Stavolta è il giro di Luigi De Filippo. Il circo del patetico va sulle immagini degli anni ruggenti per poi stringere lo zoom sull’oggi desolato, fatto di solitudine, disinteresse. Poi la morte in silenzio, senza clamori. Si è comunque meritato, in colpevole ritardo, qualche articolo di spalla, un servizio televisivo, a metà strada tra la cronaca e lo spettacolo. Ma c’è anche chi non ha nemmeno un briciolo di notorietà.
Parlo dei poeti, di quelli che muoiono poveri e soli. È accaduto a Amelia Rosselli, a Dario Bellezza, a Alda Merini.
Struggente l’ultima frase pubblica di Bellezza che, chiuso in un dignitosissimo isolamento, stava facendo i conti con una malattia terminale. Ebbe a dire: “Non c’è nessuno a farmi una spremuta d’arancia. Tutto è così lontano, tranne la morte. La mia morte”.
Ben più della loro difficile arte, acquattata in fondo alle librerie come una bestia che si anfratta nella giungla man mano che il progresso avanza, è la loro fine dolorosa che attira la nostra attenzione. E a volte, purtroppo, anche la pubblica carità.
Sono semisconosciuti in vita. Sono noti solo grazie alla sensibilità di una enclave di italiani che attingono poesia nella poesia. Conoscono la fama da giornale solamente in quanto strumento del patetico, ultimamente una feconda branchia del commercio televisivo.
Scrivo questo non per gli altri, per questo paese sempre più ignorante e illetterato e impoetico.
Scrivo questo per me, per mettermi al pubblico lubridio. Per me e per quelli come me – che magari ce la tiriamo da intellettuali – che non conosciamo nemmeno un verso della Rosselli o di Bellezza o della Merini, ma in compenso siamo informatissimi della cronaca della loro emarginazione.
In più siamo enciclopedie viventi del festival di Sanremo o del campionato di Calcio di serie A o del delitto di Avetrana.
È l’unica poesia che ci siamo meritati...