argentina pernacchia).

Poi mi torna in mente che anch'io venivo zittito dagli adulti proprio a quell'ora. Ma c'era qualche differenza (tralasciando la pernacchia che mi avrebbe provocato numerose ecchimosi sul corpo).

Mi veniva ordinato di chiudere il becco quando rapirono Moro o per la crisi di Cuba. Per sentire un passo di un comizio di Berlinguer o un intervento di Pertini.
E poi: silenzio religioso quando scorrevano le immagini dell'alluvione del Polesine o quando c'era la triste conta dei morti alla stazione di Bologna.

Ricordo che, nonostante i miei pochi anni, riuscii a capire dal comportamento degli adulti che la situazione era speciale, l'avvenimento di straordinaria importanza. Quell'ordine eccezionale e perentorio è un ricordo che mi porto dentro tutt'ora.

E allora, rifletto. I miei figli rischiano di ricordarsi per tutta la vita di quella volta che il padre impose loro il silenzio perchè doveva sentire le dichiarazioni di Calderoli.

Va bene che ogni generazione ha le sue "ore fatali" ma questo, francamente, mi sembra troppo.

Spengo la Tv e dò il rompete le righe: "Scusate, ragazzi, ma era un falso allarme. Continuate pure a fare casino e a lanciare i tortiglioni al pomodoro"...

mercoledì 17 agosto 2011

Eppure il vento soffia ancora




Siamo circondati”. Una striscia di angoscia mi sale dentro, venata di sentimenti a cui non riesco a dare un nome.
Mi capita quando realizzo che qualcuno ha dato l'opportunità a S.V. (Sua Vuotezza, alias Simona Ventura) di pontificare sui media nazionali sull'inutilità della Tv di Stato (lei?!?).
Oppure quando percepisco che parte del nostro destino è in mano a Calderoli.
Ma anche quando prendo atto che parte dei miei (pochi) risparmi sono alla mercè di un circolo di avvinazzati astiosi che prendono il nome di Standard & Poor's.
Quando le frustranti palle di Fede non mi fanno più ridere; quando Capezzone mi fa vergognare di essere un suo contemporaneo.
Quando Berlusconi e D'Alema parlottano e ridacchiano insieme penso: “Siamo circondati, non riusciremo mai a saltarci fuori indenni”.

Dopo però, capto sulle onde medie “Eppure il vento soffia ancora” di Pierangelo Bertoli, scendo dalla macchina e incontro nel caruggio Brunin. Incidentalmente ci imbattiamo in Giovanni di Padivarma e ci mesciamo tre pinte di birra bionda fredda accompagnate da striscie di focaccia alle olive appena sfornata.
Mi compro un libro e, sfogliandolo, ne annuso l'aroma. Leggo un passo del Don Chisciotte di Cervantes: lo sorseggio un po' alla volta come un buon wishky torbato da oramai dieci anni (una specie di auto reverse: quando lo finisco ricomincio daccapo).
Parlo con mia moglie dello scibile intonso sotto un cielo di stelle che pare dipinto.
Accendo il computer e leggo un commento del mio amico Dario e una nota poetica di Marina da Rimini.
Abbraccio mia figlia.
Poi quando tutti sono a letto, mi stappo un'altra birra e mi metto a scrivere.
In pace.

E allora mi chiedo e vi chiedo, amici miei: perchè continuiamo a sottovalutarci?
E, soprattutto, come abbiamo potuto credere, anche solo per un attimo, che questa gente qui possa veramente toglierci qualche cosa?...

domenica 14 agosto 2011

I Miserabili




Lacrime e sangue. Questo è ciò che che ci è stato promesso mentre eravamo intenti a fare la lista della spesa per il pranzo di ferragosto. La manovra economica di questo sciagurato governo ci renderà più poveri, indiscriminatamente? O colpirà i ceti più abbienti? O lascerà tutto come prima, compresi i cervellotici privilegi della Casta? Insomma saremo – in futuro - un paese ricco o povero?

Da come la vedo io, resteremo un Paese miserabile, un Paese di miserabile ricchezza e di miserabile povertà. Un Paese di miseria dove è sempre più difficile trovare tracce di nobiltà. Un Paese dove, facendo i conti in base al semplice principio di ragionevolezza, quello che dovrebbe costare molto costa poco e quello che dovrebbe costare poco costa molto. Dove l’idea del valore delle cose, e della loro essenza, sembra definitivamente invertita.

Ci sono state code di venti, cento, mille chilometri lo scorso week end, di gente che se ne andava al mare e dal mare ci tornava, e questo, è stato detto, è segno di quanto siamo ricchi. No, questo è un segno della nostra miseria. Quelli ricchi non si mettono in coda, al mare ci vanno in elicottero o in eurostar. Gli scandinavi, che sono ricchi davvero - pur essendo inopinatamente socialisti -, al mare ci vengono quando noi siamo a lavorare, e si scelgono i momenti più belli dell’anno, non l’unico momento che hanno.

Chi si è messo in coda per andare a farsi un bagno nelle nostre splendide spiagge si è certamente fermato a fare benzina e avrà una volta di più imprecato sul costo astronomico della benzina. Poi, per non morire disidratato, si sarà preso qualche bottiglia d’acqua all’autogrill. E ha pagato una bottiglietta da mezzo litro, uno virgola cinque euro. Tremila lire, per chi non lo vuole capire all’europea. Ha pagato l’acqua il doppio della benzina. Allora, se costa meno della metà dell’acqua, la benzina non costa niente, vi pare? Oppure l’acqua ha un prezzo delinquenziale.

Questo Paese spaventato e impoverito è disposto a spendere cifre disumane per bere acqua minerale. Ma l'Italia non è un paese desertico. E se fosse che le nostre riserve idriche fossero inquinate, non saremmo forse autorizzati a fare una rivoluzione? Un Paese senza acqua da bere è un Paese più che miserabile. Ma forse l’acqua minerale è un vizio: l’acqua minerale ci fa sentire signori, ricchi, fichi.
Abbiamo le bollette energetiche più care d’Europa ma i cellulari più a buon mercato. L’acqua, la luce, il gas, la casa dovrebbero essere accessibili a ognuno senza doversi ridurre in miseria, ma un telefono mobile potrebbe benissimo costare 10 volte il suo prezzo, e funzionare per anni e anni, come una buona lavatrice, come un buon infisso, senza privare alcuno del diritto alla comunicazione.

Andare in giro a mandare fotografie idiote con il cellulare è miserabile ricchezza, pagare metà del proprio stipendio per due buchi in periferia è miserabile povertà. E l’una e l’altra coabitano incarnate in milioni di miei connazionali. Sarebbe civilmente corretto che l’energia elettrica costasse la metà, ma un vestito Armani dieci volte di più. Ad un prezzo politico deve essere pagato l’indispensabile per vivere.

L’armadietto del bagno zeppo di medicine è incivile ricchezza, prendersi la polmonite al pronto soccorso è immorale povetà, e le due cose sono in coabitazione perfetta. Una medicina che ti solleva dal dolore, che ti guarisce dovrebbe costare qualcosa per tutti, un euro per chi solo quello, mille per chi ne ha milioni. La gratuità genera indifferenza e disprezzo. La vita non è gratis, e quando lo sembra è solo un’ orribile illusione: c’è qualcuno che sta pagando per te.

Ecco perchè siamo un paese tragicamente povero e stupidamente ricco...

mercoledì 10 agosto 2011

Todos Caballeros




Ci sono frasi dette in risposta alle mie affermazioni che mi accompagneranno, penso, sino alla fine della mia vita. Quando espongo le mie opinioni sul mondo (solitamente al bar o alle cene con amici o a mia moglie) al termine giunge puntuale il teorema: “Va beh, ma allora tu sei anarchico”. Ammetto che i miei concetti sono bislacchi - soprattutto rapportati al mondo d’oggi -, ma l’uso improprio della parola anarchia è la conferma di quanto poco si sappia di questo vocabolo.

Essere anarchici spesso provoca ammiccamenti, addirittura affetto. Gli adepti di questa antica federazione godono di una particolare libertà di espressione in più rispetto al comune cittadino, come se fosse maturata nel tempo una particolare sensibilità protettiva. Come è avvenuto, nel tempo, agli indiani d’America o per il panda, o come avviene al giorno d’oggi per il fungo di Borgotaro. Non so se questo possa far piacere ai (tanti) anarchici che ho conosciuto. Se ricordo bene, penso di no.

A dire il vero non so se ce ne sia ancora in giro, di anarchici, almeno in numero tale da mantenere la denominazione. Ma questo non importa; importa solo pensare che ci siano. Il problema è il ricambio, l’acuta denatalità degli anarchici. Spariti i vecchi non ne vengono su di nuovi. E i pochi nuovi non hanno bene in testa di che cosa si tratti. L’anarchia è una cosa difficile. E ingrata. Non c’è nessuna certezza nell’anarchia, non c’è obiettivo abbastanza gratificante, almeno in tempi brevi. Non ci sono premi, non potere, nè scambi vantaggiosi nella militanza anarchica. L’unica certezza (frustrante) è che così come l’Umanità si è costituita, è inadatta alla realizzazione dell’Ideale anarchico. Occorre lavorare all’Umanità Nova. Lavoro di epoche, inadatto alle nuove generazioni.

E poi, occorre leggere tonnellate di libri. Nelle case dei braccianti anarchici c’erano più volumi che in quella dei padroni della terra che lavoravano.

Gli amici anarchici che avevo per rilassarsi leggevano la Divina Commedia o uno strano libro – che non ho mai più rivisto – che parlava del mondo intero. Nessuna opera di Bakunin o Cafiero o Malatesta. Quelle le leggevano quando si incontravano nelle buie federazioni di Carrara. Tra le mani avevano sempre Dante perchè lì dentro c’era una rivoluzione assai più importante da capire di quella contenuta in un opuscolo politico. L’allenamento per la vita è quello delle opere immortali: riflettere, capire e decidere.

Questo si fa sopra ogni altra cosa, mi è stato insegnato. Le parole chiave dell’Anarchia sono Solidarietà e Responsabilità: non sono astratte parole d’ordine ma è il massimo che può dare il cuore e il cervello di un uomo in funzione della vita di tutti. È un’ottima ragione perchè ci siano ancora in giro degli anarchici. Gente irriducibile, perchè irriducibile è la libertà. il lusso aristocratico della libertà. Todos Caballeros. 

Gli anarchici pensano che gli uomini debbano essere tutti così. Tutti cavalieri. Uguaglianza nella regalità. Per questa ragione se i liberali indicano nel signor Ford il loro più grande uomo di azione, i comunisti il compagno Lenin, il più grande uomo anarchico della storia è stato Don Chiosciotte della Mancia. Lo scudiero e la sua irriducibile regalità libertaria. Todos caballeros, amici miei. Anche tu, Dario, amico mio, che cavaliere lo sei per davvero.

Todos caballeros. Todos...

martedì 9 agosto 2011

Il gene del verme




Sito del Corriere della Sera, più o meno in mezzo alla pagina iniziale. Dopo averci fatto capire che la finanza globale sta andando a rotoli, i redattori di uno dei siti più frequentati a livello nazionale, ci rende edotti che la prima sigaretta mattutina – quella dopo il caffè e i seguenti bisogni fisiologici – è la più deleteria per la nostra già cagionevole salute. Quella bionda, infatti, aumenterebbe il rischio di contrarre il cancro a polmoni, testa e gola del 78%. Letta la notizia sic et simpliciter, ci sarebbe da pensare che chi, come me, soddisfa il bisogno di nicotina nella prima mezz’ora dopo essersi svegliato, ha un’altissima probabilità di morire in un letto di ospedale soffrendo le pene dell’inferno. Andando a leggere l’articolo, invece, scopriamo che proprio non è così. Il titolo altro non era che l’ennesimo memento mori che ci viene propinato.

Con la vecchissima legge del bastone e della carota, i grandi burattinai tengono alta la tensione su altre questioni, cercando di sviare l’attenzione su affari molto più importanti.

Così qualche mese fa abbiamo imparato che Sharon Stone sconfisse il cancro bevendo il caffè e le malattie cardio vascolari si possono prevenire con un bicchiere di vino rosso (quello bianco invece, fa solo male, boh...). Di più. Una indagine di qualche misteriosa università americana ci solleva il morale dicendoci che la vita media si alzerà fino alla soglia di 128 anni (perchè non arrotondare fino a 130, cribbio!), grazie al gene di un non ben specificato verme. 

A parte la fastidiosa sensazione di essere il balia delle lobby mondiali (coltivatori di caffè, viticoltori, allevatori di vermi), resta l’impressione che l’informazione scientifica si strutturi secondo regole di una spassosa novellistica.

L’era della tecnologia non ha ancora generato – nonostante il prodigioso moltiplicarsi di mezzi comunicazione, oppure anche in ragione di quello – un metodo linguistico consono alla realtà. Quello che accade nei laboratori è argomento da bar e da piazza del mercato e viene trattato quasi con superstizione. Tutti si approcciano con credulità religiosa o con scetticismo beffardo; tutti atteggiamenti prescientifici e preistorici che non hanno niente a che vedere con la realtà. A questa stregua, è molto difficile stabilire una diversità tra il culto della Madonna del Carmelo e quello del verme della longevità.  L’attesa fiduciosa di un miracolo (o l’autodifesa dall’inganno) ci restituisce alla nostra atavica condizione di “folla in passiva attesa”. Per la religione può anche funzionare.

Ma per la scienza?...

giovedì 4 agosto 2011

La parte femminile del Creato




Mi ritengo una persona fortunata, per un ventaglio di motivazioni. Lasciando perdere per un attimo il fattore principale che è la salute, la mia fortuna risiede nel fatto che sono stato educato da donne. Non allevato, ma educato. Prima di tutto da quelle che formavano la mia famiglia, poi le donne che con il passare degli anni mi sono state accanto. Sono cresciuto sotto la sguardo di mia madre e delle mie nonne, poi sono maturato guardando negli occhi giovani donne alle prese con le rivendicazioni femministe. Due sguardi diversi, ma in egual misura formativi. E so, sono fermamente convinto, che la parte migliore di me viene proprio da lì, dalle donne. So che sono capace di sensibilità che altrimenti ignorerei, di un rispetto per le vite che altrimenti sarebbe stato molto più sbadato. Come tutti gli altri maschi – compresi quelli che hanno troppo orgoglio per ammetterlo – ho accumulato un gran debito con la parte femminile del creato che non potrò mai estinguere del tutto. 

Ricordo quanto ho imparato della vita
dalle donne che combattevano per la parità. Per riconquistare la loro dignità, il rispetto, i diritti di una società misogina. E la disperazione quando sbattevano la faccia contro un muro di gomma fatto del disprezzo, dell’insensibilità, della bestialità con cui reagivano i maschi al potere. Ma ricordo anche le vittorie – tante – che le hanno salvate. Ma hanno salvato anche me: dalla parte peggiore di me stesso.

Chi ha creato la mia personalità è vissuto anche nella zona neutra della sessualità. In quella del sesso non detto. Ho avuto tanti amici e amiche omosessuali. È da loro che ho imparato quel poco di sensibilità che mi riconosco, quel gusto del bello che mi addolcisce la vita, quella generosità che mi dipinge la giornata.

Il 26 luglio, il Parlamento di questo paese ha preso a schiaffi la dignità degli omosessuali. Ha cancellato di colpo la loro dignità, la loro libertà, i loro – pochi – diritti. Ha fustigato il loro corpo “diverso”. L’aver respinto l’aggravante dell’omofobia nei reati penali non è altro che un indecoroso esempio dell’arretratezza morale di questo paese. L’idea di sessualità ritorna ad essere una dottrina ostile non solo agli omosessuali, ma anche ad un sentimento etico che si sperava fosse diventato universale.

Questo provvedimento non può nemmeno richiamarsi alle comuni radici cristiane, ma solo alla parte più farisaica e ottusa della dottrina cattolica. L’Italia può candidamente dichiararsi una stato fallocratico. Chiunque può legittimamente e con giusto orgoglio gridare per le strade tutto il proprio disprezzo nei confronti dei “ricchioni”. È l’ultimo tassello di questa nazione che ha messo a posto gli operai e le donne carine è legittimo comprarle.

Ricordo le battaglie a fianco delle donne, ricordo lo scudo che facevamo ai nostri amici “diversi”. A volte spero ancora di essere quel ragazzo e di imparare ancora dalla parte femminile del Creato. Sarei onorato di combattere ancora per loro. E per me...

martedì 2 agosto 2011

Onore a voi, Poeti




Essere blogger – o giornalista – ti dà la fortunata opportunità di conoscere altre realtà. Altri e diversi modi di concepire l’uso della scrittura per esprimere uno stato d’animo, una persona, un avvenimento. Uno di questi è la poesia. È un falso luogo comune dire che noi siamo una nazione di poeti. Io, per esempio – pur usando la parola come mezzo di sostentamento – vanto una assoluta ottusità in fatto di creativa poetica. Una volta provai a rimare. Il risultato più che poetico fu patetico.

Eppure le statistiche degli editori parlano di almeno diecimila volumi di poesia editi in un anno. Libri che spesso vengono diffusi dagli stessi autori, non di rado porta a porta. Sovente i poeti si pagano il prezzo della stampa o altrettanto sovente vengono truffati dagli stampatori-editori. Ne conosco tanti. Molto di loro hanno risparmiato una vita intera, si sono negati il più banale dei vizi per coronare il sogno di una vita intera, un’insopprimibile necessità.

Non è immaginabile che nessuno di loro pensi guadagnarci qualche cosa, o addirittura campare di poesia. I poeti che oggi in Italia possano affermare di campare scrivendo versi rimati si possono contare sulla dita di una mano.

Nell’epoca del denaro e del consumo, la poesia è l’unica attività della mente che non c’entra nulla con l’uno e con l’altro. Come si direbbe oggi, è fuori mercato. Il poeta è un alieno. Nello slang giovanile è un “tipo fuori come un balcone”. I poeti godono e soffrono tutti allo stesso modo, in un regime di extraterritorialità dall’epoca in cui vivono.
Invidio i poeti, tutti i poeti. Invidio il loro essere apparentemente indistinguibili. Ma solo apparentemente. Hanno un guizzo che io non ho. Sanno andare in posti a me preclusi, aprono porte a me sbarrate, vedono cose a me occultate. Il loro pensiero ha un motore ausiliario che lo spinge più lontano dal mio. Hanno una scintilla nell’anima che vale la pena di invidiargli.

È bello pensare a tutti i poeti. Ma proprio a tutti. Anche a quelli sconosciuti. Quelli di cui nessuno – tranne il paziente coniuge o il benigno vicino – leggerà mai una riga. Pensiamo per attimo a tutti loro. Non chiedono nulla allo Stato, non pesano sui contribuenti, non pretendono altro che poter leggere o far leggere i loro versi con la legittima speranza di non essere sbeffeggiati. Credetemi: è una nazione parallela e abbraccia tutti ceti sociali, tutte le religioni e tutte le età. Non è escluso che tra di loro si nasconda un Montale o un Edgar Lee Masters con nulle possibilità di essere scoperto. Scrivono le loro poesie nel cesso di casa o nell’ultimo banco di scuola o nel tavolo più nascosto della mensa aziendale. Scrivono versi e nel farlo il loro animo viaggia lontano, mentre il mio si rattrappisce in un angolo oscuro.

Onore a voi, poeti. E tanto di cappello...